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59vedete, siamo a parlare di musiche del Settecento e dell’Ottocento che è storia dei rom e

di tutti gli altri, raccontata tramite le note e non tramite un libro.

Mi vengono i brividi a parlarne, perché io sono un musicista, un violinista, mi chiamo Gennaro Spinelli, sono un cittadino italiano e sono anche un cittadino rom abruzzese. Ho un’identità aggiuntiva che non mi rende diverso, ma si somma ad ulteriori caratte- ristiche personali e comunitarie. Il senso della comunità vive attraverso di me, anche grazie al mio nome che è anche il nome di mio nonno, cioè Gennaro. È anche questo il segno del passaggio della narrazione storica nelle nostre comunità.

La mia famiglia è uno dei gruppi rom d’antico insediamento venuto dalle coste dell’Al- bania, giunti in questa zona circa nel XV secolo. I mei nonni sono tutti nati in Abruzzo che è da sempre la nostra terra d’origine, poi ciascuna zia è nata in una città diversa, perché la famiglia si occupava di commercio di cavalli e quindi seguiva le fiere, lungo tutta l’Italia, ma molto probabilmente scelsero l’Abruzzo per risiedere, proprio perché qui c’erano le fiere più importanti. Questo mestiere ha permesso di vivere almeno a quattro generazioni, poi mio nonno, considerato che il cavallo non veniva più usato, è passato al commercio di auto e la continuità tra i due mestieri si percepisce in maniera naturale. Anch’io sono nato ad Atessa, in Abruzzo, nell’agosto del 1992. Mio nonno è anche il testi- mone della deportazione fascista di rom e sinti avvenuta in Italia a partire dal 1940. Era un bambino e fu preso con la sua famiglia, rinchiuso in un’area delimitata da filo spinato vicino alla stazione di Torino di Sangro. Gli tagliarono i capelli e lo misero, con tutta la sua famiglia allargata, su dei convogli bestiame per essere trasportato fino a Rapolla, in Basilicata, a pochi chilometri da Melfi, sempre in un campo di concentramento per soli rom. Era piccolo, ma si ricorda perfettamente la melodia della canzone che cantava la guardia che si trovava vicino al loro vagone, durante il viaggio. È una storia che è rivis- suta in mio padre, Santino Spinelli, che ha svolto le principali ricerche per poter rimet- tere in ordine le tappe di questa deportazione ed è una vicenda che rivive in me e nei suoi nipoti che ne conservano la memoria. Anche questo è il raccontare dei rom. La mia famiglia, mio padre Santino, le mie sorelle, siamo tutti musicisti ed allora il nostro modo per raccontare è anche e soprattutto la musica. Io suono alcuni brani che il mio bisnonno insegnò a mio nonno, che passarono a mio padre e che adesso suoniamo anche noi figli. Le melodie si modificano anche in base alla persona, ma resta una storia ed un concetto unitario che collega persone che magari non si sono neanche mai incontrate. Attraverso l’arte i rom non muoiono, perché questa è una parte centrale della nostra cultura e non ha nulla a che vedere con i campi nomadi.

Mi è capitato in molte occasioni d’incontrare Piero Terracina, testimone ebreo italiano di Auschwitz recentemente scomparso, e di ascoltare la testimonianza della propria pri- gionia a Birkenau, ma anche di quella notte del 2 agosto 1944 che segnò la liquidazione finale del campo degli zingari di Birkenau. Il suo ricordo dei rom e sinti ad Auschwitz è rimasto anche attraverso la musica che era presente nel settore BIIe del campo di ster- minio, quello in cui vivevano rom e sinti e nel quale paradossalmente era permesso loro di suonare.

Auschwitz si ricorda anche per mezzo della musica che attraversa nella tradizione romanì i due aspetti della melanconia e dell’allegria. Non poteva essere diversa neppure a Birkenau, nonostante tutto. Con questo non significa che rom e sinti a Birkenau non siano stati perseguitati. Noi ad Auschwitz siamo stati sterminati, ma dobbiamo trarne anche un’altra immagine che è legata all’arte ed alla vita. Noi siamo sopravvissuti come popolo, abbiamo superato anche quella condizione di distruzione e la musica è rimasta a testimoniare, tra le altre forme espressive, che non abbiamo dimenticato, che abbiamo resistito e che non siamo scomparsi.

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La carta con i bordi rossi

di Morena Pedriali scrittrice

Jasmina aveva una carta coi bordi rossi, dipinta a mano da sua madre. Le tremavano gli occhi, quando la guardava e non la girava mai. Poggiava la mano di pesca sul dorso, fissava la neve sciogliersi nelle pupille di suo padre. Aspettava.

Aveva un amuleto bagnato nell’acqua del Neretva e il peso di mille Koshava, di mille venti furiosi in mezzo ai denti. Quando apriva gli occhi, un taglio di vetro li divideva a metà e il cielo si faceva piccolo per annegarci dentro.

Jasmina vedeva le cose, diceva. Vedeva le cose quando stavano al buio, e i veli d’organza calati sui secoli, sulla diaspora delle sue sorelle rom, diventavano lacrime d’oro nel solco delle sue guance.

Le piaceva intrecciare margherita ai capelli delle sue sorelle e la luce danzava sulle loro gonne, quando correvano scalze lungo il fiume al tramonto.

C’era una goccia di paprika sciolta nel caffè della sera, e Jasmina la beveva senza voltarsi, ridendo. Perché la vita, diceva, è uno spigolo di luce che ti batte sulla testa. A volte è amaro, a volte ricorda le note di una canzone antica, difficile da ricordare. La vita non è mai la stessa e ogni giorno invecchia sulle onde dei seni.

Una notte sognò di camminare su una lastra di ghiaccio. Sentii le piante dei piedi aprirsi a metà e un oceano con le onde rosse ribollire sotto i suoi piedi. Una mano battere sotto la superficie del ghiaccio. Dieci, cento, mille mani. Vide una volpe senza gli occhi, seduta ad aspettare. La chiamò, “lisita”, ma la volpe non aveva nome e portava quelli di milioni, di tutti i suoi fratelli.

Si svegliò urlando e suo padre le bagnò le palpebre con l’acqua di lavanda, soffiò una pre- ghiera nello spazio tra di loro. “Era soltanto un sogno. Soltanto un brutto sogno.”

Jasmina ora è un nome. Una piccola scure di cristallo sulle pareti di una baracca dove le ore non passano e i bambini non invecchiano. È i suoi vent’anni senza memoria, andati col vento, come petali neri di rosa. Jasmina ha perso la sua lingua, i suoi capelli e il suo cognome, prima di morire. Ha affondato una croce di legno nel mezzo del campo e il suo cuore si è disfatto, sciolto al buio dell’olocausto. L’ha sostituito un triangolo marrone cucito sulla pelle, sulle ossa intorno al cuore, sulla montagna di capelli che non ballano più al vento. Sulla sua gonna a fiori, rimasta a marcire nella gola di un treno.

Jasmina è un nome su un epitaffio, insieme ad un altro milione di nomi e non ha più passato. Le strade del mondo, attorcigliate ai suoi piedi sono ferme alle porte del lager, aspettano agli angoli dei cancelli di Auschwitz.

Jasmina non ha più la sua carta coi bordi rossi, l’ha presa il vento, l’ha girata e gli uomini senza occhi l’hanno vista sparire nella pelle della notte.

Per un attimo, sembrò loro di vederci scritta una parola, una soltanto. “Perché?”

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