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La libertà collettiva come riflesso della libertà individuale

nella giurisprudenza costituzionale

1. La libertà collettiva come riflesso della libertà individuale

Le pronunce più risalenti riguardanti quest’àmbito giurisprudenziale si collocano nei primi anni di vita della Consulta e sono sorprendenti per la loro carica innovativa se confrontati con le coeve decisioni in materia di tutela penale del sentimento reli- gioso e in materia di giuramento nel processo esaminate in precedenza1: nel 1957, con

la sentenza n. 45, si dichiarò l’illegittimità parziale dell’art. 25 del t.U. delle leggi di pubblica sicurezza. il caso da cui originò la questione di incostituzionalità riguardava un pastore evangelico che era stato condannato dal Pretore di Locri per aver promos- so e diretto una cerimonia di pratiche religiose fuori dei luoghi destinati al culto senza averne dato il prescritto avviso all’autorità. Fu assolto in appello dal tribunale e, nel giudizio di cassazione, la Suprema corte sollevò la questione in relazione all’art. 17 C.2.

L’avvocatura dello Stato presentò una memoria nella quale sostenne che il contra- sto non esisteva, dal momento che l’art. 17, norma di carattere generale, non avrebbe inciso sull’art. 25 del t.U., che riguardava solo le funzioni religiose fuori dei luoghi destinati al culto3. inoltre, non poteva sussistere nessun contrasto né con l’art. 8,

dal momento che «il diverso trattamento che la stessa Costituzione fa alla religione cattolica e a quelle acattoliche deriverebbe dal carattere primario dell’ordinamento acquisito dalla prima per effetto dei patti lateranensi e dal carattere derivato degli altri ordinamenti delle altre religioni», né con l’art. 19, dal momento che lo stesso articolo

1 Per p. FloriS, L’autonomia confessionale nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., p. 171, le

decisioni ricomprese in questo ‘filone’ giurisprudenziale possono essere apprezzate per due ragioni: «Per la sensibilità presto dimostrata dalla Corte verso le novità costituzionali rispetto alla legislazione preesistente. Per l’enucleazione dei contenuti essenziali dell’autonomia confessionale secondo schemi unitari, cioè riferibili a tutte le confessioni religiose».

2 S. n. 45/1957, in Giur. cost., 1957, p. 579 e ss., con nota redazionale. V. il Ritenuto in fatto.

3 Ritenuto in fatto, p. 582: «La norma dell’art. 17 della Costituzione, riferendosi alle riunioni di qual-

siasi tipo, è di carattere generale e trova il suo riscontro nell’art. 18 della legge di p.s., laddove le riunioni per l’esercizio del culto costituiscono una categoria speciale, soggetta “alla particolare disciplina dettata dal R.D. 28 febbraio 1930, n. 289, e 25 della legge di p.s.”».

«sancisce il limite per il quale i riti non devono essere contrari al buon costume» e che l’art. 25 del t.U. «dovrebbe intendersi pertanto preordinato ad accertare se nei singoli casi le funzioni e le pratiche religiose che si intendono compiere fuori dei luoghi a ciò destinati prevedono o meno riti contrari al buon costume»4.

La difesa del soggetto sottoposto a procedimento penale faceva invece notare che l’art. 8, al primo comma, prescindeva «da ogni distinzione tra confessioni che abbiano o non abbiano una organizzazione giuridica espressa da uno statuto, tra confessioni che abbiano o non abbiano stretto intese con lo Stato, e si riferisce a tutte le confes- sioni religiose, inclusa la cattolica»; inoltre sosteneva l’erroneità di quanto affermato dall’avvocatura in merito alle limitazioni delle libertà costituzionali (alle quali, secon- do l’opinione contestata, avrebbero dovuto corrispondere sempre controlli preventivi di polizia)5.

La Corte applicò rigidamente il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, e inquadrò la questione con esclusivo riferimento all’art. 176; respinse

poi l’eccezione dell’avvocatura basata sulla distinzione fra norma generale e norma speciale con questa netta affermazione:

Questa tesi non può essere accolta. L’art. 17 della Costituzione contiene una netta riaffermazione della libertà di riunione; e la norma si ispira a così elevate e fondamentali esigenze della vita sociale da assumere necessariamente una portata ed efficacia generalissima, tali da non consentire la possibilità

di regimi speciali7.

il giudice delle leggi continuò poi facendo notare che

Circa le riunioni a carattere religioso, si deve rilevare che dagli artt. 8, primo comma, e 19 della

Costituzione è sancita la piena libertà nell’esercizio del culto per tutte le confessioni religiose; ma quando l’esercizio del culto ha luogo in forma associata, tali norme devono ritenersi con l’art. 17 in un rapporto evidente di coordinazione, nel senso che le riunioni a carattere religioso non si sottraggono alla disciplina generale di tutte le riunioni, per quanto riguarda e la libertà delle riunioni stesse e i limiti cui essa, nel

superiore interesse della convivenza sociale, è sottoposta8.

Per questi motivi, dopo aver seccamente escluso che ad ogni limitazione posta ad una libertà costituzionale dovesse implicitamente corrispondere il potere di un con- trollo preventivo dell’autorità di pubblica sicurezza9, dichiarò incostituzionale l’art. 25

4 Ibidem, p. 583. 5 Ibidem, pp. 583-584.

6 Considerato in diritto, p. 584: «Oggetto proprio del giudizio è pertanto il rapporto fra l’art. 25 del t.U.

delle leggi di p.s. e l’art. 17 della Costituzione, e più precisamente lo stabilire se, avendo l’art. 17 limitato l’ob- bligo del preavviso alle riunioni in luogo pubblico, esplicitamente escludendolo, col secondo comma, per ogni altra specie di riunione, e quindi anche per quelle aperte al pubblico, l’art. 25 … possa sopravvivere nella parte che implica l’obbligo del preavviso per le funzioni, cerimonie o pratiche religiose anche in luogo non pubblico».

7 Ibidem, p. 585.

8 Ibidem, p. 585 (corsivo aggiunto).

9 Ibidem, pp. 585 e 586: «il trasgredire alla limitazione sancita dall’art. 19 potrà costituire un illecito giuri-

del t.U. nella parte in cui implica l’obbligo di preavviso per le funzioni, cerimonie o pratiche religiose in luoghi aperti al pubblico.

Una decisione, come si vede, importantissima e radicale, che sgombra il campo da molti equivoci presenti in dottrina e giurisprudenza: in primo luogo sottolinea come le disposizioni affermative delle libertà sancite in Costituzione non possano tollerare norme speciali derogatorie: una riunione è sempre tale, senza che possa assumere importanza il carattere che essa assume (culturale, politico, religioso, ecc.), e dunque non può che sottostare a una medesima regola; in secondo luogo sancisce con estrema nettezza l’eguaglianza nel diritto di libertà religiosa10, mettendo pure in luce il legame

inscindibile (o meglio, l’assenza di possibili distinzioni giuridiche) tra il fenomeno associativo religioso e tutti gli altri fenomeni che possono manifestarsi in relazione alle libertà di associazione e di riunione, idea che potrebbe essere foriera di sviluppi giurisprudenziali futuri molto innovativi; infine, è di capitale importanza per il sistema delle garanzie costituzionali l’affermazione riguardante l’inesistenza di un generale potere di controllo preventivo dell’autorità di pubblica sicurezza inerente ai limiti previsti alle libertà costituzionali.

L’anno seguente, con la s. n. 59 del 1958, la Corte esaminò un caso simile: in un giudizio penale ex art. 650 c.p., originato dal fatto che un soggetto aveva continuato a esercitare l’attività del culto pentecostale e a tenere aperto l’oratorio di detto culto senza avere ottenuto l’approvazione e l’autorizzazione governativa prevista dalla legge n. 1159/1929 e dal R.D. n. 289/1930, venne sollevata questione di legittimità costitu- zionale di alcune disposizioni di dette fonti in relazione agli artt. 8, 19 e 2011.

L’avvocatura chiese di dichiarare inammissibile la questione perché era l’art. 650 c.p. a essere applicato nel caso di specie e non le altre disposizioni incriminate; nel merito sostenne che

se è vero da una parte che la Costituzione garantisce anche alle confessioni religiose acattoliche il li- bero esercizio del culto e la possibilità di aprire templi ed oratori, non è men vero che tale facoltà non può essere lasciata completamente priva di disciplina, e deve al contrario essere regolata per legge, sulla base di intese fra lo Stato e le rappresentanze delle predette confessioni, in base all’ultimo com- ma dell’art. 8 della Costituzione. il quale art. 8 … col rinviare a tale disciplina legislativa, assumereb-

ipotesi, l’attività di prevenzione della polizia, se ed in quanto importi una restrizione della sfera giuridica del cittadino in ordine ai suoi possibili comportamenti, potrà esercitarsi soltanto nei casi e nei modi espressamente indicati dalla legge».

10 Secondo a. m. punzi niColò, La libertà religiosa individuale e collettiva nelle sentenze della Corte co-

stituzionale, cit., p. 309, «La sentenza appare particolarmente significativa, per l’approfondita disamina degli interessi in gioco e per la ferma lettura delle disposizioni costituzionali come immediatamente precettive, e quindi tali da far ritenere incostituzionali le norme non solo del t.U. delle leggi di Pubblica sicurezza del 1931, ma – in prospettiva – tutto il trattamento dei cittadini appartenenti a confessioni di minoranza». Per n. Co- laianni, Eguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza, cit., p. 71, la Corte in questa decisione utilizzò «con

padronanza il combinato disposto degli “artt. 8, primo comma, e 19 della Costituzione”».

11 S. n. 59/1958, in Giur. cost., 1958, p. 885 e ss., con allegata la memoria dei difensori della parte (fra i quali

be un carattere non precettivo, e lascerebbe pienamente valide frattanto le impugnate disposizioni, senza di che si verificherebbe una grave carenza legislativa12.

La difesa dell’imputato sostenne invece che la questione avrebbe dovuto essere impostata sulla base dell’art. 17 ed essere risolta nella medesima maniera rispetto a quella oggetto della precedente sentenza13; richiamò inoltre l’art. 8 per sostenere

la violazione dell’uguaglianza fra le confessioni: «Se al culto cattolico non occorrono

autorizzazioni per aprire chiese o cappelle o per tenere in esse funzioni religiose … l’art. 8 importa che ordini di tal genere non possano neppure venire impartiti per la chiusura di templi od oratori acattolici, o per impedire che si tengano in essi le relative funzioni»,

aggiungendo che «si deve sempre nettamente escludere che sul terreno della libertà reli-

giosa possa aversi una differenza fra una confessione che abbia stipulato “intese” ed una che non ne abbia stipulate»14.

La Corte dichiarò per prima cosa non fondata l’eccezione dell’avvocatura riguar- dante l’oggetto del giudizio e poi decise operando una distinzione fra l’organizzazione religiosa nei rapporti con lo Stato, legittimamente sottoposta a necessari limiti per far sì, attraverso le autorizzazioni e i riconoscimenti, che gli atti compiuti abbiano effetti

civili, e il libero esercizio del culto, rispetto al quale tutti i culti sono parificati con

l’unico limite del buon costume15. in particolare precisò che con

l’art. 19 il legislatore costituente riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, col solo e ben comprensibile limite che il culto non si estrinsechi in riti contrari al buon costu-

12 Ritenuto in fatto, pp. 888 e 890. Per l’avvocatura, «Le disposizioni della legge del 1929 e del R.D. del

1930 non sarebbero per nulla in contrasto col principio della libertà religiosa, né l’approvazione governativa della nomina di un ministro di culto acattolico o il riconoscimento dell’esercizio della sua attività avrebbe interferenza alcuna in ordine alla libertà di professare la propria fede religiosa; ché anzi l’approvazione della nomina dei ministri del culto e l’autorizzazione all’apertura dei templi e oratori apre la via al riconoscimento di facoltà e diritti a favore delle confessioni acattoliche, quali l’esercizio delle funzioni delegate di ufficiale dello stato civile per la celebrazione di matrimoni, la facoltà di ricevere testamenti, la facoltà di richiedere la esenzione dal servizio militare, e via dicendo».

13 Ibidem, p. 891.

14 Ibidem, pp. 893 e 894 (corsivi aggiunti).

15 Considerato in diritto, p. 897 e 898: «nel merito la Corte ritiene che il fondamento della decisione sia

tutto nello stabilire con chiarezza la distinzione, da cui si disnodano poi tutte le conseguenze, fra la libertà di esercizio dei culti acattolici come pura manifestazione di fede religiosa, e la organizzazione delle varie con- fessioni nei loro rapporti con lo Stato. Questa distinzione, mentre risulta evidente dal punto di vista logico, trova nettamente fissato il suo positivo fondamento giuridico negli artt. 8 e 19 della Costituzione. La diversità di contenuto e significato di tali norme, corrispondente alla predetta distinzione, riceve la sua conferma, oltre tutto, anche dalla diversa collocazione di esse: una inserita nei “Principi fondamentali”, l’altra nel titolo dei rapporti civili e, più specificamente, nella parte relativa ai diritti di libertà … se nell’art. 19 è una così netta e ampia dichiarazione della libertà di esercizio del culto in quanto tale, il legislatore costituente non ha mancato di considerare le confessioni religiose anche dal punto di vista, che è del tutto diverso, della loro organizzazione secondo propri statuti e della disciplina dei loro rapporti giuridici con lo Stato: il che ha fatto nell’art. 8 … Ma la istituzione di tali rapporti, essendo diretta ad assicurare effetti civili agli atti dei ministri del culto, oltre che agevolazioni di vario genere, riveste, per ciò stesso, carattere di facoltà e non di obbligo» (corsivo aggiunto).

me. La formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più ampia, nel senso di com- prendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l’apertura di templi ed oratori e la nomina dei relativi ministri16; aggiungendo che a

tal proposito non si può escludere che si abbia il caso di una confessione religiosa che tali rapporti con lo Stato non intenda promuovere, rinunziando a tutto ciò che a suo favore ne conseguirebbe, e limitandosi al libero esercizio del culto quale è garantito dalla Costituzione17.

Chiarì inoltre che le disposizioni costituzionali erano precettive e non programma- tiche18, che il concetto di ordine pubblico per giustificare limiti preventivi all’esercizio

delle libertà non era invocabile19, e che il potere di dichiarare l’illegittimità costituzio-

nale non poteva certo trovare un limite nella lacuna normativa che con l’esercizio dello stesso si sarebbe creata nell’ordinamento20.

Dichiarò quindi l’illegittimità costituzionale «dell’art. 1 del r.d 289/1930 in quanto richiede l’autorizzazione governativa per la apertura di tempii ed oratori, oltre che per gli effetti civili, anche per l’esercizio del culto» e «dell’art. 2 dello stesso» per contrasto con gli artt. 8 e 1921.

Un’altra decisione capitale, dunque, anche in ragione delle problematiche esami- nate22: la Corte rimarca la precettività delle disposizioni costituzionali in materia di

16 Ibidem, p. 897. 17 Ibidem, p. 898.

18 Ibidem, p. 900: «Viene meno poi l’argomento della asserita carenza legislativa, che seguirebbe alla di-

chiarazione di illegittimità costituzionale delle impugnate norme. infatti da un lato il libero esercizio del culto trova, come già si è detto, riconoscimento e limite nella Costituzione, in particolare nell’art. 19, con precetti contenenti una ben chiara e concreta disciplina, dall’altro i rapporti delle confessioni acattoliche con lo Stato, in difetto di altre norme da emanarsi a seguito di intese, continuano ad essere regolati dalle norme vigenti, nella parte che rimane in vita, in quanto non importa lesione della libertà di culto costituzionalmente garantita».

19 Ibidem, p. 901: «infondate si rivelano anche le considerazioni relative all’ordine pubblico … Senza in-

dugiare nella confutazione dei diversi e non univoci argomenti svolti nella memoria, sarà sufficiente ricordare la sentenza n. 45 del 1957 di questa Corte … nel punto in cui rileva doversi ritenere insussistente nel nostro ordinamento giuridico la regola che ad ogni libertà costituzionale possa corrispondere un potere di controllo preventivo da parte dell’autorità di pubblica sicurezza» (corsivo aggiunto).

20 Ibidem, p. 900: «e ciò senza considerare che il potere di questa Corte di dichiarare la illegittimità co-

stituzionale delle leggi non può trovare ostacolo nella carenza legislativa che, in ordine a dati rapporti, possa derivarne; mentre spetta alla saggezza del legislatore, sensibile all’impulso che naturalmente proviene dalle sentenze di questa Corte, di eliminarla nel modo più sollecito ed opportuno».

21 Dispositivo, p. 903.

22 a. m. punzi niColò, La libertà religiosa individuale e collettiva nelle sentenze della Corte costituzionale,

cit., pp. 310 e 311, rimarca l’importanza di questa decisione sottolineando come «Per la prima volta una legge connessa, sia pure in modo collaterale, alla disciplina concordataria derivata dai Patti Lateranensi, viene valu- tata alla luce dei princìpi costituzionali e in base a questi ultimi, viene, almeno parzialmente, inficiata … Viene invece fatta salva e ritenuta vigente la legge del 1929 sui culti acattolici nel suo complesso, perché il suo àmbito è quello dell’organizzazione delle confessioni, secondo i propri statuti, regolata dall’art. 8 cost. in mancanza, pertanto, della normativa bilaterale dallo stesso articolo prevista, (e che tarderà ancora quasi trent’anni) la legge generale sui culti non appare contrastare col dettato costituzionale, se non per l’aspetto, già evidenziato, delle li-

libertà religiosa, comincia la faticosa opera di ‘ripulitura’ della legislazione fascista e pone una pietra miliare della sua giurisprudenza, stabilendo l’irrilevanza dell’aver sti-

pulato l’intesa con lo Stato ai fini della piena eguaglianza fra le confessioni nell’esercizio della libertà religiosa, avendo l’intesa la sola funzione di fornire di effetti civili gli atti

dei ministri di culto o di predisporre deroghe al diritto comune (di ‘agevolazioni’ parla la decisione) al solo fine di facilitare l’esercizio del culto stesso.

molto significativa appare anche la distinzione fra aspetti organizzativi della libertà di religione e libero esercizio del culto23, che potrebbe essere utilizzata, ai fini di quan-

to si è sostenuto nella Parte i di questo lavoro, per ridurre notevolmente l’eventuale portata derogatoria delle norme concordatarie e di quelle originanti dalle Intese, con- finandole in un àmbito di competenza particolarmente ristretto.

Questi due primi precedenti rimasero ‘dormienti’ sino al 1993, quando con la sen- tenza n. 195 venne affrontato il problema della concessione di contributi per l’edilizia di culto: la Congregazione cristiana dei testimoni di geova aveva chiesto, sulla base di una legge regionale abruzzese, di accedere a contributi per poter realizzare un edificio di culto. La richiesta era stata respinta dal sindaco di L’aquila che aveva motivato il rifiuto sulla base del fatto che mancava l’intesa fra la confessione e lo Stato24.

il t.a.R., giudice presso cui la Congregazione aveva fatto ricorso, sollevò la que- stione in riferimento agli artt. 2, 3, 8, comma 1, 19, 20, 117 e 120, comma 3, sostenen- do che il prevedere anche il requisito dell’Intesa per consentire l’accesso ai contributi introducesse una ingiustificata discriminazione tra confessioni religiose, suscettibile di incidere sulla libertà di culto25.

mitazioni e condizioni apposte all’esercizio del culto religioso, di per sé garantito dall’amplissima dichiarazione dell’art. 19». Critico invece appare n. Colaianni, Eguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza, cit., p. 62,

che vede in questa decisione una ‘fuga’ della Corte davanti al Concordato e all’art. 8, comma 1.

23 Per p. FloriS, L’autonomia confessionale nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., p. 172,

«la sentenza 59 del 1958 pose una netta distinzione tra libertà di culto e organizzazione delle confessioni. essa volle così chiarire che il primo capoverso dell’art. 8 Cost. riguardava la confessioni religiose non “dal punto di vista” della libertà di culto, ma da quello, “del tutto diverso, della loro organizzazione”. Pertanto – dissero i giudici – il limite previsto in quel capoverso non poteva essere invocato per legittimare controlli statali sulla struttura e sul modo di operare delle confessioni rispetto alle manifestazioni del culto. in altri termini, l’eser- cizio del culto “in quanto tale” atteneva all’area della libertà religiosa riconosciuta “a tutti”, tanto ai singoli quanto alle confessioni, quale che fosse il tipo di organizzazione di queste ultime, quale che fosse anche il grado di istituzionalizzazione dei loro rapporti con lo Stato … La Corte riusciva così a fissare due punti fermi in tema di autonomia confessionale. il primo relativo alla configurazione di tale autonomia come aspetto o contenuto della libertà religiosa collettiva. il secondo relativo alle garanzie di “uguale autonomia” (se così può dirsi) delle confessioni religiose rispetto all’esercizio delle libertà costituzionali».

24 S. n. 195/1993, in Giur. cost., 1993, p. 1324 e ss., Punto 1 del Ritenuto in fatto, p. 1327. L’ampiezza delle ci-

tazioni in nota riguardanti la motivazione di queste sentenze si giustifica con l’importanza delle argomentazioni sviluppate, che rendono queste decisioni assolutamente centrali nella trama della giurisprudenza costituzionale nonché foriere di possibili sviluppi futuri radicali e profondi, anche se, per il momento, il legislatore sembra aver ignorato quasi totalmente i principî in esse sviluppati, anzi, sembra essersi mosso in direzione diametralmente opposta rispetto agli stessi.

L’avvocatura dello Stato sostenne invece che il differente trattamento non costi- tuisse un’illegittima discriminazione, ma che avesse ragionevole fondamento nella non omogeneità delle situazioni che si volevano parificare26.

La difesa della Congregazione faceva invece notare che

a tenore del principio di eguale libertà religiosa sancito nell’art. 8 … le confessioni religiose devono

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