Le voci e il silenzio
79italiani sopra Pistoia […] tutti i sinti della Toscana erano mandati in cima sopra il monte,
voleva prenderci anche noi ma mio padre era furbo, […] siamo scappati. Erano arrivati i carabinieri per dirci che ci avrebbero portati al campo, ma noi siamo scappati in un altro comune […]. C’erano un sacco di campi di concentramento in giro per l’Italia […] se uno non aveva una casa fissa, prendevano la gioventù, se non faceva il militare veniva preso e mandato in Germania.
A Monza, mio cognato, Cocho (cuoco) Held, lui era partigiano, ma prima di essere par- tigiano, lavorava in una fabbrica […] ma era sotto i fascisti, per avere quel lavoro in quella fabbrica ha dovuto iscriversi al fascismo, poi quando finì andò con i partigiani.
Nelle isole Tremiti dove ero io, l’acqua e i viveri li portavano una volta alla settimana […]. Quando scoppiò la guerra ed abbiamo saputo dello sbarco in Sicilia, quella volta i sinti di Ustica sono stati mandati di qua ad Agnone […]. Tanti sinti che non hanno voluto essere presi per andare ad Agnone sono andati a finire sulla Maiella, c’erano quattro famiglie sulla Maiella in una grotta, si nascondevano nelle grotte, uscivano solo le donne e bambi- ni per chiedere ai contadini qualcosa per mangiare, gli uomini adulti erano nascosti […]. Agnone era un campo di concentramento, erano massacrati come Auschwitz, una cosa del genere […] i sinti sono arrivati gli ultimi tre mesi. Ad Agnone sono arrivati i sinti di Ustica, io ho qualche appunto lì, anche mio cognato era a Ustica, in Sicilia, tutti i sinti francesi e tedeschi erano mandati a Ustica […]. Di Ustica l’ho saputo perché dopo la guerra è venuto mio cognato da Ustica e gli altri sinti, la famiglia Hujer erano una quarantina, tra nipoti, fratelli e sorelle, erano tutti a Ustica […].
Mi hanno arrestato il 2 febbraio del 1942 a Pordenone […], sono stati i fascisti, pensavano fossimo spie, avevo un cognome svizzero, mi dissero: «Tu rappresenti il pericolo in Italia», sono stato preso e portato in carcere […]. A Udine ho fatto tre mesi. […] nella mia zona ci hanno arrestato in cinque. Dal Veneto alle Tremiti abbiamo viaggiato su dei vagoni per bestiame, da Venezia siamo partiti una ventina, trentina, eravamo legati come delle bestie, due per due con la catena al centro, in fila, ad Ancona siamo moltiplicati […] il viaggio è durato tanto, a maggio eravamo in viaggio, siamo arrivati i primi di giugno alle Isole Tremiti, […] ci davano da mangiare qualche galletta […].
Io ero sull’Isola Tremiti reparto dei comuni, dall’altra c’erano i politici e i comunisti, erano dei grandi casermoni, cinquanta, cento alla volta […], dovevamo lavorare, appena siamo arrivati ci hanno assegnato i casermoni dove dovevamo andare […] mi hanno preso per lavorare per questo commissariato, dovevamo costruire un bungalow ed io dovevo portare la sabbia, era calce.
Ho trovato un altro sinto alle Isole Tremiti […] si chiamava Pivala di soprannome, il nome non lo so, mi pare fosse un sinto olandese, parlava come me, era da diversi anni in Italia, io conoscevo anche sua mamma, lui era un grande liutaio. Al campo non ci si poteva muovere, eravamo obbligati a lavorare altrimenti si saltava la mensa […]. Ci davano cin- quanta grammi di pane a prigioniero, a chi lavorava venivano dati altri cinquanta grammi di pane, erano cento grammi di pane al giorno divisi in due […]. Avevo paura di quanto potesse durare la guerra, se mi avessero ammazzato nessuno dei miei avrebbe saputo la mia fine, nessuno sapeva dov’ero […]. Io non dissi di essere un sinto, non lo dissi, […] nessuno lo sapeva […]. Alle Isole Tremiti ci sono rimasto 4 mesi, poi a settembre del 1943 ero già all’ospedale a Foggia, stavo male, vomitavo e mi mandarono in Ospedale […]. Poi l’ospedale è stato bombardato […] e siamo scappati, da Foggia sono scappato a Napoli […]. Volevo tornare dai miei, dal mio babbo, volevo sapere se erano ancora vivi, non sapevo niente di loro, come loro di me […]. Da Napoli sono andato a Roma […] e da Roma a Prato […]. Io avevo una carta d’identità dove c’era scritto che ero di nazionalità svizzera, non che ero sinto […]. Venne mio fratello Antonio a prendermi con la bici e mi accompagnò
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dal babbo […] si trovava vicino a Lucca. Era sbalordito, lui non pensava di rivedermi, non sapeva che fine avessi fatto e io non sapevo nulla dei fratelli, delle sorelle e del babbo, nulla di nulla, appena mi ha visto è svenuto, pensava mi avessero mandato in Germania, da lì ci siamo traferiti in Piemonte […]. Lì aiutavamo i contadini […]. Alla fine della guerra erava- mo fra Moncalvo, Alessandria e Valencia […] lavoravamo per i contadini e loro ci tenevano nascosti, prima della fine della guerra eravamo sotto un capanno di un contadino, c’erano delle balle di paglia, lì ci fu un rastrellamento dei tedeschi e dei fascisti, sono venuti su a Moncalvo, Asti, su di lì, e noi sapevamo che sarebbero arrivati, eravamo stati avvisati dalle sentinelle dei partigiani […] comandante dei partigiani, colui che si chiamava Lupo, così era sopranominato della Brigata Garibaldina, il mio babbo lo nascose sotto la paglia, arrivarono i tedeschi e chiesero a mio padre se aveva visto qualcuno, lui rispose di no […] parlandogli in tedesco. Poi quando arrivammo ad Alessandria, prima che finisse la guerra, alcuni partigiani ci scambiarono per spie perché il babbo era tedesco, svizzero […] ci fecero scavare una fossa, […] tutta la famiglia era pronta per essere fucilata, ma stavano attendendo l’ordine del comandante, che era lo stesso che mio padre aveva salvato […] avevano già i fucili puntati, poi quando arrivò il comandante disse: «Questo zingaro mi ha salvato, mi ha nascosto sotto le balle di paglia, guarda cosa ha rischiato quest’uomo, questo è l’uomo che mi ha salvato la vita!» Il babbo gli aveva detto di essere un sinto. Abbiamo preso il nostro carro e siamo andati, era finita la guerra, quando siamo venuti giù c’erano già gli americani con i camion […]. La nonna, sapevamo che doveva morire, aveva 100 anni, allora l’abbiamo portata all’Ospedale di San Bonifacio, il povero nonno era morto a San Bonifacio, volevamo che fosse seppellita a San Bonifacio accanto a lui […]. Tanti miei parenti non sono tornati, tanti sono stati mandati in Russia […] qualche altro parente in Germania non si sa che fine abbia fatto […] alcuni ad Auschwitz, altri in un altro campo di concentramento poco distante da Auschwitz, ho trovato dei parenti, quando il Papa fece quella riunione di tutti i sinti a Roma, quell’anno lì vennero a Roma alcuni parenti nostri, mostrarono al Papa le braccia, fecero vedere che erano timbrati, immatricolati [indica il braccio]. Ho incontrato una sinta tedesca, l’unica sopravvissuta di una famiglia di sei, sette persone, come mia nuora Anghie [Angelica Schneeberger], la moglie di mio figlio detto il Biondo, anche lei è tedesca, tutti i suoi parenti deportati, si è salvata lei e qualche fratello, qualcuno che è rimasto è immatricolato, gli altri sono morti nel campo di concentramento, perché sapevano che anche avendo la casa, o la più bella villa che potevi avere tua perso- nale, se sapevano che eri un sinto ti tiravano fuori e ti ammazzavano nel campo di con- centramento, ecco perché, dopo la guerra, ci fu un periodo in cui tutti i sinti in Germania non dicevano di essere sinti […]. Dopo la guerra nessuno mi ha chiesto di raccontare questa storia, solo una piccola intervista. Soltanto i miei parenti mi hanno chiesto qualcosa, non tutto, solo le cose più belle, non volevo che soffrissero, le cose migliori, non le peggiori […].
Antonio Chico Reinhart 57
Mi chiamo Antonio Reinhart, detto Chicco, sono nato il 1° ottobre del 1927, a Maranello in provincia di Modena, […] sono nato in Italia ma il mio babbo ho origine nella Svizzera Tedesca a Winterthur.
Cosa vuol dire essere sinto? Da una parte, tra i sinti è un bene, ma fra i gage è una brut- tissima cosa, […], tanti sinti furono deportati con gli ebrei, e sono stati dimenticati […] i
57 Video testimonianza di Antonio Reinhart, a cura di Giovanna Boursier per la USC Shoah Foundation
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