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Altre decisioni: libertà religiosa e regime carcerario; la questione del crocifisso

nella giurisprudenza costituzionale

3. Altre decisioni: libertà religiosa e regime carcerario; la questione del crocifisso

Rimangono da esaminare, per completezza, due decisioni di inammissibilità motivate sulla base della natura regolamentare delle disposizioni oggetto di sindacato e una deci- sione di non fondatezza.

Con la s. n. 72/1968101 venne portato all’attenzione della Corte un caso, che nella

sua singolarità, rende comunque molto bene l’idea della ‘conformazione confessionale’ che era presente (e ancor oggi il problema non è stato pienamente risolto) nelle c.d. ‘isti- tuzioni totalizzanti’: un detenuto lamentava l’illegittimità costituzionale dell’art. 142 del regolamento per gli istituti di prevenzione e pena (R.D. 787/1931) che gli imponeva di frequentare la messa dal momento che all’atto di entrare in carcere non aveva dichiarato di non essere cattolico; chiese di essere dispensato al giudice di sorveglianza che sollevò la questione indicando come parametri gli artt. 19 e 21102.

98 Per n. Colaianni, La fine del confessionismo e la laicità dello Stato (il ruolo della Corte costituzionale

e della dottrina), in Pol. dir., 2009, p. 72, si trattarebbe della sentenza «da manuale sulla laicità». Per l’autore il divieto per lo Stato di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti costituisce «l’esito più compiuto del processo di raffinazione del principio affermato con la sentenza n. 203/1989 dalla giurisprudenza costituzionale, il sicuro e definitivo approdo del suo viaggio».

99 Cfr., per tutti, S. mangiameli, La «laicità» dello Stato tra neutralizzazione del fattore religioso e «plura-

lismo confessionale e culturale», cit., p. 29, che, in riferimento alla s. n. 149/1995 afferma: «l’impressione imme- diata, che dà lettura del dispositivo, è quella non di una decisione che salvaguardi la libertà delle fedi, secondo uno spirito laico, ma di una scelta permeata dalla tendenza laicista». L’autore prosegue poi affermando che «Una nozione di “libertà di coscienza” così estesa e penetrante, da ritrovarsi in ogni libertà, oltre a privare la coscienza del suo peculiare contenuto, forse, non corrisponde alla realtà del nostro ordinamento costituzionale che manca, a differenza di altri, di una puntuale disposizione in proposito» (p. 33).

100 Così n. Colaianni, La fine del confessionismo e la laicità dello Stato, cit., p. 75, che conclude rimarcando

come «questa obsoleta interpretazione dell’art. 19 limitato alle sole credenze positive e non pure agnostiche o ateistiche, era stata rigettata già con la prima sentenza sul giuramento e, quindi, non costituisce una novità introdotta dalla 334/96».

101 in Giur. cost., 1968, p. 1031 e ss., con osservazione di V. onida, Sulla «disapplicazione» dei regolamenti

incostituzionali (a proposito della libertà religiosa dei detenuti).

102 Ritenuto in fatto, p. 1037 e ss.: «l’art. 142 citato col prescrivere l’obbligo della frequenza delle pratiche

collettive del culto cattolico per tutti i detenuti che, al momento dell’ingresso nello stabilimento, non avessero dichiarato di appartenere ad altra confessione religiosa, appariva in contrasto con i principi di libertà di culto e di pensiero garantiti dalla Costituzione; e ciò per le ragioni seguenti: 1) perché la libertà di professare una religione diversa dalla cattolica non poteva essere condizionata per il cittadino detenuto a una sua indicazione resa al momento dell’ingresso nello stabilimento carcerario; 2) perché doveva essere a lui riconosciuta la libertà

il giudice delle leggi non scese nel merito esaminando solo le eccezioni dell’avvoca- tura, tese a far dichiarare l’inammissibilità della questione (essa non era stata sollevata ‘nel corso di un giudizio’ e atteneva a disposizioni regolamentari)103: rigettò la prima

eccezione richiamando la precedente giurisprudenza in materia di ‘giudice e giudizio’, ritenendo che il giudice di sorveglianza fosse legittimato a sollevare questioni di incosti- tuzionalità dal momento la funzione di vigilanza sull’esecuzione delle pene si estrinseca- va anche in un’attività decisoria volta a regolare, su reclamo del detenuto, i diritti di lui in ordine al suo trattamento penale104; accolse invece la seconda dichiarando inammissibile

la questione perché l’oggetto era una disposizione regolamentare, precisando però che «le norme regolamentari, quando siano ritenute illegittime per contrasto con la Costi- tuzione, possono e debbono (non diversamente dai casi in cui siano ritenute illegittime per contrasto con leggi ordinarie) essere disapplicate»105.

in merito alle problematiche inerenti alla libertà religiosa, sottese al caso riguardante tale decisione, non si può che condividere l’argomentazione del giudice di sorveglianza, dal momento che, se lo stato di detenzione comporta ovviamente una restrizione della libertà personale e per conseguenza di tutte quelle a essa connesse (circolazione, corrispondenza, riunione, associazione, manifestazione del pensiero), esso non può in alcun modo invece incidere su quegli aspetti della libertà che concernono l’atteggiarsi della coscienza individuale e delle sue manifestazioni, nei suoi aspetti per così dire negativi (libertà di non manifestare le proprie con- vinzioni, e quindi anche le proprie convinzioni religiose o areligiose; libertà di non manifestare un pensiero o di non professare una religione contraria alle proprie intime convinzioni, libertà di non praticare atti di questo o di quel culto, indipendentemente dal fatto che si tratti per avventura del culto corrispondente alle convinzioni religiose dell’individuo)106.

di non professare alcuna religione; 3) perché non potevano essere a lui negati i diritti relativi alle libertà fonda- mentali garantite dalla Costituzione, nei limiti e nel rispetto delle esigenze della vita carceraria, che, nel caso, non sembravano ricorrere ed ostare».

103 Ritenuto in fatto, p. 1041 e ss.

104 Considerato in diritto p. 1046 e ss.: «è sufficiente a questa Corte richiamarsi alla sua giurisprudenza e in

particolare alla sua recente sentenza n. 53 del 9 maggio 1968 nella quale, esaminando lo stesso problema in or- dine alla funzione assegnata al giudice di sorveglianza in materia di applicazione di misure di sicurezza, essa ha ritenuto che, ai fini della proposizione di questioni costituzionali, il termine “giudizio” è usato dall’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948 n. 1, nel senso più ampio, comprensivo della generalità dei procedimenti che si svolgono davanti a un giudice, senza che rilevi quanto, a un più penetrante esame, possa risultare sulla natura di quel procedimento».

105 Ibidem, p. 1051. La Corte arriva a tale esito facendo leva su dati formali: il r.d. in questione, infatti, era

«intitolato “regolamento concernente il funzionamento degli istituti di prevenzione e pena”, ma quel che al caso più importa, è che la natura, rivelata dalla denominazione, trova conferma nel preambolo del decreto. in questo si fa riferimento, come alla fonte che ne legittima l’emanazione, all’art. 1 della l. 31 gennaio 1926 n. 100, e cioè alla disposizione che disciplina l’esercizio della potestà regolamentare del governo. Vi si ricorda, altresì, oltre alla deliberazione del Consiglio dei ministri, il parere del Consiglio di Stato, che fu richiesto per l’emanazione del decreto, proprio come prescrive per i regolamenti l’art. 1 della citata l. del 1926. a fronte di questi elementi, nulla sta ad indicare, nel decreto in questione, la volontà di porre in essere un atto con forza di legge».

106 Così, V. onida, Sulla «disapplicazione» dei regolamenti incostituzionali, cit., p. 1046, che continua spe-

Quanto invece alla costante giurisprudenza riguardo all’insindacabilità delle fonti non primarie, il caso in questione dimostra ancora una volta la validità dell’imposta- zione di mortati riguardo all’elaborazione di una nozione ‘sostanziale’ di ‘forza di leg- ge’107 capace di consentire il sindacato del giudice delle leggi ogniqualvolta ci si trovi

di fronte a regolamenti privi di una disposizione legislativa di riferimento. Solo in que- sta maniera è possibile salvaguardare la ratio del sistema del sindacato accentrato di costituzionalità e assicurare così una uniforme interpretazione della Costituzione, non lasciando all’arbitrio del singolo giudice chiamato alla disapplicazione la garanzia di diritti e libertà fondamentali, specie in casi, come quello esaminato, in cui è dubbia pure la stessa possibilità di ricorrere a un giudice per addivenire a una disapplicazione108.

Un altro aspetto attinente alla libertà religiosa nel ‘regime carcerario’, latamente inteso è quello affrontato dalla Corte nel 2003, allorché le venne prospettata una questione riguardante una persona sottoposta alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza: il giudice a quo dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 7-bis della l. n. 1423/1956, in relazione all’art. 19 Cost., in quanto non prevedeva la possibilità di autorizzare la persona sottoposta alla misura di prevenzione di allontanarsi esclusivamente per motivi di salute e non anche per permettere alla persona di esercitare in forma associata il diritto di professare la propria fede religiosa, quando ciò non sia possibile per mancanza di comunità di fedeli e di luoghi di culto109.

L’avvocatura sosteneva l’infondatezza della questione rilevando come anche la liber- tà religiosa incontrasse dei limiti stabiliti dalla legislazione in vista di altre esigenze, come la pacifica convivenza e la sicurezza110.

pendentemente dalle convinzioni del detenuto, «una inammissibile coartazione della coscienza individuale, contraria alla dignità umana, non giustificabile da nessuna esigenza di ordine sociale e da nessun rapporto di supremazia speciale – quale quello che si instaura con lo stato di detenzione – in cui l’individuo si trovi: configgente quindi, oltre e prima che con singoli precetti della Costituzione posti a tutela delle libertà (artt. 19, 21), con lo stesso principio “personalista” posto a fondamento dell’ordine costituzionale, e basato sull’incondi- zionato rispetto della persona umana e della sua dignità, come risulta dall’art. 2 Cost. e come è implicitamente confermato, proprio in relazione allo stato di detenzione, dagli art. 13 comma quarto e 27 comma terzo Cost.».

107 Cfr. C. mortati, Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità, milano, giuffrè, 1964. Su questa

problematica cfr. ora, per tutti, l’ampio e documentato studio di m. maSSa, Regolamenti amministrativi e proces-

so. I due volti dei regolamenti e i loro riflessi nei giudizi costituzionali e amministrativi, napoli, Jovene, 2011, e ivi ampia bibliografia.

108 Si veda, a questo proposito, tutta l’articolata osservazione di V. onida, Sulla «disapplicazione» dei regola-

menti incostituzionali, cit., in cui, oltre a discutersi tutte le problematiche attinenti a tale questione, si affacciano interessanti idee circa l’obbligo della Pubblica amministrazione di disapplicare tali regolamenti.

109 S. n. 309/2003, in Giur. cost., 2003, p. 2912, con osservazione di S. Baraglia, Misure di prevenzione e

principio di uguaglianza nella religione: riflessioni in tema di discriminazioni indirette. Ritenuto in fatto, p. 2914. Cfr. B. ValenSiSe, La misura di prevenzione dell’obbligo di soggiornare in un determinato comune e il diritto di

professare il proprio culto: un’armonia impossibile?, in www.astrid-online.it.

110 Ritenuto in fatto, p. 2915. in precedenza l’avvocatura aveva portato un argomento molto debole e non

pertinente, ossia il fatto che il soggetto in questione appartenesse a una confessione con Intesa che in sede di stipulazione non aveva richiesto misure come quella che si invocava.

il giudice delle leggi dichiarò non fondata la questione sulla base del fatto che, se da una parte «nella configurazione di tutte le misure limitative della libertà della persona e, dunque anche delle misure di prevenzione, l’esercizio dei diritti costituzionali non può essere sacrificato oltre la soglia minima resa necessaria dalle misure medesime», il caso in questione non era assimilabile a quello dei motivi di salute, dal momento che la sospensione degli obblighi del sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno per con- sentire la partecipazione periodica e continuativa a cerimonie religiose sarebbe stata in insuperabile contraddizione con le esigenze in vista delle quali la misura di prevenzione è adottata, come risulta evidente sia dalla circostanza che l’autorizzazione dovrebbe valere in generale per tutta la durata della misura, sia dall’ovvia impossibilità di assicurare idonee misure di pubblica sicurezza nei luoghi di culto e durante la celebrazione di cerimonie religiose111.

La Corte, infine, proponeva al giudice di prendere in considerazione il fatto che, compatibilmente con le esigenze della sicurezza, l’obbligo di soggiorno sia fissato, in conformità con la richiesta dell’interessato, in un comune dove tale organizzazione esista e nel quale la persona sottoposta alla misura di prevenzione vada a fissare la propria residenza112.

non paiono esserci grandi spunti di rilievo in questa decisione, se non nel senso che la stessa rimarca come la libertà religiosa non sia in alcun modo speciale rispetto alle

altre, soggiacendo dunque a tutti i limiti previsti per le stesse: non è possibile, dunque,

in base a motivazioni di ordine religioso, sfuggire alle limitazioni che il legislatore pone alle altre libertà (nella specie, le libertà di circolazione e di soggiorno legittimamente limitate in virtù delle necessità scaturenti dalla necessaria attività di prevenzione delle attività criminose).

Per concludere, è necessario accennare alla questione dell’esposizione del crocifis- so nelle scuole pubbliche: con l’ordinanza n. 389 del 2004 la Consulta ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale proposta in merito agli artt. 159 e 190 del d.lgs. n. 297/1994 (Approvazione del testo unico delle

disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), come specificati, rispettivamente, dall’art. 119 del R.D. 1297/1928 e dall’art.

118 del R.D. 965/1924113. La questione era stata sollevata, in riferimento alla violazio-

ne del principio di laicità dello Stato, dal t.a.R. Veneto114.

111 Considerato in diritto, p. 2917. 112 Ibidem, p. 2918.

113 in Giur. cost., 2004, p. 4280 e ss., con osservazioni di S. lariCCia, A ciascuno il suo compito: non spetta

alla Corte costituzionale disporre la rimozione del crocefisso nei locali pubblici, g. gemma, Esposizione del croci-

fisso nelle aule scolastiche: una corretta ordinanza di inammissibilità, F. rimoli, La Corte, la laicità e il crocifisso,

ovvero di un appuntamento rinviato, a. oddi, La Corte costituzionale, il crocifisso e il gioco del cerino acceso,

e a. gigli - S. gattamelata, Il crocifisso: valore universale di un arredo scolastico. Cfr. pure l’osservazione di

r. romBoli, in Foro it., 2005, i, c. 1 e ss., secondo il quale la Consulta avrebbe ‘deciso di non decidere’.

114 in Foro it., 2004, iii, c. 235 e ss., su cui cfr. a. Celotto, Il simbolo sacro inserito tra gli arredi scolastici

La Corte, dopo aver precisato che non esisteva alcun rapporto di specificazione tra la fonte primaria richiamata nell’ordinanza di rimessione e le fonti secondarie attraverso le quali si impose l’esposizione del crocifisso, e avere altresì specificato che la vigenza di queste ultime non poteva fondarsi sull’art. 676 del d.lgs. n. 297/1994115,

ha dunque respinto la questione perché l’impugnazione delle indicate disposizioni si appalesava come

il frutto di un improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo di una questione di legit- timità concernente le norme regolamentari richiamate: norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né, conseguentemente, un intervento interpretativo di questa Corte116.

in dottrina non è mancato un vivace dibattito fra chi ha visto in questa decisione una ‘fuga’ della Consulta dalla questione, operata trincerandosi dietro motivi di rito117,

e chi invece, negando la validità dell’impianto dell’ordinanza di rimessione e avallando così la decisione da un punto di vista strettamente processuale, ha fatto pure notare come la soluzione fosse corretta anche da un punto di vista ‘politico-costituzionale’118.

altri si sono soffermati invece sul passaggio in cui il giudice delle leggi nega che «l’affermata perdurante vigenza delle norme regolamentari richiamate» possa essere ricondotta all’art. 676 del d.lgs. n. 297/1994: si è così tratto da questo inciso la convinzione che la Corte avrebbe indicato al giudice amministrativo la via per risolvere la questione, considerando non più vigenti tali fonti secondarie119, ovve-

115 Considerato in diritto, p. 4285. 116 Ibidem, p. 4286.

117 Cfr. a. pugiotto, Sul crocifisso la Corte costituzionale pronuncia un’ordinanza pilatesca, in www.forumco-

stituzionale.it; id., Verdetto pilatesco sul crocifisso in aula. Dopo l’ordinanza si naviga a vista, in Dir. giust., 2005,

p. 84 e ss.

118 g. gemma, Esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche: una corretta ordinanza di inammissibilità, cit.,

p. 4300, secondo cui «il trasferimento di “patate bollenti” dai giudici comuni alla Corte porta non al raffred- damento delle questioni, bensì al coinvolgimento di essa nello scontro politico-culturale, con il rischio di sua delegittimazione. La Corte, come il Presidente della Repubblica, tanto più svolge il suo ruolo di garanzia quanto meno è investita di questioni “calde”, la cui soluzione possa risultare sgradita ad una parte dello schieramento politico ed a settori della società. Ciò significa che, se il giudice costituzionale debba, anch’esso, affrontare e risolvere controversie spinose, allorché queste pervengano alla sua giurisdizione, non si debba però cercare di dilatare, in termini forzati, quest’ultima, poiché tale configurazione estensiva non gioverebbe alla salvaguardia dei valori costituzionali». Per a. oddi, La Corte costituzionale, il crocifisso e il gioco del cerino acceso, cit., p. 4307,

«Una seria e coerente applicazione di quel principio non avrebbe potuto che condurre ad una pronuncia di accoglimento, e quindi alla rimozione del crocifisso. Scelta, questa, che anche ai giudici costituzionali dev’esser apparsa troppo difficile a sostenersi. È del resto ben noto che, ogniqualvolta si è trattato di pronunciarsi su que- stioni che attengono alla posizione e agli interessi della Chiesa cattolica, la Corte ha sempre dato dimostrazione di particolare “prudenza”».

119 Cfr. a. oddi, La Corte costituzionale, il crocifisso e il gioco del cerino acceso, cit., p. 4308, secondo cui

«il primo giudice chiamato a pronunciarsi sarà proprio il t.a.R. Veneto, che nella stessa ordinanza di rimessio- ne non aveva fatto mistero del proprio orientamento. in essa si legge che “le norme recate dall’art. 118 del r.d. 965 del 1924 e dall’art. 119 del r.d. 1927 del 1928 non configgono con il testo unico, ma dovrebbero comunque ritenersi abrogate ex art. 15 preleggi, perché il d.lgs. 297 del 1994 regola l’intera materia scolastica: restano dun-

ro si è considerato tale passaggio privo di capacità chiarificatrice del dilemma in questione120.

Difficile prendere una posizione netta su tale ordinanza: essa sicuramente, se da una parte appare fondata e giustificabile dal punto di vista strettamente processuale, dall’al- tra lascia un senso di insoddisfazione quanto meno nella parte in cui il giudice delle leggi non ha nemmeno cercato di orientare la giurisprudenza dei giudici ordinari e ammini- strativi attraverso un monito esplicito o messo tra le righe121. e se da un lato è compren-

sibile la ‘prudenza politica’ della Corte, anche considerando il ‘fuoco’, proveniente dalla classe politica, apertosi contro la ii sez. della Corte europea dei diritti dell’uomo, rea di aver cercato di applicare, prima della riforma di tale decisione da parte della grande Camera, proprio quei principî costituzional-convenzionali al medesimo caso, per altro verso appaiono anche ben più che ragionevoli le critiche di chi ha ravvisato in questo modo di operare un atteggiamento eccessivamente pilatesco. non si può poi trascurare che così facendo il giudice delle leggi finisce per rinunciare alla facoltà di avere la ‘prima parola’ nella risoluzione di controversie attinenti a diritti e libertà costituzionali, poten- dosi trovare così a dover soggiacere, a meno di non intraprendere la strada del ‘conflitto tra Corti’, alle statuizioni della C.e.d.u., anche in virtù della lettura dell’art. 117, primo comma, data con le sentenze 348-349/2007: pur essendosi lasciata, formalmente, l’ul- tima parola sulla conformità a Costituzione delle disposizioni convenzionali così come interpretate dal loro giudice, riesce veramente difficile pensare a prese di posizione da parte della Corte che potrebbero in ultimo portare a una condanna dello Stato italiano causata da una sentenza costituzionale122.

que in vigore esclusivamente in forza dello stesso art. 676”. Sennonché, la Corte ha negato in maniera espressa che la perdurante vigenza delle predette disposizioni regolamentari possa ricollegarsi alla clausola di salvezza contenuta in tale articolo. Cade, perciò, anche il secondo dei presupposti interpretativi su cui era stata costruita l’intera questione di legittimità. non è forse l’“aiuto” che il giudice a quo avrebbe desiderato; ma non è poco».

120 Cfr. F. rimoli, La Corte, la laicità e il crocifisso, ovvero di un appuntamento rinviato, cit., p. 4303, secondo

cui «la Corte sembra intendere (sebbene non affermi chiaramente) che nessun obbligo di esposizione del croci- fisso derivi da disposizioni legislative: resta tuttavia l’obbligo posto dall’art. 118 r.d. n. 965 del 1924, del quale la Corte dice solo che la sua vigenza non è fondata sull’art. 676 d.lgs. n. 297 del 1994. ma la decisione non mostra alcuna chiara posizione né in ordine all’ipotesi di avvenuta abrogazione tacita di tale disposizione, la cui valu- tazione è lasciata ai successivi interpreti (perché dire che la sua vigenza non trova fondamento ivi, non equivale, ovviamente, a dire che la disposizione non è più in vigore: e anzi alcuni passi successivi fanno intendere che la

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