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81sinti in italiano vengono definiti nomadi o zingari, ma il sinto è tutta un’altra cosa Mio

Le voci e il silenzio

81sinti in italiano vengono definiti nomadi o zingari, ma il sinto è tutta un’altra cosa Mio

padre si chiamava Giuseppe Reinhart, era nato a Winterthur nel 1897, in Svizzera. Arrivò in Italia nel 1910 […]. È venuto in Italia come migrante. Mio nonno era circense, facevano ballare l’orso, mia nonna e i suoi due figli, mio zio e il mio babbo con l’orso, così sono arrivati in Italia. Andavano in giro con i circoli, ma non erano circoli, erano i postoni, c’erano quattro o cinque banchi, un trapezio, con questo orso, scimmie ed altri animali, li facevano lavorare paese per paese, in certi paesi però non li facevano nemmeno lavorare, così si dovevano arrangiare chiedendo l’elemosina […] Mio padre mi raccontava che lo trattavano male, quando siamo nati noi figli, mio padre fece domanda per rimanere in Italia ed ha ottenuto il permesso, altrimenti venivano espulsi, li prendevano li accompa- gnavano al confine e poi li lasciavano andare. […] Quella volta lì era molto difficile, per misure di pubblica sicurezza ti potevano tenere in carcere per un mese e un giorno […].

Il mio babbo era un gran uomo, sapeva tutto di tutti, aveva fatto la scuola in Svizzera, non come adesso in Italia. Mia mamma si chiamava Bassini Maria, nata a Pordenone, è morta nel 1940 a 37 anni. È nata all’inizio del Novecento, […] era una sinta di origine tedesca, la mia nonna materna era tedesca ed era del Württemberg in Germania […] nella sua famiglia erano suonatori ambulanti, mio nonno suonava la chitarra, lo zio il violino, gli altri l’armonica.

Andavano per i paesi, con i cavalli e le carovane […]. Poi nel periodo trascorso ad Ancona, in tempo di guerra, abbiamo avuto una Fiat 521, poi anche una Cadillac americana.

Quando avevo 12, 13 anni, la polizia venne a mandarci via da Piazza d’Armi ad Ancona, come accade ancora oggi: oggi se non sei in un campo nomadi o in un piazzale per i sinti, circensi o giostrai, ti mandano via […]. Mia madre è morta nel 1940. Mio padre e mia madre si sono incontrati nelle fiere, perché lui era un circense e lei aveva una famiglia di musicisti, si sono conosciuti in quel mondo lì […]. Si sono uniti, hanno fatto la fuitina, funzionava così, se eri un sinto ricco potevi anche unirti ai gagi, ma se eri povero eri messo in un angolo, tra gagio e sinto c’è pochissima differenza, oggi giorno si sposano fra sinti e gagi […]. Dopo la guerra con le giostre abbiamo avuto più contatti con i gagi […]. Invece prima della guerra essere sinti era come avere la peste, se succedeva qualcosa era colpa del sinto, se mancava una bicicletta, la colpa era del sinto, come quello che succede oggi agli stranieri, noi sappiamo cosa vuol dire. Mio nonno paterno era un gran pescatore, faceva i cestini di vimini ed era un gran suonatore, si chiamava Mülat Reinhart, lo chia- mavano Heller Reinhart, Reinhart chiaro, anche lui era tedesco del Württemberg; la nonna si chiamava Francesca Reinhart ed era belga, è morta a Roma. Era bravissima, al tempo della guerra, quando eravamo piccoli, fermarono mia madre e il mio babbo per misure di pubblica sicurezza, li hanno tenuti un mese in carcere, eravamo soli con la nonna in un paesino dopo Pescara, la gente ci conosceva e ci voleva bene, lavoravamo in campagna, ci davano da mangiare, ma in quel periodo lo straniero in Italia non poteva stare in nessun modo, essendo mio padre svizzero tedesco è rimasto con mia madre in carcere per un mese […]. Erano in carcere a Teramo, io avevo 14 anni, era in epoca fasci- sta. Andavamo ogni giorno con la nonna a trovare il babbo e la mamma in carcere e loro piangevano, vedendo i loro bambini fuori, erano lì per niente, solo perché erano stranieri, c’è sempre stato razzismo, e che non si dica che non c’è il razzismo, il razzismo c’è ecco- me. Vivevamo alla giornata […] mia nonna chiedeva l’elemosina, abbiamo sofferto […]. Siamo in sette fratelli: Vittorio, Antonietta, Daja, Bumala, Gigiala e Ninalo […]. Quando sono nato abitavamo a Maranello, in realtà eravamo lì di passaggio, perché eravamo anda- ti in una fiera, avevamo il circo, mia madre suonava la chitarra e mio padre il violino […] ci spostavamo in giro per l’Italia, poi siamo andati in meridione a Salerno, mio fratello Gigiala è nato lì, quando faceva freddo ci si spostava al sud per trovare il caldo. Il cane

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c’era sempre, noi ne avevamo due, poi l’orso è morto, stava fuori con la museruola, era buono non era cattivo, i tedeschi ce l’hanno portato via, l’orso ci seguiva, mia mamma e il mio babbo suonavano i tamburelli e l’orso ballava, ho un bel ricordo. Avevamo tante foto […]. Mia nonna era una grande erborista, era una guaritrice, era saggia, prevedeva il futuro, guardava i cani e i cavalli e sapeva prevedere un sisma, gli animali avvertono se c’è qualcosa che non va, è morta a 93 anni a San Bonifacio in provincia di Verona, abbia- mo la tomba familiare, mio nonno, mio bisnonno, sono tutti a San Bonifacio […]. Non è vero che fra i sinti ci sono i capi, ognuno ha la sua famiglia. Ogni famiglia aveva la sua carovana. Il sinto è sempre stato disprezzato da tutti, i poveri però, non i ricchi, i sinti signori no, come la Liliana Orfei, Moira, tutti i circensi, loro sono stati aiutati molto dallo Stato, i circolini invece no. I divertimenti in Italia e in Europa li hanno portati i sinti, in Francia vengono trattati bene, avevamo dei parenti che sono grandi suonatori come Django Reinhardt […] la musica sinta è bellissima e come quella dei napoletani, cantano con il cuore. Io però non sono andato a scuola, le cose me le ha insegnate mia nonna […]. Prima della guerra sono stato espulso parecchie volte […] Mia zia che era a Ferrara, assie- me al marito belga, lui era un Renar, il marito assieme ai due figli sono stati presi e stati portati nel campo di concentramento di Teramo, ad Agnone, lei però l’hanno tenuta a Ferrara perché di cognome faceva Saldini, prima che finisse la guerra sono scappati e sono finiti a Bergamo dove c’erano altri sinti che li hanno aiutati. Mio nonno infinite volte venne mandato al confino […]. Mio fratello perché era straniero, da Trieste, l’hanno preso e spedito alle Isole Tremiti, ha fatto due anni, da lì è andato all’ospedale di Foggia e nel corso di un bombardamento e riuscito a scappare […]. I nostri parenti, appena dicevano Reinhart venivano espulsi immediatamente dall’Italia[…]. Nella Maiella, vicino al campo di concentramento, siamo stati un anno in una grotta, si usciva solo per prendere da man- giare, quello che ci davano i contadini, dopo è arrivato il peggio […]. Eravamo in una grotta perché fuori bombardavano, […] sulla strada mitragliavano, […]. Eravamo quattro famiglie, la famiglia Hujer, loro sono olandesi, ma loro erano tutti partigiani, […] sono venuti su con i comandanti della liberazione, erano olandesi, tutti sinti, c’era mio povero zio Giovanni, mio babbo con la nostra famiglia, di giorno si poteva uscire ci davano da mangiare i contadini, da un lato c’erano i tedeschi dall’altro gli americani […] lì c’era il fronte, c’era un fiumicino che veniva giù dalla grotta, avevo 16 o 17 anni, si andava nei boschi a tagliare la legna e ci si riscaldava così, le scarpe me le cuciva mia nonna con un po’ di panno […]. Il fatto di essere sinto era un pericolo, a volte ti potevi salvare parlando il tedesco con i tedeschi […] ma non sempre […]. Una volta, eravamo in una casa di con- tadini nelle langhe in Piemonte, c’era un tenente partigiano che era scappato dai fascisti, è stato con noi quasi un mese, mio padre lo medicava, aveva una pallottola nella gamba destra, con una forcina per i capelli mio padre gliel’ha tolta, è guarito e poi se è andato via, era un tenente genovese, non ricordo il nome, ma era un bravo ragazzo, avrà avuto 24, 25 anni, era tenente dei partigiani, lui ci ha salvato […]. Ci presero nuovamente i partigia- ni, lui non c’era, era già andato via, Ci hanno fatto scavare una buca, avevamo quasi finito, quando arrivò questo ragazzo: «No, no, la famiglia la famiglia Reinhart lasciatela stare, la conosco io, ne rispondo io». Non era destino che morissimo, ci ha salvati. In quel periodo eravamo tutti assieme, c’erano i miei fratelli ma anche i miei cugini […]: Italo, Morschali, Tony che adesso abitano a Bergamo, loro erano anche nella grotta sulla Maiella, era una montagna, da una parte c’erano le grotte, dall’altra c’erano i tedeschi con i cannoni, dalla parte sinistra c’eravamo noi, a distanza di un chilometro c’erano i tedeschi, come a Cassino San Germano, era la stessa cosa […] Dopo la Majella siamo scappati in su, siamo stati fermi un po’ di tempo a Campobasso […]. Da Campobasso siamo venuti verso Teramo, da Pesaro a Tortona alla fine della guerra. Camminavamo di sera a piedi, i cavalli ci li

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