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L’autonomia e l’appartenenza confessionale

nella giurisprudenza costituzionale

2. L’autonomia e l’appartenenza confessionale

tre decisioni riguardanti il regime pubblicistico cui erano sottoposte le Comunità ebraiche diedero modo alla Corte di prendere posizione sui concetti di autonomia e appartenenza confessionale: con la s. n. 239/1984 venne risolta la questione di inco- stituzionalità avente ad oggetto l’art. 4 del R.D. 30 ottobre 1930 n. 1371, che stabiliva l’appartenenza di diritto alla Comunità di tutti gli israeliti che hanno residenza nel territorio della stessa48, per contrasto con gli artt. 2, 3, 18, 23, 24, 53 e 102. il caso

riguardava l’opposizione da parte di un membro della Comunità, attraverso un proce- dimento ex art. 700 c.p.c., a un’intimazione di pagamento notificatagli per riscuotere il contributo obbligatorio.

44 Ibidem, p. 2620.

45 Punto 3 del Considerato in diritto, p. 2620.

46 nota g. guzzetta, Non è l’“eguale libertà” a legittimare l’accesso ai contributi regionali delle confessioni

senza intesa, cit., p. 2626, «È, bensì, vero che il fenomeno religioso, nella stragrande maggioranza dei casi, presenta una spiccata dimensione collettiva e comunitaria. tuttavia, come gli altri fenomeni associativi, gode di una tutela costituzionale anche e soprattutto in ragione della sua strumentalità rispetto all’appagamento degli interessi religiosi dei singoli. Senza contare che le eventuali discriminazioni a carico delle confessioni religiose ridondano immediatamente in una discriminazione – diretta o indiretta – nei confronti degli aderenti».

47 in senso conforme cfr. p. FloriS, L’autonomia confessionale nella giurisprudenza della Corte costituzio-

nale, cit., p. 172, secondo cui con le sentenze n. 195/1993 e n. 346/2002 si dà «risalto anche alla relazione stru- mentale tra libertà individuali e collettive tratteggiata all’art. 2 Cost.», considerando le confessioni «come entità preordinate “alla soddisfazione dei bisogni religiosi dei cittadini”»; e nella loro garanzia di uguale libertà si ri- conosce «“la proiezione necessaria sul piano comunitario” dell’uguaglianza “dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto”».

48 S. n. 239/1984, in Giur. cost., 1984, p. 1727 e ss. in realtà, la questione sollevata dal pretore di Roma

ai fini che interessano questa ricerca sono rilevanti le motivazioni portate dal giudice a quo rispetto alla violazione degli artt. 2, 3 e 18: in relazione all’art. 3 si fece notare come la disciplina «sia sul terreno dello status personale, sia, e conseguen- temente, sul piano della situazione patrimoniale», si fondasse «esclusivamente sulla razza o fede religiosa del cittadino», senza che avesse rilievo il fatto che l’apparte- nente potesse, in base all’art. 5 dello stesso regio decreto, recedere, dal momento che ciò avrebbe comportato «sostanzialmente una pubblica professione di fede»; in relazione agli artt. 2 e 18, invece, si rilevava il contrasto con la libertà di asso- ciazione sotto il profilo negativo di una «sorta di coattiva partecipazione ad una comunità a carattere associativo»49.

molto importante richiamare la difesa della Comunità ebraica, perché, dal respin- gimento delle argomentazioni proposte, è possibile dedurre, a contrario, interessanti prospettive interpretative: essa sostenne l’assenza di profili di incostituzionalità asse- rendo che tutte le volte in cui la legge disciplinava «le confessioni e le libertà religio- se», essa presupponeva, «come si riscontra anche negli artt. 7, 8, 19 e 20 Cost.», che «chiunque sia fedele di una confessione religiosa appartenga di diritto alla stessa»; non vi poteva essere alcuna violazione dell’art. 3, perché la perdita per il recedente del «diritto a prestazioni di atti rituali ed alla sepoltura nei cimiteri israelitici» rappresen- tava «una garanzia di libertà (conforme agli artt. 8 e 19 Cost.) a favore delle Comunità, le quali non possono essere costrette da alcun potere dello Stato a prestare atti rituali o sepoltura a coloro che se ne siano allontanati»; infine, si sosteneva che le Comunità israelitiche non fossero associazioni, «ma istituzioni, espressione tradizionale della confessione ebraica in italia, che non nascono da un contratto tra i fedeli, ma dal modo di essere dell’ebraismo nel nostro Paese»50.

il difensore del cittadino ‘coattivamente associato’ fece notare che ci si trovava dinanzi a una vera e propria imposizione tributaria, diretta e personale, inesistente per la generalità dei cittadini, alla quale ci si poteva sottrarre soltanto attraverso l’abiura con la conseguente perdita di tutti i diritti religiosi; e rimarcò come nessun cittadino, sulla base delle libertà costituzionali garantite, potesse essere costretto a un tale atto. in più, si sostenne, la disciplina in questione, prevedendo «l’aggregazione automatica» dei residenti nel territorio di una comunità, era «in palese contrasto con il principio dell’art. 19 Cost., secondo il quale tutti hanno diritto di professare la propria fede religiosa, in forma associata, oltre che individuale, ma liberamente». Concluse infine sottolineando come anche l’art. 8 fosse violato, dal momento che lo stesso garantiva il potere di autoregolamentazione delle confessioni, mentre in questo caso le stesse erano strutturate sulla base di una normativa imperativa statale51.

49 Ritenuto in fatto, p. 1733.

50 Ibidem, pp. 1735 e 1736. Continua la difesa della Comunità: «L’art. 4 del r.d. del 1930, in definitiva, con-

formemente ai princìpi sanciti, per tutti i culti religiosi, dall’art. 8, comma 2, Cost., non fa che riprodurre una norma statutaria ebraica».

La Corte, dopo aver respinto le varie eccezioni di rito, richiamando il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato limitò il thema decidendum all’oggetto del giudizio così come definito nell’ordinanza di rimessione e in rela- zione ai soli parametri richiamati nella stessa; lo scrutinio ebbe ad oggetto l’art. 4 del regio decreto, che risultava ‘assorbente’ rispetto a tutte le altre questioni, di cui si dichiarò l’incostituzionalità sulla base del contrasto con l’art. 3, dal momento che nella disciplina impugnata assumevano «essenziale rilievo appunto le caratte- ristiche religiose ed etniche, che confluiscono nella qualificazione di ‘israelita’». Si concretava, così,

una disparità di trattamento tra i cittadini, che tale qualità, d’ordine etnico-religioso, rivestano, e che, a cagione di essa, sono automaticamente ascritti alla Comunità israelitica, divenendo così obbli- gatoriamente destinatari degli effetti che da tale appartenenza discendono, anche nell’ordinamento statuale, e tutti gli altri cittadini, cui la norma stessa non si applica52.

Fu inoltre dichiarata anche l’incostituzionalità in ragione della violazione della libertà ‘negativa’ di associazione, dal momento che l’appartenenza confessionale non poteva caratterizzarsi nel senso dell’obbligatorietà sganciata da un atto di volontà soggettiva53. infine, appare di fondamentale importanza pure il passaggio in cui si sot-

tolineò che tale libertà di aderire o meno a una confessione non potesse che affondare le sue radici in quella «libertà di coscienza, riferita alla professione sia di fede religiosa sia di opinione in materia religiosa» (sentenza n. 117 del 1979), che è garantita dall’art. 19 Cost., e che va annoverata anch’essa tra i «diritti inviolabili dell’uomo» (sentenza n. 14 del 1973)54.

Pur non prendendo posizione in questa decisione riguardo ai possibili criteri di riconoscimento delle confessioni religiose, la Corte porta un argomento fortissimo a favore della riconduzione della libertà religiosa, sotto il profilo collettivo, alla libertà di associazione come teorizzato nella Parte precedente di quest’indagine.

La normativa sulle Comunità israelitiche era però anche lesiva dell’autonomia confessionale garantita dall’art. 8, comma 2, Cost. e, nel 1988, la Corte non mancò di censurarla anche sotto questo profilo: oggetto della questione era l’art. 9 del r.d. 30

52 Considerato in diritto, pp. 1747 e 1748. La Corte esamina anche l’obiezione delle Comunità che si basava

sulla possibilità di recesso, liquidandola così: «è agevole replicare, in contrario, che la facoltà del “distacco” appare soltanto come un rimedio ex post ad una situazione che nel suo stesso realizzarsi già si pone in insanabile contrasto con il ricordato fondamentale principio dell’art. 3 Cost.».

53 Ibidem, p. 1748. Per il giudice delle leggi, «non è qui necessario prendere posizione sulla natura “asso-

ciativa” o “istituzionale” delle Comunità israelitiche, perché la “libertà di adesione”, nei suoi aspetti (“positivo” e “negativo”) dianzi indicati, va tutelata, come “diritto inviolabile”, nei confronti non solo delle associazioni, ma anche di quelle “formazioni sociali”, cui fa riferimento l’art. 2 Cost., e tra le quali si possono ritenere comprese anche le confessioni religiose … L’obbligatoria appartenenza alla Comunità di un soggetto, per il solo fatto di essere “israelita” e di risiedere nel “territorio” di pertinenza della Comunità medesima, senza che l’appartenen- za sia accompagnata da alcuna manifestazione di volontà in tal senso, viola appunto quella “libertà di adesione”, che è tutelata dagli artt. 2 e 18 Cost.».

ottobre 1930, n. 1731, che prevedeva i requisiti per l’eleggibilità dei componenti dei consigli di tali comunità: il patente contrasto con il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti fu rilevato rapidamente. all’avvocatura dello Stato, che sosteneva essere la questione infondata sulla base del fatto che «la norma denunciata avrebbe carattere suppletivo e quindi cederebbe di fronte a disposizioni statutarie che dovessero dispor- re in modo diverso», il giudice delle leggi rispose che tale articolo,

per l’epoca in cui fu emanato, per il contesto normativo nel quale è collocato e per la sua formulazione testuale, ha un chiaro significato cogente, prevalendo, ove non ne venisse dichiarata l’incostituzionalità, sugli statuti emanati dagli organismi delle confessioni religiose che risultassero in contrasto con essa55.

nel 1990 la Consulta fu impegnata ancora da tale disciplina, sempre in relazione alla lesione dell’autonomia confessionale: in sede di regolamento preventivo di giuri- sdizione, le Sezioni Unite sollevarono questione di legittimità costituzionale di svariati articoli del R.D.1731/1930 in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20; dalle norme impugnate, infatti, si sarebbero dedotti «per le Comunità israelitiche, i caratteri propri delle persone giuridiche pubbliche con conseguente qualificazione del rapporto di lavoro con esse instaurato come rapporto di pubblico impiego e come tale devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo», e ciò sarebbe stato «in con- trasto con il principio dell’autonomia istituzionale delle confessioni religiose, quale si ricava dall’art. 8, comma 2 Cost. ed altresì con il principio supremo della laicità dello Stato, quale emerge dagli altri parametri costituzionali invocati»56.

La Corte procedette speditamente e giudicò fondata la ricostruzione del giudice

a quo: affermò con nettezza che il carattere pubblico della personalità giuridica delle

comunità in parola si presentava del tutto incompatibile con il principio costituzio- nale dell’autonomia statutaria delle confessioni religiose: «al riconoscimento da parte

dell’art. 8 comma 2 Cost. della capacità delle confessioni religiose, diverse dalla cattolica, di dotarsi di propri statuti, corrisponde l’abbandono da parte dello Stato della pretesa di fissarne direttamente per legge i contenuti», mentre attraverso tale normativa si sarebbe

realizzato «un esempio, forse unico nel nostro ordinamento giuridico, di statuto di confessione religiosa formato ed emanato dallo Stato»57.

Veniva dunque focalizzato in questa sentenza uno dei contenuti del principio di laicità, ossia il divieto di ingerenza dello Stato nell’organizzazione istituzionale delle confessioni religiose al fine di garantire la piena esplicazione della libertà religiosa,

55 S. n. 43/1988, in Giur. cost., 1988, p. 114 e ss., con osservazioni di F. FinoCCHiaro, Norme statutarie ga-

rantite dalla Costituzione come presupposto dell’illegittimità di norme di legge e S. lariCCia, Limiti costituzionali

alla libertà delle confessioni religiose.

56 S. n. 259/1990, in Giur. cost., 1990, p. 1542 e ss. Ritenuto in fatto, p. 1544.

57 Punto 3.2. del Considerato in diritto, p. 1548. Continua la Corte: «non può perciò reputarsi conforme ai

richiamati principi la normativa da cui tale regime deriva, soprattutto perché essa comporta l’assoggettamento di formazioni sociali, che si costituiscono sul sostrato di una confessione religiosa, alla penetrante ingerenza di organi dello Stato; il che, inoltre, rispetto alle altre religioni, costituisce una palese discriminazione che contrasta con il principio di uguaglianza, con quello della libertà religiosa e con quello dell’autonomia delle confessioni religiose».

divieto che comporta la rinuncia dello stesso nei confronti di qualsiasi tentazione di matrice giurisdizionalistica e di qualsiasi tentativo di ‘istituzionalizzazione statale’ del fenomeno religioso58.

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