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63Mi guardava con quei suoi occhioni e mi disse: «Quando torni portami una mi tra-

Le voci e il silenzio

63Mi guardava con quei suoi occhioni e mi disse: «Quando torni portami una mi tra-

gliatrice».

In caserma mi perquisirono e mi trovarono nel portafoglio una foto di un sottoufficiale tedesco.

«Chi è?»

«Mio fratello Franz»

Il maresciallo si alza e mi dà uno schiaffo sonoro: «Vergognati, tuo fratello al fronte e tu in giro come un vagabondo. Portatelo in carcere!».

La mattina presto mi prelevarono dalla piccola prigione di Appiano e mi portarono al comando delle SS di Bolzano e poi al carcere. Perquisizione… poi la guardia urla: «Prima sezione, un altro politico».

Arrivo in sezione e un’altra guardia mi fa: «Sei un criminale di un partigiano vero?». Partigiano, avevo capito; mi stavo chiedendo che cosa intendesse con criminale.

Passavano i giorni e mi sentivo morire. Pensavo al mio caro cuginetto Bruno, alla mia famiglia. «Altro che tornare… qui va finire che mi mettono al muro».

In carcere trovai molti amici partigiani del Tesino. Si fingeva di non conoscerci fra noi. Un giorno si avvicinò uno e piano piano mi disse: «Ho visto tua sorella Edvige nel campo di concentramento di Bolzano. Ogni giorno riusciva a passarmi un po’ di pane». Timidamente mi chiese una sua fotografia. Feci cenno con il capo di non averne. La mia Edvige così piena di fuoco e di gioia di vivere, rinchiusa in un campo di concentramento! Aveva vent’anni e ben presto quel campo si trasformò nella sua tomba. Maledetta guerra! Ho sempre l’immagine di mia sorella, richiusa dentro i reticolati.

Dopo quindici giorni, destinazione Innsbruck. Mi assegnano alla divisione Alpenjäger. Nella Klosterkaserne ho trovato dei buoni compagni, mi volevano bene, mi davano per- sino i soldi per uscire.

Che vita! Marce sopra Marce…i miei compagni cadevano sfiniti. Io ridevo e il capitano mi guardava perplesso. Un giorno mi chiamò e mi chiese: «Quanti anni hai Jäger Mayer?»

«Diciassette, signor capitano»

«Frequentavi qualche sport da civile?»

«Sissignore, correvo a piedi», fra me pensavo: «Quando vedevo voi, razza di negrieri» «Volevo ben dire», esclamò. Povero sciocco, non sapeva che ero un sinto. Camminare era una cosa naturale oltre che piacevole. A Innsbruck mi trovai una mamma e una sorel- la. Sì, la signora Nasi di Cervia e sua figlia Carmen. Anche tu, cara mamma, non sapevi che era quel soldatino, al quale tu volevi tanto bene. Mi regalasti un crocifisso con un nastrino tricolore. Mi dicesti: «Portalo sempre al collo e ti porterà fortuna»

Invece un giorno, a causa di quel nastrino, mancò poco che mi mettessero al muro. Mentre mi lavavo a torso nudo, passa il prussiano, il tenente Schneider. Si ferma, mi guarda, si avvicina e mi strappa il crocifisso al collo. Glielo tolgo di mano. Vedevo rosso, gli avrei volentieri sparato in bocca. Mi chiese «Jäger Mayer, sei tedesco o un traditore di un italiano?».

Nessuno mi crederà, ma in un momento d’ira risposi «Sono italiano di religione catto- lica». «Portatelo in carcere».

La vita è proprio buffa… oggi dico con orgoglio che sono un sinto tedesco.

Una sera vennero due ufficiali e chiesero chi sapesse suonare. Alziamo la mano. L’indomani, alle prove, di una ventina di concorrenti rimanemmo in sei. Eravamo in quattro della mia compagnia: uno suonava la fisarmonica, uno il violino, uno la cetra ed io la chitarra. Ero felice, perché ho sempre amato la musica. In seguito, i miei compagni mi chiesero: «Come mai, Viktor, tu che dici di essere figlio di contadini, suoni la chitarra come solo uno zingaro la sa suonare?».

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«Dovete sapere, amici miei, che mio nonno era conte, mio padre era «contino» e io sono contadino».

I miei compagni risero: avevano capito che ero uno zingaro, ma lo tennero per sé. In Germania, come in Austria, un sinto può passare inosservato, ma lo riconoscono subito non appena prende in mano lo strumento.

Partecipavo a tutte le feste di addio di coloro che andavano a morire al fronte. L’ultima festa, in onore proprio della mia Compagnia, c’era molta gente. Vino e birra correvano a fiumi, un baccano infernale; ballavano, cantavano, ridevano, senza rendersi conto che per molti quella era l’ultima festa.

Ci fermammo a suonare ad un tavolo di due ufficiali in compagnia di due belle ragazze. Mi colpì subito la strana fisionomia di uno dei due ufficiali. Aveva i capelli color ebano; era alto e slanciato. E parlava come un eroe. Anche l’ufficiale mi guardava, non mi toglie- va gli occhi di dosso. Le due biondine mi dicevano: «Che agilità di dita!» Povere stupide.

Il tenente mi invitò a sedere e mi offrì da bere battendomi amichevolmente sulle spal- le. Dopo circa dieci minuti chiese gentilmente il violino al mio amico. Lo guardava con occhio di intenditore. Lo girava, e lo rigirava…Avevo capito! Sì, il tenente era un sinto come me e voleva farmelo sapere. Si alzò, chiese la parola: «Signore e Signori, col vostro permesso suonerò per voi una Csárdás zigana. Te la senti di accompagnarmi?» Queste ultime parole erano rivolte a me. Feci cenno di sì con il capo.

Trasse due o tre accordi dal violino, tanto per farmi riconoscere il motivo. Sorrisi, cono- scevo quel pezzo. Suonò divinamente. Quel violino piangeva con i nostri cuori. Alla fine, uno strepitoso applauso con urla di bis. La gente era allegra, senza sapere che dentro di noi c’era l’inferno. I nostri cuori sanguinavano, e quella musica era per noi una muta preghiera.

Andandosene dalla festa, mi abbracciò e mi disse «Speriamo che Dio ci conceda la grazia di ritornare presto quelli che realmente siamo».

Era un tormento, ci eravamo riconosciuti, eravamo entrambi felici di essere trovati, ma dovevamo nasconderci entrambi sotto una lurida divisa che per un sinto non rappresenta altro che il simbolo della schiavitù.

Poi un giorno, con l’aiuto del buon Dio, la guerra finì. Tornai nel mio amato Tirolo e baciai la terra dove sono nato e cresciuto come un piccolo capriolo.

Ritrovai il mio piccolo Bruno, lo strinsi al cuore, felice di poter di nuovo giocare con lui. «Bruno, sei contento che io sia tornato?»

«Sì tanto Spatzo; ma mi hai portato la mitragliatrice? (Accidenti, non se ne era dimenticato!)»

«Cosa vuoi farne?» «Voglio fare il partigiano»

«Birichino, non vorrai adesso ricominciare la guerra? Invece, sai cosa ti ho portato? Una stella alpina»

Bruno piccolo alpino, tu ora riposi in pace e sai che al mondo non c’è sentimento più sublime del perdono, dell’amore, dell’amicizia.

Tenente Engelbert Reinhardt, e tu fratello Franz, non siete più tornati. Forse non avete nemmeno una tomba.

Edvige, sorella cara, mi attendi al cimitero di Merano. Quando morirò, seppellite il mio cuore nella tomba di mia sorella e ne nascerà una rosa.

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Deportazione

Cielo rosso di sangue, di tutto il sangue dei Sinti che a testa china e senza patria, stracciati affamati scalzi, venivano deportati

perché amanti della pace e della libertà nei famigerati campi di sterminio Guerra che pesi

come vergogna eterna

sul cuore dei morti e dei vivi, che tu sia maledetta

Spatzo

Silvana Gabrieli 32

La mia famiglia proveniva dall’Austria, eravamo Adelsbürg, adesso siamo Gabrieli, i cognomi li hanno cambiati quando siamo arrivati qui in Italia […] Mi ricordo quello che mi raccontava mia mamma, hanno preso tutti i suoi fratelli, cognati, nipoti e li hanno portati di là, erano qui in Italia e li hanno portati in Austria. Li hanno messi in una baracca, poi hanno fatto loro scavare un lungo fosso e poi li hanno messi dentro tutti quanti, piccoli e grandi. I tedeschi buttavano su di loro una polvere bianca, i bambini chiedevano alle loro madri il perché di questa polvere bianca, e le madri dicevano che era una polvere che serviva per mandar via i pidocchi. Invece poverini, non è andata così, perché poi è passato un altro da dietro e gli ha dato fuoco con i fiammiferi, hanno preso fuoco tutti, mamma, nipoti e fratelli, tutti quanti, li hanno bruciati vivi […]. Succedeva in Austria, li hanno bruciati vivi […]. Loro vivevano in Austria e quando è arrivata la guerra sono arrivati in Italia, hanno superato la frontiera di nascosto e sono scappati in Italia. Poi in Italia i carabinieri hanno chiesto i nomi e visto che non erano italiani sono stati rimandati in Austria, pensavano fossero spie tedesche, poi in Austria è andata a finire che li hanno ammazzati. Solo una sorella è sopravvissuta, è stata portata davanti al forno crematorio, ma due volte è stata mandata indietro, è stata una fortuna, è rimasta solo lei, poverina, delle otto, dieci persone della famiglia. È sopravvissuta solo lei, solo lei viva è così ha potuto raccontare tutta questa storia, dei suoi genitori, di come sono stati bruciati. […] Ci siamo incontrati qui a Rimini, da Rimini siamo andati a Roma e lì abbiamo fatto la fuitina.

Mio marito si chiamava Reinhart Antonio […] Chico. È stato in un campo di concentra- mento, lui da una parte, il fratello dall’altra, […] il fratello si chiamava Reinhardt Vittorio […] Thulo. Mio marito è stato mandato dalle parti di Ferrara, mi sembra, lì in mezzo c’era un campo di concentramento […]. C’era poco da mangiare, gli zingari, poi, venivano trat- tati peggio del peggio, venivano considerati come i giudei, invece loro erano cristiani, poi li maltrattavano dicendo: «Tanto questi sono zingari, portano la peste, portano questo e quest’altro». Dove c’era un sinto veniva preso e portato via, per quello noi in quel periodo siamo andati giù in bassa Italia, in una montagna che si chiamava Maiella, era alta quella

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montagna lì, lì siamo rimasti nascosti per un bel po’ […] sei, otto mesi, […] eravamo in parecchi, tutti sinti […] i vecchi decisero di andare lì su, lo zio di mio marito conosceva quella montagna lì, […] si chiamava Satori Giovanni […].

Dalla Maiella siamo andati via quando sono arrivati i polacchi e i canadesi, quando loro sono venuti in su verso di noi, siamo scesi dalla Maiella, perché eravamo finalmen- te liberi. A Rimini ci siamo arrivati perché mio marito era innamorato del mare […] ci siamo fermati ed abbiamo preso una giostrina e siamo rimasti qui.

Giacomo Gnugo De Bar 33

Questa è una piccola storia, per molti da poco, ma è una storia vera. Parte di questa mi è stata raccontata dai miei nonni e dai miei genitori; parte l’ho vissuta.

Io la racconto perché è importante ricordare […]. Mio nonno era Jean De Bar, un sinto

valcio, che in lingua nostra vuol dire francese. Scese in Italia a piedi nel 1900. Lasciò i

genitori in Francia e venne a tentare la fortuna, senza niente, a quindici anni, solo con qualche costume da saltimbanco. Era uno dei più bravi contorsionisti del mondo, ma era bravo anche a fare i salti di scimmia, in altre parole i salti mortali al tappeto: ne faceva sei, sette o anche otto. I De Bar sono una famiglia di saltimbanchi da sempre. Anche mio nonno aveva imparato a guadagnarsi la vita così. Lui posteggiava, che nella lingua significa proprio fare i numeri di saltimbanco all’aperto, davanti alle chiese, nei mercati e nelle fiere.

Sarà stato il 1905 che posteggiando in giro per l’Italia incontrò nel ferrarese anche i capostipiti Paolo Orfei e i fratelli Nandino e Teta Togni e per un breve periodo lavorarono anche insieme, ma soprattutto fecero amicizia perché, nonostante il nonno fosse france- se, erano lo stesso tutti sinti. Neanche i Togni avevano il circo allora, ma giravano così molte piazze e la gente si divertiva. […]

Poi il nonno riprese a lavorare da solo, e fu allora che conobbe, nella zona di Pavullo nel Frignano, la nonna Ida. Lei era un’artista che posteggiava con la sua famiglia e faceva il numero del filo. Il numero del filo è quel numero di equilibrismo tipico femminile che consiste nel camminare su un cavo d’acciaio sollevato di un paio di metri da terra […]. Alla nostra usanza, il nonno chiese a lei la mano, lei gli disse di sì, perché gli voleva bene, e così scapparono, insieme, che per noi significa diventare marito e moglie.

Vennero a casa per il perdono, furono perdonati e così si fecero un carrettino e comin- ciarono a girare l’Italia sempre solo loro due[…]. Verso la fine degli anni Venti, incontra- rono di nuovo il Teta Togni che nel frattempo aveva costruito un postone, cioè un “Circo

Arena”, uno dei primi – se non il primo assoluto – presente in Italia.

Il nonno e la nonna si unirono a quel circo per qualche anno e lavorarono insieme a Paolo Orfei […]. Ma non perdiamo il filo: il nonno lavorò nel postone di Teta Togni per qualche anno, fece un po’ di soldi e comperò un carretto grande e un mulo, poi tornò per la sua strada. Passava il tempo e arrivavano molti figli, e appena questi avevano sette, otto, nove anni imparavano il mestiere e lavoravano nel postone che il nonno s’era nel frattempo fatto.

Anche io nel 1960 ho lavorato in quel postone e ho ricordi molto belli […]. I rapporti con la gente dei paesi, i gagi, erano ottimi. Forse perché c’era della miseria anche per loro. Molte volte quando non si lavorava a causa della pioggia ci portavano patate, fagioli,

33 G. De Bar, Strada. Patria sinta. Cento anni di storia nel racconto di un saltimbanco sinto, Fatatrac, Bologna,

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