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41il fiume Sava Arrivarono dall’altra parte soltanto due donne che furono salvate solo grazie

ad alcuni contadini che dettero loro delle coperte. Queste erano le storie che per tanto sono state narrate la sera intorno al fuoco. Quelle storie portarono mio padre a fare il partigiano nella zona di Venezia, ma la sua famiglia era preoccupata e, siccome era un ragazzino, fu la sua famiglia a dare qualcosa ai partigiani per obbligarlo a tornare a casa. Pensate un po’ che lo fecero scacciare dai partigiani, perché volevano che non si cacciasse nei guai. Sappiamo anche che mio padre, dopo la morte di suo zio, fu portato in un campo di concentramento. Era il 1942 e nelle storie familiari si nomina il campo di concentramento fascista di Gonars, ma non ne abbiamo certezza.

Dal 1985, ci siamo spostati definitivamente a Mestre e dal 1990 siamo rimasti in casa senza più spostarsi. Io l’ho scelto soprattutto per i bambini che così potevano frequentare più facil- mente le scuole. La nostra, come quella di tutti gli istriani, è anche una storia legata all’esodo dall’Istria quando, dopo la Seconda guerra mondiale, quella zona è passata definitivamente nel territorio della Jugoslavia. Mio padre ha potuto far valere l’opzione italiana, cioè ha scelto, come hanno fatto tanti altri italiani che vivevano in Istria, di tornare all’interno dei confini italiani abbandonando la terra d’origine ormai diventata slava. Siamo quindi parte della storia che ha riguardato tanti altri italiani in quel periodo, i cosiddetti profughi giuliani. Il nostro inserimento in Italia è passato anche da questa opzione. Per noi, credo che pesò soprattutto il fatto che in Jugoslavia fu tolta la libertà di circolazione e, anche se c’era più rispetto per le minoranze, allora la mia famiglia decise di rientrare in Italia. Pensa che anche tra noi si par- lava delle foibe e forse c’era anche questo tipo di paura. Credo che soprattutto nella zona del confine orientale noi abbiamo potuto avere un trattamento migliore, più perché riconosciuti come esuli che come rom.

La nostra permanenza a Mestre ha poi significato che i nostri figli hanno cominciato le scuole e per noi ha significato la catastrofe della perdita della lingua. Per me la lingua è il sim- bolo della nostra appartenenza, perché non dobbiamo per forza somigliare agli altri, dobbiamo semmai guadagnare il rispetto degli altri attraverso il nostro comportamento ed il nostro modo di essere. Noi abbiamo perso tanto e siamo finiti in grandissimi problemi. Abbiamo attinto dall’esterno tanti aspetti negativi.

La memoria abita nella lingua ed anche nel racconto della storia. A Venezia, per tre anni siamo riusciti a dare un messaggio che per me era importante: abbiamo consegnato la nostra bandiera rom al comune che l’ha esposta nel Giorno della Memoria accanto alla bandiera ita- liana ed a quella europea. Noi siamo questo messaggio di pace. Da qualche anno è stato deciso che non è più possibile esporla. Che cosa può significare questo tipo di messaggio?

Da quel momento ho deciso di fare il mio Giorno della Memoria a Padova, in un luogo per me significativo, perché ho prodotto un quadro in rame sul muro della chiesa dove si trova il Monumento del deportato ignoto. Il mio quadro rappresenta il filo spinato, un fiore raccolto, la colomba della pace e vuole essere un’immagine di unione ed insieme c’è una poesia di Santino Spinelli.

«Dik I Na Bistar»

I miei genitori arrivarono in Italia nel 1964 a Torino e per alcuni anni lavorarono alla Fiat. Ci fu un problema di documenti e dovettero tornare in Jugoslavia, dove si rimisero a fare i ramai, cioè riparavano e producevano pentole e per questo viaggiavano da nord a sud Italia. In pochi anni ci stabilimmo a Roma andando ad occupare le baraccopoli lasciate da poco libere dagli immigrati del sud. Era un periodo in cui ancora i rom che portavano un lavoro utile agli altri venivano accettati abbastanza volentieri. Mio padre decise di tornare a Torino. Io mi chiamo

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Graziano Halilovic, sono nato a Prato nel 1972, durante uno dei tanti spostamenti per lavoro dei miei genitori; le prime scuole le ho frequentate nel capoluogo piemontese. Ho riflettuto da adulto sulla mia esperienza di scuola e quello che mi ricordo è che era una classe differen- ziale, solo per i rom del campo. A quella scuola andavano solo i maschi. La mia ricerca negli archivi della scuola non ha prodotto niente, non ho trovato niente. Vi ho imparato almeno a leggere e scrivere. Nel 1982, mio padre decise di tornare nel suo Paese d’origine che è l’odier- na Bosnia Erzegovina. Ed anche questa volta la scuola fu difficile, perché parlavo soprattutto

romanés e quindi non riuscivo a comunicare. Era una scuola multietnica dove un bambino

rom era addirittura benvoluto. Mio padre se ne era voluto andare dall’Italia proprio perché si sentiva rifiutato. In quell’occasione, l’essere rom diventava addirittura un vantaggio. Mio padre mi spiegò che nella Jugoslavia i rom erano stati anche a fianco di Tito, ma era impor- tante anche la memoria del fatto che nella Seconda guerra mondiale avevamo subito la depor- tazione nel campo di concentramento di Jasenovac. Gran parte della famiglia di mia madre è stata sterminata a Jasenovac, che era il terzo campo di sterminio per superficie. Ci è rimasta una grande paura dei non rom, a causa delle tante persecuzioni subite. Ho scelto d’impegnar- mi proprio sul tema della trasmissione della storia dei rom ed in particolare della memoria di Auschwitz. Il mio attivismo iniziale era poco consapevole, come quello di molti altri: fare presenza, senza poter mai prendere la parola. È questa la radice dei fallimenti di quegli anni. È stato solo negli anni successivi che ho capito che la vera forza per cambiare le cose era sol- tanto operare attraverso i più giovani. È su questa strada intrapresa in quel momento che mi sono dedicato al tema della memoria. Il mio percorso è quello che indichiamo con il termine

Ternipé che significa innovazione o idee nuove, non soltanto giovani, ma soprattutto giovani

di varie estrazioni sociali. È stato uno di questi incontri fatti a Cracovia che ci ha portato ad entrare nel museo di Auschwitz. L’uscita da quel luogo ci ha fatto capire che quella storia, che è anche la nostra storia, doveva essere al centro della nostra attività. Ci siamo tornati più volte e sempre con ragazze e ragazzi, sempre con gruppi misti di più nazioni. Forse uno degli slogan che abbiamo utilizzato e che ci hanno portato di nuovo ad Auschwitz può far capire il nostro obiettivo: «Dik I Na Bistar» cioè «Guarda e non dimenticare». Lo sterminio subito sta al centro della nostra storia.

La resistenza non è mai finita

Mi chiamo Dijana Pavlovic, sono nata in un piccolo paese dell’attuale Serbia, da una fami- glia rom desiderosa di riscatto sociale. I miei genitori hanno fatto di tutto per farci studiare, farci rispettare e farci arrivare dove gli «zingari» non era previsto che potessero arrivare. Io sono nata nel 1976, Tito è morto nel 1980 ed era ancora forte l’idea di uguaglianza, della dignità delle minoranze, perciò tutti dovevano avere, almeno sulla carta, una possibilità di riscatto sociale. I miei genitori venivano da situazioni complicate: i miei nonni erano entram- bi analfabeti ed erano vissuti in grande povertà. Poi però i loro figli, cioè i miei genitori, sono andati loro stessi a scuola e si sono diplomati. La mia famiglia credeva nell’idea del sociali- smo reale e quindi nell’uguaglianza anche attraverso l’istruzione. C’era la prospettiva di una vita migliore ed hanno deciso di andare a vivere in questo paese, dove sono nata, che era un luogo prestigioso per vivere. Ci arrivarono con due valigie, trovarono un lavoro e due stanze in affitto. Pensate che tutto il paese veniva a cena a casa nostra, perché pensavano che i loro figli dovessero avere vicini degli intellettuali. Era comunque difficile, mia madre aveva una laurea triennale, ma non trovò mai lavoro se non in fabbrica, non c’era spazio per una donna rom, ad esempio, negli uffici pubblici. Eravamo l’unica famiglia rom di tutto il paese, mentre il villaggio rom era un po’ fuori dalla cittadina. Da bambina ero totalmente presa dall’idea

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