Le voci e il silenzio
75ha riconosciuto, non noi, come fai a riconoscere le ossa? Era timbrata e ne ha portato le
conseguenze poverina, non era più normale. Il dottor Valery aveva parlato e poi ottenuto il campo, quando è andato a fare il sopralluogo e gli anziani hanno visto i vagoni e la ferrovia che c’è tutt’ora, si sono spaventati, perché la stessa cosa è successa in tempo di guerra, ti dicevano di andare al lavoro forzato invece non era vero perché ti portavano in Germania e ti chiudevano nei vagoni come delle bestie.
Rosa Raidi
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51Mia figlia Lalla è nata in Sardegna a Perdasdefogu il 7 gennaio 1943, perché eravamo lì in un campo di concentramento.
Mitzi Herzemberg 52
Durante la guerra eravamo in campo di concentramento a Perdasdefogu. C’era una fame terribile. Un giorno, non so come, una gallina si è infilata nel campo. Mi sono get- tata sopra, come una volpe, l’ho ammazzata e mangiata cruda dalla fame che avevo. Mi hanno picchiata e mi sono presa sei mesi di prigione per furto.
Quando è finita la guerra, sono tornata a Trieste per cercare i miei. Mio fratello e mia cognata li avevano ammazzati. Mi hanno raccontato che li avevano appesi ai ganci di una teleferica e ci sparavano come in bersaglio; poi li hanno gettati in una foiba. Un parroco aveva salvato i due bambini. Sono andata cercarli: aveva ancora Fraiskari, ma Griblo, il più piccolo, era stato adottato a Udine. Non ho avuto pace, finché non me lo sono fatto restituire: non potevo permettere che il mio sangue andasse in mano ad estra- nei. Da allora li ho allevati come figli miei.
Mirko Levak 53
Arrivò un ordine da Hilter e da Pavelić, maledetto Pavelić, facevamo commercio di cavalli e lavoravamo il rame, lavori nostri con i quali si guadagnava molto bene, i tede- schi ed i fascisti hanno occupato il nostro paese, Postumia, ed abbiamo sentito che cer- cavano i rom e gli ebrei, gli ustaša li volevano prendere per portarli in un campo, io ho detto: «No, no io vado via», perché sti tedeschi e ’sti fascisti ci ammazzano. Io ero ragaz- zino ed avevo 14/15 anni, eravamo in trenta, ragazzi, abbiamo preso la strada e siamo andati via senza sapere dove andare. Poi ci siamo riuniti ai partigiani slavi e sloveni. Io facevo da spondista andavo in Serbia, non io solo, eravamo in sette, otto ragazzi, ci spacciavamo da ustaša, perché c’erano molto ustaša là, di quelli avevamo molta paura, una sera hanno fatto una retata, partivano dalla Bosnia e tutta Serbia, hanno fatto tutta una retata. Li portavano a piedi come se fossero pecore, li trascinavano a Jasenovac, in due giorni avevano già preparato il campo, l’hanno recintato e sono venuto a sapere, non solo io, ma tanti rom erano venuti a sapere, che c’era stato un massacro. Facevano le fosse
51 M. Karpati, La politica fascista verso gli zingari in Italia, in «Lacio Drom», 1984, 2-3, pp. 41-47. 52 Idem.
53 Video intervista a Mirko Levak, in cofanetto di 2 cd «A forza di essere vento», curato da P. Finzi, Editrice
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comuni di 30, 40 metri e li portavano lì, in tanti li uccidevano con la pistola o con il cal- cio, poi hanno fatto una zocca, un tronco di albero, l’hanno tagliato e poi hanno battuto un chiodo, avevano i martelli, non quelli di ferro ma quelli di legno, li portavano lì, li mettevano con la testa e con quel martello gli… [l’intervistato fa il gesto del martello]. I nostri erano i più furbi e sono andati verso l’Italia. Tanti li hanno portati ad Auschwitz anche il mio povero zio.
Matteo Stepich 54
Lo sapevano che eravamo rom, perché si girava, eravamo senza fissa dimora in quell’e- poca, cercavano di ammazzarci, perché lo zingaro (voi lo sapete?) era perseguitato quan- to l’ebreo, forse di più, avevamo paura di trovare dei fascisti, degli ustaša, ecco dov’era il terrore nostro. Le donne incinte le prendevano e le infilzavano con le baionette, le tagliavano in mezzo e infilzavano il bambino per poi mostrarlo a tutti quanti noi. Questi della Gestapo assieme ai fascisti prendevano un pezzo di fil di ferro, li facevano rotola- re creando una sorte di fascio, poi li chiudevano bene con il fil di ferro, poi gli davano una pedata e li buttavano dentro le foibe, vivi, senza ammazzarli. Gli facevano scavare la fossa, da loro stessi, dai bambini, dagli anziani, dalle donne, facevano il fosso, li met- tevano dentro coricati e buttavano la terra, passavano dopo un po’ di giorni e vedevano che la terra ancora tremava perché non tutti erano ancora morti. Non mi faccia parlare [il dialogo si interrompe per la commozione]. Tanta gente in Italia e al mondo non sanno quello che abbiamo sofferto noi, ma se noi dovessimo raccontare tutta la nostra storia ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli, quello che ci hanno fatto i fascisti, gli ustaša e quello che ci ha fatto la Gestapo.
Milan Deregna 55
Io sono nato a Fiume, Rijeka, noi prima di venire nella zona di Fiume eravamo in Slovenia, li eravamo in tanti ed avevo grande famiglia, ci hanno presi e ci hanno messo in galera, in carcere, anche i bambini, tutti quanti, gli italiani, i fascisti, Mussolini, senza mangiare, senza bere a morire. Li caricavano tutti su questi vagoni, questi rom andavano allegri, chi prendeva la fisarmonica, chi il violino, chi la chitarra, erano dentro questi vagoni e cantavano: «Ci mandano a lavorare» e loro erano contenti, invece dove li man- davano? Ad Auschwitz.
54 Video intervista a Matteo Stepich, in Il Porrajmos dimenticato, Edizione Opera Nomadi con il contributo
di UCEI, Milano, 2008.
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Sinti e rom al confino
Vittorio Thulo Reinhart 56
Mi chiamo Reinhart Vittorio, conosciuto come Thulo, significa grassotello, tutti i fami- liari mi chiamano così […]. Sono nato il 4 dicembre 1924, a Ravenna. Sono un sinto […] noi sinti non ci chiamiamo fra di noi zingari, ma sinti […]. Ci sono diverse qualità del sinto, noi siamo nati in Italia da genitori stranieri, gli altri sinti hanno tutto un altro dialetto, come il marchigiano, il piemontese, il veneto, il toscano, il romano, sono tutti sinti, ma ognuno ha la sua lingua […]. Mio padre si chiamava Giuseppe Reinhart, il soprannome era Sonala, era nato a Winterthur nel Canton Zurigo in Svizzera […] mio padre è nato nel 1897, il 22 dicembre, […] era sinto da parte di entrambi i genitori. La nonna proveniva dall’alta Savoia […]. Mio padre ha lasciato la Svizzera per venire in Italia, ma prima di lasciare la Svizzera, quando erano giovani, durante la guerra […] era arrivata l’infezione della febbre spagnola, non mi ricordo che anno fosse, era prima che io nascessi. Hanno preso il nonno, la nonna, la mamma e il papà, dicevano che i sinti erano portatori di questa febbre spagnola e che facevano morire tanta gente, così li hanno fatti imbarcare in una grande nave e hanno fatto fare loro il giro di tutto il mare, di tutto il mondo. Li sbarcavano, poi li riprendevano, li portavano via, nessuno li accettava, dicevano che i sinti portavano il colera, il colera era la febbre spagnola, era una malattia presente in tutto il mondo, non era una malattia solo dei sinti, ma la colpa veniva data ai sinti. Queste cose me le raccontava il mio babbo, anche la nonna mi raccontò che girò tutto il mondo, con la nave attraversando il mare, hanno girato ovunque, quando arrivavano, però nessuno li voleva accettare. La gente aveva paura di questa infezione […] ma la colpa non era dei sinti, era una malattia diffusa in tutta l’Italia, come l’influenza, solo che la febbre era molto alta […] poi la febbre andava via e si guariva, il mio povero babbo l’ha avuta, tutti i vecchi l’hanno avuta, ma non è morto nessuno. Mio padre è arrivato in Italia con i nonni […], all’epoca i sinti giravano, cercavano posti nuovi, cercavano l’America, come dicevano gli avi, cercavano l’America da qualche parte […]. Mio padre era un sinto, mio povero babbo sin da piccolo tramite il nonno iniziò ad impagliare le sedie e le bottiglie e le damigiane in cambio di soldi, vivevano di questo lavoro artigia- nale […]. Lo fece per parecchi anni, finché riuscì a prendersi un tiro a segno, una giostrina diventando esercente dello spettacolo viaggiante[…]. Poi il babbo è venuto a mancare […]. Noi abbiamo un’abitudine particolare quando qualcuno muore. Tutto quello che è appar- tenuto al defunto, non lo si può più sfruttare, ma viene tutto bruciato, anche se ha una carovana di dieci milioni o di dieci miliardi, giostre, macchine, camion, tutto bruciato. La giostra è stata demolita […], la carovana è stata bruciata, camion e macchina demolita, si riparte da zero, non si può approfittare dell’eredità del babbo, dello zio, della nonna, non possiamo sfruttare le cose, questa era l’abitudine trasmessa dagli avi. Adesso siamo diventati moderni […] Mia madre si chiamava Fifala, Bassini Maria, era nata a Pordenone o forse Monfalcone non ricordo, è nata nel 1902 ed era una sinta, […] era nata in Italia, ma le origini erano tedesche, faceva la casalinga, aveva 7 figli, aveva un bel da fare […].
Mio padre faceva anche il falegname, faceva le carovane […] Mia madre per me era la donna più forte del mondo, in tutto per tutto per me […] anche se qualcosa andava male,
56 Video testimonianza di Vittorio Reinhart, a cura di Giovanna Boursier per la USC Shoah Foundation
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supponiamo che mancasse una pagnotta di pane, lei aveva il coraggio di superare, di affrontare, aiutare tutti e di accontentare i bambini anche andando a questua, andava dal contadino a chiedere un pezzo di pane per i figli[…]. Mio nonno paterno si chiamava Mülat, sapeva fare di tutto era un artigiano, il nonno materno non l’ho conosciuto, avevo conosciuto la nonna materna, la nonna paterna si chiamava Mauso che significa topolino, era magrissima avrà pesato 40 kg, anche i nonni erano di origine tedesche […]. Erano tutti sinti […]. I miei fratelli si chiamano: Antonio, uno Giuseppe, l’altro si chiama Gigiala, ma il nome del documento non lo ricordo, lui è per conto suo, era nato nel 1937, […], ho due sorelle ma sono morte e una è qui vicino e si chiama Tomala, che significa palloncino. Eravamo in 7. […] Il babbo negoziava anche con i cavalli […] era appassionato dai cavalli da corsa, li custodiva in maniera perfetta, si andava nei mercati e nelle fiere dove si vendeva e si comprava […] Giravamo per tutta Italia, prima della guerra […] abbiamo abitato per tanto tempo a Cassino San Germano dove c’era la famosa guerra, il santuario […], avevamo una carovana, c’erano delle taverne con dei recinti, dei capannoni dove da una parte si metteva la carovana, dall’altra i cavalli […]. Ci è sempre piaciuta la musica. Tutti i sinti suonavano la chitarra, mia mamma suonava la chitarra in un modo incredibile, noi a Genova ave- vamo Pasquale Tarraffo detto Rêua (il ruota), il più grande chitarrista classico del tempo, venivano sinti e rom dall’America, dalla Francia, dalla Germania per studiare con lui, mia madre suonava tutte le cose, dall’Opera alle canzonette, a tutto come accompagnatrice […]. Da piccolo io custodivo i cavalli […]. Vendevamo i cavalli nelle fiere […] Andavamo sempre a Gonzaga l’8 settembre, una fiera che durava quindici giorni, vicino a Verona, c’era questa mostra dei cavalli e delle bestie, a Castel d’Ario, Mantova […]. Prima della guerra i rapporti con i gagé erano buoni, noi rispettavamo ed eravamo rispettati, molti dei nostri lavoravano con i circhi, con i postoni […]. Molti suonavano per le osterie, c’è chi faceva il prestigiatore […]. A Chioggia, prima della guerra, mi raccontò il mio babbo, andava a suonare anche lui con un parente stretto che suonava il violino, lui lo accompagnava con la chitarra, andava- no per le osterie. Mi raccontò mio padre cosa successe una volta a Bergamo, mentre stava trainando il cavallo e il carretto, i bergamaschi avevano un’abitudine: quando vedevano passare i sinti, per evitare che i loro bambini uscissero di casa, li spaventavano dicendo: «Vieni dentro non uscire di casa che gli zingari portano via bambini», questa parola si è moltiplicata ed è diventata grande. Una signora vide passare mio padre e disse alla figlia di entrate, perché altrimenti gli zingari l’avrebbero portata via, la bambina iniziò a piangere, perché era molto spaventata, arrivarono i carabinieri portarono in caserma mio padre: «Tu volevi rubare ’sta bambina» gli disse il maresciallo e mio padre gli rispose: «Con tutti i figli che ho mi metto a rubare altri che non sono miei, non siamo abituati», lo stavano per arrestare, l’hanno tenuto per ore in caserma, mentre noi aspettavamo di fuori, intervenne un testimone che disse che la signora aveva l’abitudine di dire quella frase contro gli zin- gari. Noi eravamo mal visti all’epoca.
Mio povero babbo è stato espulso due volte dall’Italia, due volte in Jugoslavia, perché lui non era italiano, invece di mandarlo in Svizzera lo mandarono in Jugoslavia, attraversò i monti per tornare in Italia, ecco perché non si stava sempre fissi in uno stesso posto, ci si fermava nei posti dove la gente era più affabile, si cercavano i posti dove ci conoscevano meglio. L’espulsione di mio padre avvenne molto prima della guerra, io ero molto piccolo […]. Mi hanno arrestato e mi hanno mandato nel campo di concentramento […], perché ero di nazionalità svizzera […] prima della guerra un sinto che veniva dall’estero non poteva rimanere in Italia, non era possibile, veniva espulso […] ci cercavano i carabinieri e la questura. Quando scoppiò la guerra mi trovavo a Napoli […] poi, piano piano, dopo la morte di mia madre e mio zio siamo ritornati su verso la Toscana […]. Qualcuno in Toscana voleva già mandarci nel campo di concentramento. C’era già un campo dei sinti
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