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49vano di non tornare, si sentiva già il pericolo della guerra civile, allora decisi di andare a

fare domanda di asilo politico in questura a Torino. Mi dettero un modulo da compilare sul quale si chiedeva anche l’appartenenza etnica e culturale e lingua ed io scrissi «rom» senza pensarci tanto ed accanto alla lingua scrissi «serbo-croato». Dall’altra parte, la per- sona dell’ufficio lesse e cominciò insistentemente a chiedermi se fossi uno zingaro ed io rispondevo tranquillamente di sì. Mi fece attendere per otto ore, capii dopo che avevano controllato che i documenti non fossero fasulli. A quel punto, passate otto ore, m’indicò la via dell’ufficio stranieri e nomadi. È in quella questura di Torino che mi misero per la prima volta addosso l’etichetta negativa di zingaro ed io non la rifiutai affatto, perché per me, a quel punto, affermare di essere zingaro diventava una questione di rispetto da pretendere, qual- siasi fosse il significato che gli altri attribuivano a quella parola in Italia. Mi spostai quindi all’ufficio stranieri e nomadi cercando di risolvere il problema di dove andare ad abitare, perché non avevamo più soldi e non potevamo tornare indietro in Jugoslavia. In quel luogo ho conosciuto il responsabile dell’ufficio che mi dice che per sistemarmi posso andare in una via periferica di cui mi scrisse l’indirizzo, tanto che per arrivarci dovetti pagare un taxi che seguii fino ad un recinto che dentro aveva baracche e roulotte. Non capivo più niente, perché mi immaginavo un insediamento rom come in Jugoslavia con le case, ma non una specie di campeggio. Mi sono presentato ed ho cercato qualcuno che provenisse dalla mia zona e, per caso, mia moglie conosceva una persona del campo. Mi spiegarono che a Torino, in Italia, i rom vivevano in questo modo, non c’era neppure un bagno per lavare mio figlio. Era una sensazione strana per me, perché avevo davanti una condizione invivibile, ma allo stesso tempo sentivo il piacere di ritrovare altri rom. Mia moglie non resistette più di qualche ora e ce ne andammo. Chiesi aiuto alla mia famiglia per poter trovare almeno un piccolo appartamento in affitto. Riuscii poi ad avere un lavoro proprio all’ufficio stranieri e nomadi e nel 1988 sono diventato un mediatore linguistico. Quel lavoro si è poi interrotto nel 2014, ma non si è interrotto il mio impegno per aiutare la mia comunità.

Mia madre, che guardava le donne di Indomeni

I miei genitori si sono sposati tramite un matrimonio combinato in Jugoslavia, mia madre aveva 15 anni e mio padre ne aveva 20; a quel tempo usava così. Non c’è da parte loro una memoria sulle origini, si ricordano di una antica origine albanese da parte di mia madre, da parte di mio padre mi pare di poter dire che ci sono forti influenze con la Grecia e comunque erano del gruppo di quelli che lavorano il ferro, anche se poi li ritrovi a fare i calzolai nel con- testo della mia famiglia d’origine. Pensate che situazione di vita difficile: mio nonno da parte di madre è morto giovanissimo e in famiglia non sanno dire di che cosa sia morto, questo dovrebbe far comprendere le difficoltà estreme.

I miei genitori partirono dalla Jugoslavia nel settembre del 1989. Io mi chiamo Musli Alievski e sono nato nel febbraio del 1988 in quella che è l’odierna Macedonia, mentre mio padre faceva il militare a Belgrado, quando ancora non c’era la guerra. Ci fu una discussione familiare tra mia madre e la nonna da parte di padre. Mio padre allora si fece congedare e decisero insieme di andarsene.

Fu un viaggio estenuante, dormirono a Pordenone e dopo ripresero la strada per arrivare a Napoli e tramite l’elemosina iniziarono a ripagare i trafficanti (che in quel caso erano altri rom). Mio padre si ricorda poco, mentre la sofferenza di quei giorni è rimasta dentro a mia madre: si ricorda che sul confine qualcuno mi prese in braccio e mi dette una banana, ma si ricorda anche di essere caduta dal furgone e di essersi rotta il naso. I miei genitori in due mesi riuscirono a ripagare il debito e dopo un anno si comprarono una campina (roulotte) e

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si spostavano nella provincia per elemosinare. Una vita totalmente diversa dalla Macedonia, dove vivevano in casa.

In Italia finirono subito nei campi nomadi e questo era l’assillo di mio padre: «Ho sbagliato, perché dovevamo andare in Germania» e lo diceva anche in riferimento alla presenza dei campi nomadi. Scelse l’Italia perché c’era lo zio di mio padre che commerciava tra Italia e la Jugoslavia. Per loro era la via più veloce, perché il loro obiettivo era solo quello di fare qualche soldo e di tornare in Macedonia dove costruirsi una casa; tutti pensano così, poi non succede quasi mai.

Il percorso dei miei genitori è stato spesso legato al tragitto seguito da mio zio ed è in questo spostamento che arrivammo a Foggia come stanziali, ma dentro un campo nomadi che era vicino al cimitero di Foggia, si chiama Viale Sprecacenere. Raggiunsero altri rom provenienti da Skopje. Furono poi raggiunti da altri parenti che ancora stanno a Foggia.

A Foggia, sono stato il primo bambino nel campo a frequentare la scuola del quartiere rione Martucci e l’anno dopo hanno iniziato tutti i bambini del campo. Il primo anno ave- vamo lo scuolabus che ci portava, il secondo anno già non veniva più e quindi ho in memo- ria questa distesa di grembiulini blu, lungo la strada dal campo alla scuola, si comprava la merenda a 500 lire al bar di Giovanni e si entrava in classe. L’esperienza scolastica non è stata semplice, perché i genitori non rom protestarono contro la nostra presenza, perché secondo loro portavamo malattie. Si misero l’anima in pace, ma cominciarono trattamenti particolari, cioè eravamo costantemente sotto il controllo delle bidelle per vedere se fossimo puliti e senza pidocchi. Le classi erano spesso con tanti bambini rom e ad un certo punto fecero classi di soli rom, ma quello che ricordo di più è che quando poggiavi le tue cose, gli altri bambini spostavano le loro. In quei momenti non mi accorgevo di quell’atteggiamento, perché alla fine ti sembra normale, dovuto al fatto che sei rom, a quell’età lo accetti come fosse normale. Al supermercato le persone ci vedevano e si tenevano la borsa oppure le cas- siere ricontrollavano tante volte le banconote.

Nel frattempo, mio padre ha sempre provato ad uscire dal campo, ma spesso è andata male; la prima volta cercò lavoro in provincia di Campobasso in agricoltura, senza risultato e quindi non potevamo più restare in una casa in affitto e tornammo al campo. Lo stesso accadde con San Benedetto del Tronto, ma dovette rientrare ancora nel campo, perché quando il datore di lavoro lesse l’indirizzo del campo nomadi sul permesso di soggiorno, l’assunzione sfumò immediatamente. La politica si occupò del campo solo dopo un grande incendio che distrus- se tutto, ma non successe praticamente niente, se non uno spostamento in mezzo al nulla. In quel campo, un bambino di pochi mesi morì carbonizzato per un corto circuito, un altro morì annegato in un pozzo utilizzato per l’acqua piovana in agricoltura, altri sono stati investiti nei giorni di pioggia in cui camminavi in mezzo alle strade, perché era tutto allagato.

Il nostro spostamento a Pesaro arriva quando sembra fallita qualsiasi alternativa. In quel periodo, per un anno ho fatto il nullafacente e mi ero spostato in Macedonia in estate. Al mio rientro, mio padre non aveva più soldi e per farmi tornare ha dovuto vendere le fedi. È stato forse quel punto così basso a darci la spinta per reagire e d’estate tutti ci siamo messi al lavoro: mio padre e mio fratello vendevano rose ed io vendevo palloncini con l’elio. Ci siamo comprati un libro con scritte tutte le sagre legate ai patroni per poter andare a vendere e così mettemmo insieme 5mila euro con i quali siamo andati a vivere a Macerata-Feltre. Mio padre ed io siamo stati assunti insieme, nello stesso giorno, il 25 ottobre 2014. La notte prima non ho dormito per l’emozione e pensate che avevamo ancora il permesso di soggiorno con scritto: Via San Severo, Campo nomadi, roulotte 52. Le cose sono due, o il nostro datore di lavoro era completamente ignorante sul tema, oppure non era razzista. Però non pensate che tutto fosse risolto: i carabinieri non ci dettero tregua, perché in un paesino di 3mila abitanti i carabinieri, visti i documenti, sapevano che eravamo rom. Ci dissero così: «Non ci interessa

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