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La libertà religiosa come aspetto della libertà di coscienza.

la libertà religiosa nel sistema costituzionale

5. La libertà religiosa come aspetto della libertà di coscienza.

tutti gli autori citati nei paragrafi precedenti scrissero prima della svolta giurispru- denziale rappresentata dalla s. n. 117/1979, che per la prima volta ricomprese l’ateismo nella tutela apprestata dall’art. 19, della revisione del Concordato (rectius, la sostitu- zione con un nuovo concordato avvenuta con l’Accordo del 1984), della ‘stagione delle

Intese’ e degli sviluppi della giurisprudenza costituzionale che avrebbero portato alla

sentenza 467/199158 e alla conseguente comparsa come principio fondante di tutte le

libertà costituzionali della libertà di coscienza, non esplicitata in alcuna disposizione costituzionale.

e naturalmente non potevano avere contezza dell’emersione del principio di laicità dello Stato (s. n. 203/1989) e della specificazione dello stesso sviluppatasi nella casistica giurisprudenziale dell’ultimo ventennio.

57 Ibidem, p. 265.

58 in questa fondamentale sentenza, i cui esiti verranno poi richiamati nelle sentenze in tema di libertà

religiosa dell’ultimo ventennio, la Corte afferma che «la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 Cost., dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stes- so che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico», definendo poi la coscienza individuale «principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo» nonché «regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione» (v. punto 4 del Considerato in diritto).

era naturale, quindi, che tutti questi accadimenti comportassero una svolta negli studi in materia: proprio lo sviluppo dello schema logico elaborato dalla Corte nelle sentenze ricordate, e in molte altre, è stato il primo passo non soltanto per colmare il ritardo dottrinale che si registrava sotto moltissimi aspetti, ma anche per aprire nuova- mente la riflessione sul rapporto tra libertà ed uguaglianza in materia religiosa, riconsi- derandolo alla luce dell’affermazione che

la libertà di coscienza (ovvero la libertà di autodeterminazione individuale) implica che l’ordinamento giuridico non imponga all’individuo, né direttamente né indirettamente, uno o più valori tra quelli che qualificano le diverse concezioni religiose o non religiose della vita e del mondo59.

altrettanto naturale che nei contributi più recenti si sia assistito a un’inversione logica molto interessante: la libertà religiosa, come è noto, è stata la prima libertà a essere rivendicata e ottenuta, e la libertà di coscienza originariamente venne tutelata solo se, e nella misura in cui, risultava tutelata la prima; l’evoluzione subita dal concet- to di libertà religiosa, che abbiamo sinteticamente tratteggiato, ha fatto sì che oggi, in buona sostanza, essa non possa che essere considerata un aspetto, una manifestazione possibile, una specificazione della libertà di coscienza, finendo dunque per essere riassorbita nella stessa60.

non può quindi sorprendere come, nel dibattito dottrinale, le due libertà (rectius, l’unica libertà e una delle sue possibili manifestazioni) siano trattate congiuntamen- te61, tanto da far dire che prioritaria «in senso logico e cronologico, è la libertà della

coscienza, cioè la libertà di autodeterminazione individuale, tutelata dagli art. 2, 3, 19 e 21 della Costituzione»62.

Un buon esempio di questa evoluzione dottrinale è rappresentato dallo stesso Carlo Cardia che, dopo aver svolto un ruolo fondamentale negli anni in cui era incerta la col- locazione dell’ateismo e la stessa configurazione della libertà religiosa, in un contributo più recente ha avuto modo di mutare sensibilmente l’approccio e di affermare che

L’inserimento della libertà religiosa tra i diritti inviolabili della persona impone logicamente l’i-

59 Così S. Ferrari, Libertà religiosa individuale ed uguaglianza delle comunità religiose, cit., p. 3090. Per

g. dalla torre, Il fattore religioso nella Costituzione, cit., p. 59, «Proprio con i limiti della formulazione del

diritto in oggetto, di contro all’urgere di un’evoluzione sociale che viene ponendo sempre nuovi profili e nuove questioni in tema di libertà religiosa, si sono dovuti confrontare gli interpreti, così come i poteri dello Stato, in particolare il legislativo ed il giudiziario, giungendo progressivamente ad un ampliamento dei contenuti, con l’effetto di estendere la garanzia costituzionale a quelle che incisivamente sono state definite le “nuove dimen- sioni del diritto di libertà religiosa”».

60 Cfr. n. Colaianni, Tutela della personalità e diritti della coscienza, cit., p. 33, secondo il quale il rapporto

«tra le due libertà, di religione (come di pensiero) e di coscienza si rovescia: è la libertà di coscienza che quale “bene costituzionalmente rilevante”, “dev’essere protetta in misura proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essa riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla costituzione italiana”».

61 Cfr., per esempio, il titolo del recente e bel libro di m. C. nuSSBaum, Libertà di coscienza e religione,

Bologna, il mulino, 2009.

dentificazione del concetto di libertà religiosa con quello di libertà di coscienza: non essendo neppure

concepibile che la sfera della coscienza sia ‘inviolabile a metà’ (solo se religiosa) o secondo linee di demarcazione stabilite dallo Stato. inoltre, l’apparentamento costantemente individuato ed utilizzato

dalla Corte costituzionale tra gli art. 2, 3, 18, 19, 21 (per dire solo dei principali) ha reso in parte superflue le discussioni su quali siano le norme a tutela dell’ateismo (o dell’indifferentismo) rispetto a quelle che tutelano la fede religiosa63.

Un’ampia trattazione in materia di libertà di coscienza è presente nel fondamentale contributo di giovanni Di Cosimo, a cui si deve anche un’articolata analisi critica del concetto di norma promozionale nonché la predisposizione di un sistema di scrutinio particolarmente rigoroso per valutarne la compatibilità con tale libertà64.

in particolare, grazie allo sviluppo del pensiero giuridico propiziato dalla riflessione di tale autore sembra ormai indiscutibile che l’àmbito di tutela della libertà di coscienza

comprenda quello della libertà religiosa65 e che dallo strutturarsi del rapporto tra tali

libertà in questo senso non possono che derivare due conseguenze: a) «la disciplina dei fatti religiosi non dovrebbe differire dalla disciplina delle altre fattispecie collegate ai convincimenti interiori se non per gli aspetti funzionali alle peculiarità del fenomeno religioso»; b) «le convinzioni di coscienza religiosa e le altre convinzioni di coscienza

63 C. Cardia, Religione (libertà di), in Enc dir., aggiornamento ii, milano, giuffrè, 1998, p. 920 (corsivi

aggiunti). in questo scritto cominciano comunque già a manifestarsi quelle tendenze di pensiero che porteranno il Prof. Cardia a divenire oggi un sostenitore, per esempio, della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche e un negatore della possibilità per le associazioni ateistiche di addivenire all’Intesa con lo Stato. in particolare in questo scritto vengono considerate come ‘patologie’ gli sviluppi sociali che stanno portando a quei fenomeni chiamati ‘nuove religioni’ o, con fare sprezzante, ‘sette’ e si intravedono anche quei sospetti nei confronti della possibilità di integrazione dell’islam che si sono poi nell’ultimo decennio fatti sempre più espliciti nella sua pro- duzione. esiti questi diametralmente opposti a quella che era l’impostazione del fondamentale contributo degli anni ‘70 analizzato nel paragrafo precedente. Sia lecito, fatte queste dovute precisazioni, continuare a utilizzare le idee espresse in passato, anche se oggi probabilmente l’autore non le considererebbe più sue. Da segnala- re, in particolare, il totale abbandono della convincente dimostrazione dell’unità dialettica ateismo-religione: «Per il momento è opportuno segnalare che la piena ricomprensione dell’opzione ateistica (e delle altre opzioni in materia religiosa) nella libertà di coscienza non implica una artificiosa assimilazione tra ateismo e religione. Come il diritto non può dimidiare la coscienza quando questa matura e compie le sue scelte più intime, così l’or- dinamento giuridico non può trasfigurare il fenomeno ateistico in ciò che non è. Per la propria insopprimibile natura, l’ateismo, e con esso l’indifferentismo e l’agnosticismo, non compiono riti, e non si strutturano in con- fessioni ateistiche (o di altro genere), dal momento che ad essi manca quell’adesione primaria ad una dimensione trascendente che costituisce il presupposto della fenomenologia confessionale» (p. 921).

64 g. Di CoSimo, Coscienza e Costituzione: i limiti del diritto di fronte ai convincimenti interiori della per-

sona, milano, giuffrè, 2000. Sulle norme promozionali e sulle modalità dello scrutinio si vedano in particolar modo i capp. iV, V e Vi.

65 Ibidem, pp. 102, 103 e 104, secondo il quale «Libertà di coscienza e libertà religiosa sono concettualmen-

te distinte, per la indubitabile ragione che la coscienza dell’uomo non è monopolizzata dal fenomeno religioso … Questo significa che la libertà di coscienza, anche in forza della sua dignità di principio di livello costituzio- nale, assicura un’ampia tutela delle convinzioni di coscienza, siano queste di natura religiosa o di altra natura. La libertà di coscienza è perciò concetto più comprensivo del concetto di libertà religiosa». L’obiezione che si basa sulla menzione della religione dell’art. 19 Cost. non sarebbe pertinente, perché sposterebbe il fuoco del problema, prendendo «in considerazione i profili formali piuttosto che l’ambito materiale di tutela. e non pare dubbio che nel caso della libertà di coscienza l’ambito materiale di tutela sia oggettivamente più vasto».

hanno pari dignità, nel senso che non si giustificano eventuali diversità di disciplina fondate su un giudizio di maggiore ‘meritevolezza’ delle prime o delle altre»66.

Quello che non convince nella teorizzazione dell’autore, alla quale per il resto si aderisce senza riserve, è il fatto che, dopo aver specificato che il problema diviene allora l’esatta individuazione degli aspetti peculiari del fenomeno religioso e aver riconosciuto che la tradizionale concezione delle convinzioni di natura religiosa è stata messa in discussione in maniera irreversibile a seguito della comparsa dei ‘nuovi movimenti religiosi’, tanto da averne fatto venir meno il principale elemento distinti- vo, ossia il riferimento a una realtà trascendente, egli non si accontenti poi del criterio dell’autoqualificazione, poiché esso non permetterebbe all’ordinamento giuridico di reagire nei confronti di dichiarazioni di carattere strumentale sulla natura religiosa del gruppo67. ma questo è un problema che si può facilmente prevenire attraverso la

riconduzione al diritto comune di quasi tutti gli aspetti che nulla hanno a che vedere con le esigenze di coscienza, cioè tutti i privilegi che sono stati ingiustificatamente, e dunque incostituzionalmente, concessi nel Concordato e replicati nelle Intese, nonché in molte altre leggi, alle confessioni e alle organizzazioni qualificate da finalità reli- giose68. e il miglior ‘vaccino’ contro questa tendenza all’uso strumentale delle dichia-

razioni di coscienza è considerare tutti i fenomeni individuali e associativi parimenti meritevoli attraverso legislazioni generali che favoriscano il libero sviluppo della perso- nalità individuale: si pensi per esempio alla differenza corrente – a parere di chi scrive patentemente incostituzionale – tra il meccanismo dell’8 per mille e quello del 5 per mille. È evidente che se il primo fosse strutturato come il secondo, nessuno avrebbe interesse ad autoqualificarsi in termini religiosi; come è altrettanto evidente la disparità di trattamento fra fenomeni sociali conseguente alla comparazione di tali discipline69.

Dopo una così raffinata analisi dei ‘moti della coscienza’, sembra contraddittorio

66 Ibidem, p. 105. 67 Ibidem, p. 110.

68 e l’autore, per la verità, finisce col raggiungere gli stessi risultati nella sua accuratissima disamina con-

cettuale sulle norme promozionali riguardanti la religione che si conclude con la considerazione della presun- zione di incostituzionalità delle stesse in termini globali se riferite a favorire i gruppi invece che il libero svi- luppo della personalità dei singoli. in particolare, a chi dall’asserita specificità del fenomeno religioso vorrebbe trarre argomento per una disciplina differenziata dello stesso egli risponde che «preso atto della tendenza del diritto odierno alla specializzazione, si può controbattere che l’adozione del diritto speciale fa nascere più problemi di quanti ne risolva, soprattutto in riferimento al rispetto del principio di eguaglianza, motivo per cui anche le questioni di coscienza religiosa andrebbero di massima ricondotte al diritto comune» (p. 155).

69 Significativamente g. Di CoSimo, Coscienza e Costituzione, cit., p. 238, conclude la sua indagine specifi-

cando il significato profondo dell’affermazione della priorità della coscienza: «la promozione non può essere la conseguenza di un giudizio positivo in merito alla “bontà” delle convinzioni di coscienza: lo vieta il principio di laicità, che preclude allo Stato di sostenere attivamente una determinata visione della vita a scapito delle altre. e, dato il nesso esistente fra convincimenti interiori e visioni della vita, il principio di laicità impedisce a fortiori che si promuovano le convinzioni di coscienza sulla base della loro meritevolezza. in altre parole, per effetto del principio di laicità la promozione non può dipendere dalla corrispondenza delle convinzioni di coscienza ai valori apicali di una qualsiasi scala assiologia, che è poi la stessa ragione per cui lo Stato non può far propria una determinata visione della vita».

cercare di ‘imbrigliare’ la stessa per il tramite di un giudizio eterodiretto: il definire qualche cosa come ‘religione’ o ‘religiosa’ non può essere che una conseguenza dell’at- tribuzione di senso da parte del singolo individuo a un suo pensiero o a una sua attività. non è possibile, altrimenti detto, che il ‘sentire religioso’ possa essere valutato altro che dal soggetto di tale sentimento70. ed è anche per questo che sembra improprio

attribuire vantaggi, con conseguenti discriminazioni per coloro i quali tali vantaggi non conseguono, sulla base del giudizio di appartenenza o meno di un moto dell’animo alla categoria ‘religione’ operato dallo Stato.

Si trascura inoltre anche il fatto, determinante in termini giuridici, che l’intenzione originaria che sta dietro alla formulazione finale dell’art. 19 Cost., con l’espunzione del possibile sindacato sui principî, aveva come oggetto proprio la statuizione dell’incompe- tenza dello Stato nel valutare un fenomeno come religioso o meno. Dal che si potrebbe facilmente dedurre come l’unico criterio costituzionalmente legittimo per stabilire ciò che è o non è ‘religioso’ non possa che essere l’autoqualificazione, individuale e collettiva.

anche se in maniera più sfumata, lo stesso problema riemerge in un altro contributo fondamentale, cioè quello di nicola Colaianni, l’autore che con più convinzione si è battuto per l’affermazione del criterio dell’autoqualificazione come unico criterio pos- sibile e costituzionalmente legittimo in materia: dopo aver specificato come la descritta ricomposizione unitaria della coscienza, come libertà di formazione di ogni convinci- mento, implichi un rapporto di complementarietà dei beni giuridici costituzionalmente rilevanti, nel senso che essi si garantiscono e si rafforzano reciprocamente, egli conclu- de che se la libertà di coscienza è «principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione», quindi, non solo della libertà religiosa, con cui conserva un legame storico, ma anche della libertà di pensiero, in tutti gli «ambiti tematici con i quali un uomo può identificarsi nel suo comportamento» (Corte cost., s. n. 467/1991), «ne consegue, sul piano del nostro diritto costituzionale, la necessità di un’interpreta- zione integrata (almeno) degli artt. 19 e 21»71.

in altra opera poi, dopo aver convincentemente asserito che è religioso

ciò che individui e gruppi dichiarano di credere tale e, quindi, sono confessioni religiose quelle che come tali sotto il profilo ideale si autoqualificano e autolegittimano nella prassi sociale. non rileva, cioè, la convinzione, più o meno corrente all’esterno della confessione – nella società –, che si tratti di una religione, ma è necessario e sufficiente che gli stessi soci – sostanzialmente nello statuto – conside- rino il loro comune credo come tale e la loro associazione come confessione72,

70 in questo senso non può che condividersi l’affermazione di un autore il cui pensiero appare molto

distante da quanto qui sostenuto: cfr. S. mangiameli, La «laicità» dello Stato tra neutralizzazione del fattore reli-

gioso e «pluralismo confessionale e culturale», in Dir. soc., 1997, p. 30, secondo il quale «la valutazione del valore religioso, o meno, di un atto può essere compiuta solo dal punto di vista della professione di fede dell’individuo chiamato a prestarlo e non tenendo conto del processo di laicizzazione dell’ordinamento».

71 n. Colaianni, Tutela della personalità e diritti della coscienza, cit., pp. 30 e 31.

pone però dei limiti all’operatività dell’autoqualificazione che non sembrano coerenti con le premesse da cui muove, dal momento che finisce per sostenere come esso non faccia stato, invece, quasi fosse una dichiarazione potestativa, anche ad effetti ulteriori rispetto al godimento dell’uguale libertà, quali per esempio quelli previsti dalle leggi che ricollegano esenzioni tributarie o agevolazioni e misure di sostegno economico alle associazioni o confessioni religiose73.

mentre è evidente che l’accesso a tali privilegi finisce con l’incidere proprio sull’e- guale libertà dei gruppi sociali, dal momento che maggior disponibilità di denaro, accesso ai mezzi di comunicazione, maggiori tutele in generale, alterano la ‘competizio- ne culturale’ fra fenomeni.

non appare convincente nemmeno lo spostamento del sindacato dal ‘momento’ sostanziale a quello processuale: a meno di non intenderlo in senso restrittivo come verifica di conformità fra l’attività dichiarata nello statuto, autoqualificata come reli- giosa e sulla quale non si può controvertire, e attività in realtà espletata. altrimenti si ritornerebbe a quel controllo su cosa è religioso e ciò che non è religioso, attribuendo allo Stato un compito che, in regime di ‘vera’ libertà religiosa, lo stesso non può avere74.

e non appare coerente con le premesse poste in tema di autoqualificazione escludere che associazioni di soggetti che dichiarino «di seguire una teosofia o una ecosofia ovvero di essere atei o agnostici» possano accedere alla qualificazione di confessione religiosa75:

in questo senso lo stesso autore fornisce un argomento formidabile contro l’affermazio- ne fatta, quando riporta l’esempio della vicenda dell’Intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche, ricordando che le stesse non ritengono di essere una confessione religiosa, per la natura stessa dell’ebraismo, che escluderebbe la possibilità di una configurazione in tal senso dell’aggregato sociale rappresentato, ma che si sono autorappresentate come

tale al limitato fine di avere accesso all’Intesa76. Perché mai un’associazione di atei non

particolare l’autore pone l’accento sulla «irragionevolezza di un esito contrario a quello voluto dal Costituente, raggiunto attraverso una definizione elaborata per via interpretativa, che risulterebbe illegittima nella misura in cui circoscriva il fenomeno sociale a finalità religiosa ed escluda aggregati di nuova formazione o provenienza dalle garanzie insite nell’art. 8».

73 Ibidem, p. 372.

74 ma forse ciò è quel che l’autore vuol dire quando asserisce che «a differenza che sul piano sostanziale

del godimento dei diritti costituzionali, per il quale non opera alcun controllo formale di religiosità, su quello processuale l’amministrazione pubblica ha il potere di contestare l’autoqualificazione e di esaminare i reali “connotati operativi” della sedicente confessione. Su questo piano, cioè, l’autoqualificazione è una semplice presunzione di carattere relativo, che provoca solo lo spostamento dell’onere della prova sul modo d’agire in capo all’amministrazione pubblica. Questa ha il potere di agire e resistere in giudizio sul punto, con l’onere di provare l’inattendibilità dell’autoqualificazione alla luce di parametri esterni intesi in senso formale».

75 n. Colaianni, Confessioni religiose, cit., p. 368.

76 Ibidem, p. 371: «Dalla legge di approvazione di quest’intesa si ricava conseguentemente una norma che

dà rilievo all’autoreferenziazione o autoqualificazione confessionale della formazione sociale, precludendo allo Stato un sindacato al riguardo (che nella specie si sarebbe risolto in senso negativo vista l’ordinaria rappresenta- zione non confessionale che lo stesso ebraismo dà di sé)». anche S. Ferlito, Le religioni, il giurista e l’antropo-

logo, cit., p. 65, ricorda che «quando si aprirono le trattative per la stipulazione dell’intesa con gli ebrei, questi ultimi chiesero di essere considerati come minoranza linguistica ai sensi dell’art. 6 della Costituzione e solo

potrebbe anch’essa autorappresentarsi come confessione religiosa ai fini dell’ottenimen- to dell’Intesa? Basti peraltro ricordare il celebre motto di D’alembert: «L’incredulité est une espèce de foi pour la plupart des impies». Oppure prendere atto, come recenti studi hanno fatto, che «anche gli atei credono»77, e trarne le relative conseguenze in termini

di estensione dei diritti anche alle associazioni ateistiche.

Dopo questo lungo excursus, siamo giunti così alle più recenti prospettazioni in

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