Le voci e il silenzio
83hanno presi a Parma e Piacenza i tedeschi […] Mio fratello Thulo era a Trieste e lavorava
con le giostre, con le gabbie, […] l’hanno arrestato perché straniero e l’hanno portato alle Tremiti, è stato due anni lì, poi con i bombardamenti è venuto su ed è scappato […]. È tornato una sera, non ce lo saremmo mai aspettati, era a pezzi, scalzo con i vestiti strap- pati, Thulo ha le sofferenze sul viso più di me. […] Era stato imprigionato dalla Polizia dalla questura di Trieste, anche gli Hujer erano lì, poi li hanno mandati via, a Campobasso, poi a Ustica, lì ci è finita tutta la famiglia Held, poi sono venuti in Italia e sono rimasti a Rimini […]. Per due anni non abbiamo saputo nulla di mio fratello, il mio babbo non ha mai ricevuto informazioni, credevamo fosse morto […]. Non si parlava di quelle cose per- ché poi si diventa tristi […]. È stato straordinario rincontrarlo […]. Abbiamo sofferto tanto e pensandoci mi viene in mente tutto il passato, non sembra vero che ce l’abbiamo fatta, ringraziando Dio, abbiamo avuto tanta fortuna, abbiamo visto tanti morti, gente nei fossi, gente impiccata. […] abbiamo lavorato a Beirut con la Liliana Orfei […]. Sapevamo anche della situazione in Germania, infatti venti anni fa è venuto un sinto, si è salvato, faceva il cuoco ci raccontava che i bambini piccoli, venivano timbrati e messi nel ghiaccio, una mia nipote ha ancora il timbro sul braccio, erano tutti immatricolati, i bambini li mette- vano nel ghiaccio per capire quando potevano sopravvivere nel freddo, gli toglievano la pelle. Ci sono parecchi che non sono tornati, da Mauthausen, sempre la famiglia Reinhart, diverse famiglie, anche i fratelli di mia nonna, era gente di una certa età, sono stati anche in un altro campo ma non ricordo più il nome, lavoravano come bestie, ed avendo l’origine tedesca sinta li chiamavano «Zigeuner», lo «Zigeuner» era la persona inutile […]. Abbiamo poi ascoltato i racconti di chi si è salvato. C’è un signore che abita a Stoccarda, è l’unico che si è salvato di tutta la famiglia, sua moglie è una sinta, i figli sono sposati tutti con
gagi […]. Lui si chiama Zenalo, che significa verde, era venuto a trovarmi, perché io avevo
due violini vecchi tedeschi, è venuto tre giorni qui da me, e piangeva quando mi raccon- tava di quello che è capitato alla sua famiglia, sono passati in due tre campi e sono sinti tedeschi. Bastava dire «Zigeuner» ed era finita, davanti alla porta facevano una croce, bambini o grandi non faceva differenza. Mia moglie si chiama Gabrieli Silvana ed è una sinta della famiglia Adelsbürg, il cognome Gabrieli l’hanno preso per non essere deportati e mandati via, loro sono nati in Italia, ma i suoi non sono italiani, i sinti dovevano cam- biare nome altrimenti, essendo stranieri, li mandavano fuori. Mia moglie è nata a Zoppola in provincia di Pordenone […]. Ci siamo trovati sulla Fiera di Gonzaga, in provincia di Mantova, avviene l’8 di settembre, la più grande fiera, festa per i sinti, là si sposano, là si lasciano, là si combinano, a Gonzaga c’è tutto, un grande luna park e un gran campo per i sinti, lo sanno da secoli, i conti di Gonzaga, avevano una grande fattoria, l’hanno lasciata ai sinti, tutto succedeva a Gonzaga […]. Con i miei figli ogni tanto ci raduniamo così gli racconto della guerra, mangiamo assieme, se non ci sono loro mi aspettano prima di man- giare, i miei mi hanno insegnato così, c’è educazione, ce l’abbiamo dentro […]. Io sono sopravvissuto per fortuna di Dio, Dio era con noi, il dio sinto, la Kalì, la madonna nera di Saintes-Maries de la Mer, ogni anno ci vanno tutti sinti è una madonna sinta. […]. [Entra anche sua moglie, Silvana Gabrieli] e racconta: «Il mio povero nonno e la nonna sono stati bruciati, li hanno portati in Austria. Questo me lo raccontava mia mamma, hanno fatto fare loro delle buche, li hanno messi dentro, sono passati con della polvere bianca per buttargliela sulla testa, c’era una bambina che piangeva, mia povera bisnonna le ha detto: «Ma stai tranquilla, non è niente, non piangere, ci buttano questa roba per i pidocchi», invece poi l’altro è passato, ha buttato un fiammifero e li hanno tutti bruciati, è rimasta in vita la sorella di mia mamma che ha raccontato questa storia […] facevano con tutti così, perché erano zingari, perché erano sinti, […] così sono morti tutti, bambini, vecchi, tutta la famiglia.
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Tra i partigiani sinti e rom in Italia
Vincenzina Erasma Pevarello58
Mi chiamo Vincenzina di battesimo, nei documenti Erasma […]. Ho fatto la fuitina quando avevo sedici anni […] la nostra usanza sinta è questa quando ci si sposa […] siamo andati a Lunigo, poi, in bicicletta, piano piano siamo andati in Lombardia, abbia- mo preso un carretto e un cavallino e siamo andati a Brescia per farci perdonare, l’u- sanza è che devi essere perdonato dopo che sei scappato via […]. Siamo andati al di là di Brescia, loro avevano la giostra a catene […]. Era il 1943, da lì siamo andati a Bastia, un paese, lui lì andava via, diceva che andava a giocare le carte e a pallone, aveva la sua squadra, ma non me ne sono mai accorta [che fosse un partigiano].
Da Bastia siamo andati a Belvedere, eravamo fermi lì e loro erano andati via, mi aveva detto che era andato a giocare le carte, tutte scuse, ad un certo punto vedo arrivare in paese tre macchine, e davanti alle macchine un ragazzo a braccia aperte, era la spia, io aspettavo mia figlia, ero di quattro mesi. Ho iniziato ad urlare: «I tedeschi, i tedeschi», la gente del paese ha iniziato a scappare, un tedesco non so come ha fatto a vedermi si è avvicinato e mi ha detto: «Tu hai fatto scappare!!!». Con il calcio del moschetto mi ha col- pito nel fianco facendomi cadere nell’acqua del fosso, tutto d’un tratto vedo arrivare mio marito con tutti questi uomini, ragazzi, li hanno messi lì davanti, ogni volta che passo lì me li vedo sempre e con il moschetto li hanno massacrati di botte, a uno gli è venuto fuori l’occhio, io sono intervenuta ma con il bastone ci hanno massacrati, mio marito era tutto rovinato in faccia. Ci hanno messo alla fucilazione, c’era un muro che c’è ancora adesso, «Tutti alla fucilazione». Li hanno portati con le biciclette, perché i camion erano già strapieni, e con le biciclette li hanno portati in Campo San Piero. Quando ci hanno messo alla fucilazione, ho visto che c’era un signore zoppo con la barbetta, è venuto giù aveva un bastone, ce l’ho sempre davanti agli occhi, doveva dare l’ordine di fucilarci, c’erano anche dei ragazzini di dodici anni, uno era mio cognato, vecchi, donne, bambini, eravamo quindici persone, il muro era tutto pieno, si vede che è giunto l’ordine di andare da un’altra parte e quindi non ci hanno fucilati, io comunque era già scappata, quando ci misero in fila davanti al muro nel momento in cui giunse l’ordine io presi per mano mio cognato e scappai […]. Mi sono detta: «Là saranno tutti morti» invece alla notte sono tornata e mi dissero che non avevano fucilato nessuno ma che avevano portato via tutti gli uomini. Con una signora anche lei aspettava due gemelli […]. Dovevamo andare a vedere dove avevano portato gli uomini, avevano detto che li avevano portati a Piazzola sul Brenta, […] lì c’era un comandante che si chiamava Major, solo il cognome mi ricor- do, noi sentivamo gridare: «Ci ammazzano, ci ammazzano» lo gridavano in sinto, nella nostra lingua, «Den li min ta mer», «Ci ammazzano, ci ammazzano», io sentivo la voce di Renato, lei la voce di Walter, e anche altri sinti, […] c’era anche uno che si chiamava Nino […]. Furono arrestati, ma io non sapevo cosa facesse lui, […] tornava anche alla mattina, […] lui poverino faceva il suo lavoro da partigiano, rischiava la vita anche lui.
58 Intervista a Vincenzina Erasma Pevarello, Vicenza, 2012. Si veda anche I. Rui, Quattro su dieci, Edizioni
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