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L’impossibilità e l’incostituzionalità di qualsiasi definizione giuridica di religione

la libertà religiosa nel sistema costituzionale

2. L’impossibilità e l’incostituzionalità di qualsiasi definizione giuridica di religione

in apertura di un suo celebre saggio, dal titolo molto significativo, Silvio Ferrari ricordava l’aneddoto degli abitanti di Harrisburg, i quali, nel 1977, stanchi di pagare le tasse, decisero che il modo migliore di evitare questa fastidiosa incombenza fosse quello di trasformarsi in una confessione religiosa. Si affiliarono quindi ad una Chiesa californiana ed ottennero di essere ordinati in blocco ministri di culto: dopo di che invocarono le esenzioni stabilite dalla legge degli Stati Uniti per questa categoria di cittadini e le ottennero. gli amministratori locali infatti, che nel frattempo si erano con- vertiti anch’essi alla nuova fede, dichiararono di non essere in grado di definire la nozio-

ne di confessione religiosa e, nel dubbio, applicarono le disposizioni più favorevoli10.

L’autore traeva da questa vicenda la constatazione che «esiste una effettiva difficoltà a definire giuridicamente i concetti di religione e di confessione religiosa», nonché la tentazione, anche in regimi separatisti come quello statunitense, «di sfruttare questa difficoltà per estendere il trattamento di favore previsto per ciò che è religioso anche a ciò che religioso non è»11. Dopo avere ricordato come molti autori, negli Stati Uniti,

sulla base del fatto che sia il criterio contenutistico che quello funzionalistico avevano subito un processo di progressiva astrazione che aveva notevolmente ridotto la loro

8 in questo senso si muoveva il magnifico tentativo di resistenza culturale con il quale Ruffini, nel 1924,

tentò di opporsi alla riconfessionalizzazione dell’ordinamento giuridico italiano che culminerà nei Patti latera- nensi: cfr. F. ruFFini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, cit., p. 74, secondo il quale «il problema

va quindi enunciato così: Tutela della libertà religiosa dei cittadini; e va impostato per modo che gli infiniti siste- mi teorici escogitati e i regimi pratici nei vari secoli e nei vari luoghi attuati per regolare i rapporti fra lo Stato e la Chiesa vengano considerati e vagliati e sfruttati solo subordinatamente a quell’intento, e diremo quasi in funzione di quella tutela» (secondo corsivo aggiunto).

9 L’idea di un favor religionis e di una conseguente possibilità di promozione dei fenomeni sussumibili

sotto questo concetto è respinta con nettezza anche da r. Bin, Libertà dalla religione, cit., p. 43, secondo il quale

«L’idea che esista un “bisogno” religioso cui lo Stato debba far fronte con azioni positive nasce da premesse inconciliabili con la Costituzione, urta proprio contro i paletti più solidi da essa impiantati. in primo luogo, è il principio di laicità e di pluralismo che dovrebbe impedire di ritenere apprezzabile il “bisogno” religioso. Chiara è la matrice confessionale dell’opinione contraria (che purtroppo affiora troppo spesso nelle motivazioni della Corte), incapace persino di concepire ciò che è fuori dalla religione (inscindibile dal culto) se non in termini di negazione-privazione (l’a-teismo, l’a-gnosticismo), anziché in termini di pari valore positivo».

10 S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa (come sopravvivere senza conoscerla), in V. parla-

to - g. B. Varnier (a cura di), Principio pattizio e realtà religiose minoritarie, cit., p. 19.

utilità qualificatoria, avessero concluso che una definizione giuridica di religione non era possibile12, concludeva anch’egli che ogni definizione

presuppone la capacità di identificare l’essenza del fenomeno analizzato, cioè uno o più caratteri che siano al tempo stesso sufficienti e necessari a qualificarlo ma, sotto questo profilo, tutti i tentativi com- piuti dalla dottrina giuridica (e non solo giuridica: si pensi alla storia ed alla sociologia della religione) hanno largamente dimostrato l’impossibilità di pervenire a questo risultato in relazione alla definizione di religione13.

Sorprendentemente, però, invece che trarre come conseguenza l’impossibilità di distinguere tale fenomeno e quindi di applicare allo stesso una disciplina speciale rispetto agli altri fenomeni sociali, oppure concludere che l’unico criterio utilizzabile potesse essere l’autoqualificazione14, spostava i termini del problema: dopo aver richia-

mato il «principio di incompetenza in materia religiosa che impedirebbe allo Stato di assumere una nozione di religione per la cui elaborazione non appare tecnicamente attrezzato», affermava che

l’incompetenza degli organi statali, se vale ad escludere una definizione per via legislativa di religione (che sarebbe comunque inopportuna), non elimina il potere di valutare se finalità ed attività qualificate come religiose da un gruppo di soggetti corrispondano a finalità e attività a cui l’ordinamento giuridico ha attribuito un differente nomen iuris, inquadrandole in un diverso schema giuridico15.

Soluzione che appare quanto mai ambigua: perché mai ciò che è impedito al legi- slatore dovrebbe essere consentito al potere giudiziario o, peggio ancora, al potere amministrativo in una materia che riguarda una libertà costituzionale inviolabile?

il contributo dell’autore, mirante a far emergere un ‘paradigma’ invece di una ‘defi- nizione’ (ma quale sarebbe la differenza?) di religione, pur avendo come obbiettivo il

12 Ibidem, p. 22. in nota 5 sono riportati gli autori in questione.

13 Ibidem, p. 30. nella più sensibile dottrina ecclesiasticistica il disagio ormai è palpabile: cfr. S. Ferlito,

Intervento, cit., p. 181, che così continua: «noi ecclesiasticisti ci muoviamo ancora con uno strumentario lingui- stico e concettuale nel quale tutti i riferimenti semantici sono angustamente plasmati dalle categorie eurocentri- che proprie della cultura giudaico-cristiana alla quale apparteniamo, categorie ovviamente inadeguate e inadat- te a far fronte alle esigenze di etnie e fedi diverse da quelle che ci sono familiari. Non solo non sappiamo definire il concetto di confessione religiosa, ma non sappiamo nemmeno cosa sia esattamente una religione ed abbiamo idee piuttosto confuse in merito al riferimento semantico di termini – che per noi dovrebbero essere basilari – come ‘ riti’, ‘culto’ e molti altri» (corsivo aggiunto). Cfr. anche id., Le religioni, il giurista e l’antropologo, cit., p. 56 e ss.

14 in merito al criterio dell’autoqualificazione l’autore asserisce che «contro questa tesi si può obiettare che

anche l’arte, richiamata nell’art. 33 della Costituzione, è fenomeno dello spirito e che da ciò non si è mai dedotta l’assoluta incapacità degli organi pubblici di identificare, per esempio ai fini dell’art. 529 c.p., che esclude la pu- nibilità dell’osceno in caso di opere artistiche, ciò che è e ciò che non è arte» (p. 26). ma il paragone non sembra calzante, visto che nel caso dell’arte si tratta di giudicare esteticamente un supporto materiale, mentre nel caso della religione si tratterebbe di valutare un fenomeno interiore di coscienza (che può sì estrinsecarsi in attività materiali, ma di cui solo il soggetto che le compie può misurarne l’intenzione ‘religiosa’), un ‘sentire personale’ come appartenente o meno a una categoria che solo la stessa coscienza soggettiva è in grado di qualificare o meno come religiosa.

superamento delle anguste e vecchie definizioni tutte basantesi sulle esperienze mono- teiste proprie della nostra tradizione culturale, non risolveva in realtà alcun problema16

e, anzi, con il moltiplicare i termini di riferimento, apriva per ogni lemma la stessa difficoltà interpretativa che si aveva riguardo al termine ‘religione’17.

Si poteva dunque facilmente replicare a questo tentativo che l’ormai raggiunta polisemia, o almeno ambivalenza, del termine ‘religioso’ privava di efficacia anche un paradigma, non astrattamente precostituito ma dedotto dagli indici normativi vigenti e, quindi, storico; era inoltre giocoforza notare che, con l’Intesa stipulata con l’Unione buddhista il nostro Paese non solo si era allineato alla universale considerazione del buddhismo come religione mondiale, ma aveva anche così implicitamente ammesso che «la fede in un essere supremo, come qualsiasi forma di teismo, non è connaturata all’idea di religione e non costituisce pertanto un criterio indefettibile di valutazione della religiosità di un’associazione»18.

acute osservazioni in argomento sono quelle proposte da Laura Olivieri, che appaiono, sotto il profilo dell’impossibilità giuridica di definire un fenomeno come religioso, decisive: l’autrice ricorda dapprima come mentre la persona umana, nella sua integralità, sia in grado di percepire la qualità distintiva della nozione di religione in mezzo agli altri aspetti e manifestazioni del suo essere, diversamente, il diritto, che è pure manifestazione umana, non sia tuttavia tale da involgere l’intero essere dell’uomo

16 in senso conforme v. B. randazzo, Diversi ed eguali. Le confessioni religiose davanti alla legge, cit., p.

25, secondo la quale «questa prospettiva non sembra spostare di molto il problema della ricerca di un minimo comune denominatore». non si condivide, peraltro, benché lo sforzo intrapreso sia assolutamente meritorio e gli esiti interpretativi assai raffinati, la proposta dell’autrice mirante a enucleare tante definizioni di religione a seconda dei diversi scopi perseguiti dalle singole disposizioni (p. 33): in particolare, nell’ottica funzionalista da ella sostenuta, «Considerato che allo Stato non interessa conoscere la o le vere religioni, ma soltanto dotarsi di strumenti capaci di risolvere i dubbi interpretativi di volta in volta suscitati dalle norme da applicare, basterà calibrare la nozione di confessione religiosa a seconda che si tratti di limitare l’esercizio della libertà di culto, ovvero di concedere finanziamenti, di garantire la tutela penale, di stipulare un’intesa, etc. Se il primo comma dell’art. 8, ad esempio comprendente già originariamente in un unico genus la Chiesa cattolica e tutte le altre confessioni, ben si presta ad una lettura ampia della nozione di religione in considerazione del libero esercizio del culto garantito in modo eguale ai gruppi religiosi, non è così, invece, per la nozione di confessione dei commi secondo e terzo dell’art. 8: di fronte alle richieste di riconoscimento o di intesa non può negarsi allo Stato un certo margine di apprezzamento» (p. 34). ma bisogna intendersi: un conto è la possibilità di valutare e l’oppor- tunità politica di addivenire a un’Intesa e le peculiarità che la confessione presenta e che comportano la necessità di una deroga al diritto comune (cosa che poi sembra essere il risultato finale a cui giunge l’autrice, che sembra patrocinare l’autoqualificazione, si v. p. 38), altro è definire cosa sia o meno religione.

17 Cfr. S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., p. 33. il paradigma proposto compren-

deva a) una orientazione della vita umana verso una realtà trascendente, b) capace di dare una organica risposta alle domande fondamentali relative all’esistenza dell’uomo e delle cose, c) atta a fornire un codice morale, d) ed a generare un coinvolgimento esistenziale del fedele che si manifesta (fra l’altro) nel culto (anche se indi- viduale e non necessariamente tradotto in forme rituali). ma è facile replicare che a questo punto il problema diviene, con un regressum ad infinitum: che cos’è una realtà trascendente? Quali sono le domande fondamentali? Che cos’è un codice morale? Che cos’è un coinvolgimento esistenziale? Che cos’è un culto? ma soprattutto: chi può definire tutto ciò se non il soggetto stesso e la sua coscienza?

di cui, appunto, non rappresenta che una modalità attinente in generale alla sfera fat- tuale dei rapporti sociali. Di conseguenza

le qualificazioni dei fatti, in cui il diritto si articola, sono di per se stesse incapaci di ricomprendere l’elemento religioso. esse sono unicamente in grado di cogliere nella estrinsecazione sociale del fattore religioso (compreso quello attinente l’esercizio del culto) un dato indifferenziato rispetto ad ogni altra manifestazione del pensiero (in cui assumono il ruolo di un contenuto qualsiasi), come rispetto ad altri comportamenti umani19.

ma anche ammesso che fosse possibile, ontologicamente diremmo, riuscire a defini- re giuridicamente la religione, ciò che più non convince nella ricostruzione di Ferrari, e di molti altri, è la contraddizione fra l’ammissione del fatto che «gli organi pubblici non hanno alcuna competenza per effettuare una valutazione – positiva o negativa – sui contenuti di una religione né, in ultima analisi, per dichiarare se questa sia o non sia una religione» e il consentire che gli stessi organi possano rilevare se la stessa

rientri nell’area attualmente perimetrata dal paradigma di religione ricavabile, al limitato fine dell’at- tribuzione della personalità giuridica, dall’ordinamento giuridico italiano oppure se la distanza da quest’ultimo sia superiore alla distanza da altre aree (quella delle convinzioni filosofiche o etiche o politiche per esempio) in cui è più corretto inquadrare il sistema di pensiero preso in esame20.

Delle due l’una: o questa competenza esiste, ma allora esiste sempre, anche per il legislatore, oppure non esiste mai. ma nel nostro ordinamento essa non può esistere per il semplice fatto che, nel momento stesso in cui si desse la possibilità a qualsiasi organo statale, anche ‘ai limiti fini di’, di dire ‘questa è religione, questa non è religione’, si sta- rebbe violando la libertà religiosa: nell’art. 19 Cost. c’è un pronome possessivo troppo poco evidenziato, propria, che sembra non ammettere altro che un giudizio proveniente dal titolare di tale libertà21. e, d’altronde, come è stato detto, il nostro ordinamento

assicura

la sostanziale e inconfutabile libertà interna del fenomeno religioso, di autodeterminarsi senza possibi- lità di ingerenze esterne … non solo per il principio di incompetenza dello Stato in materia fideistica, ma anche e soprattutto come attuazione concreta del principio pluralista22.

19 L. OliVieri, Nuove religioni, principio di autoreferenziazione e Corte costituzionale, cit., p. 203. 20 S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., p. 35.

21 Sembra convenire su questa posizione p. ConSorti, Diritto e religione, cit., p. 13 secondo cui «il criterio

di ripartizione fra cosa è in coscienza rilevante e cosa non lo è non può essere affidato ad altri diversi da noi stessi».

22 g. leziroli, Aspetti della libertà religiosa, cit., p. 116, in nota 12. Correttamente C. Cardia, Religione

(libertà di), cit., p. 935, in relazione all’emergere dei ‘nuovi movimenti religiosi’, considerati dall’autore una pa- tologia del sistema e guardati con estremo sospetto, fa notare come non vi sia alternativa tra autoqualificazione e violazione del principio di incompetenza statale in materia: «il problema teorico che queste ipotesi – reali o di scuola che siano – pongono è che esse mettono in crisi il criterio della autoreferenzialità e della autoattribuzione della qualifica di confessione religiosa. Se questo criterio deve considerarsi assoluto, allo Stato non resterà altra difesa nel discernere ciò che è confessione religiosa da ciò che non lo è. Se invece – come sarà inevitabile quando si presenterà nel concreto qualche caso ambiguo o incerto – le autorità competenti vaglieranno preliminarmente

Come evidenziato durante l’analisi dei lavori preparatori, quando venne tolta la menzione di un possibile sindacato sui principî di una confessione, la motivazione addotta fu proprio quella di escludere la possibilità di qualsiasi giudizio in materia, per evitare rischi giurisdizionalistici, abusi e disparità di trattamento da parte dei pubblici poteri. tutti coloro i quali continuano a inseguire, vanamente, criteri sempre più sfumati per discernere ciò che è religioso da ciò che non lo è, non si accorgono di perpetuare il modo di pensare precedente alla Costituzione proprio di uno Stato confessionale, cioè quello dei ‘culti ammessi’: finiscono nella sostanza per ammettere al godimento della libertà religiosa solo quegli agglomerati sociali che gli organi statali riconoscono come appartenenti alla sfera del religioso.

È ormai peraltro evidente come anche lo sforzo interpretativo della Corte costitu- zionale non abbia sortito alcun risultato utile, dal momento che essa sembra piuttosto aver dimostrato l’impossibilità di evincere una definizione oggettiva di religione; tutti i criteri proposti finiscono per subordinare all’arbitrio, ora dello Stato, ora del contesto sociale, la nozione di religione23:

il riferimento ai «precedenti riconoscimenti pubblici», se non è una petizione di principio (il ricono- scimento pubblico si basa sul riconoscimento pubblico), rischia comunque di ergere lo Stato a giudice delle questioni di fede, con buona pace della sua laicità (o forse mira a ‘chiudere’ il sistema dei culti ammessi a quelli già riconosciuti?); il riferimento ai «caratteri chiaramente espressi dallo statuto» o è un riconoscimento ipocrita dell’autoqualificazione, oppure ci riporta alla petizione di principio (è culto ciò che ha i caratteri del culto); il riferimento alla «comune considerazione», infine, produce i brividi in chiunque abbia un minimo di sensibilità per la tutela delle minoranze, lasciate in questo caso in balia delle opinioni che su di esse si è compiaciuta di formarsi la maggioranza24.

non si può dunque che concludere che non solo è impossibile per il diritto discer- nere fra le varie manifestazioni del pensiero e della coscienza ciò che è o non è religioso, trattandosi in buona sostanza di ‘adesioni interiori’ ai fenomeni sociali, considerabili dal soggetto, e solo da lui, come religiose o meno, ma che nel nostro sistema tale pos- sibilità sarebbe comunque incostituzionale dal momento che come è stato giustamente osservato, il problema di definire che cos’è religione (e poi quello di definire che cos’è confessione religiosa) «è indecidibile senza ferire i principi costituzionali»25.

il carattere di confessione di una determinata organizzazione, il principio della non sindacabilità del patrimo- nio ideologico dovrà considerarsi superato». ma in tal caso, viene da aggiungere, l’ordinamento costituzionale italiano avrà rinnegato la libertà religiosa.

23 Cfr. L. OliVieri, Nuove religioni, principio di autoreferenziazione e Corte costituzionale, cit., p. 202, che

così continua: «il catalogo appare altresì sufficientemente esaustivo da consentire anche di affermare che la relazione logica, instaurata tra l’una e l’altra delle suindicate categorie tipologiche di criteri, è una relazione di contrapposizione alternativa, ovvero di contraddittorietà, di modo che lecito è predicarne: tertium non datur».

24 r. Bin, Libertà dalla religione, cit., p. 41.

25 Ibidem, p. 41, che, individuata con la consueta lucidità l’irrisolvibilità teorica del nodo concettuale,

così continua: «Problemi pratici non sono sorti in passato per quella affinità che lega i culti tradizionalmente radicati nel nostro paese: ma questo è un mero accidente, e non ci si può immaginare cosa accadrà quando a voler accedere ai trattamenti di favore saranno “culti” del tutto estranei alle coordinate cui siamo abituati (il

Se così è, di fronte a un testo costituzionale che contempla i significanti religione e confessione religiosa, a meno di considerare inoperanti tali articoli dal momento che ciò che non può essere qualificato non può neppure essere normativo, l’unico criterio capace di non violare la libertà garantita dall’art. 19 è l’autoqualificazione. Che ciò possa poi portare ad abusi come nel caso di Harrisburg, richiamato in apertura del paragrafo, è problema secondario e facilmente risolvibile con il ritorno al diritto comu- ne per tutti quegli aspetti di disciplina che non sembrano aver niente a che fare con le asserite peculiarità, dal punto di vista sociologico e storico, del fenomeno religioso26.

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