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La ‘riduzione’ del significato e l’autoqualificazione come ‘chiusura del sistema’

la libertà religiosa nel sistema costituzionale

8. La ‘riduzione’ del significato e l’autoqualificazione come ‘chiusura del sistema’

La soluzione più ‘morbida’ e praticabile67, sia politicamente che giurisprudenzial-

mente, potrebbe essere quella di riportare alla massima espansione possibile il diritto comune attraverso una interpretazione restrittiva del contenuto costituzionalmente legittimo e del Concordato e delle Intese: anche in questo senso, la strada può essere quella indicata da Roberto Bin, secondo il quale il meccanismo dell’intesa non può essere impiegato per usi diversi da quelli connessi all’aspetto sociale del culto, dal momento che «gli artt. 7 e 8 Cost. non ci dicono niente in materia di libertà di coscien- za: per questo (e a questa condizione) ammettono l’intervento legislativo dello Stato»68.

Con questa prospettazione si apre un grande spazio di manovra per la giustizia costi- tuzionale, che avrebbe la possibilità di giudicare incostituzionale tutto ciò che non attiene alle peculiarità, ai bisogni specifici delle varie confessioni, dal momento che ciò che viene attribuito senza ragioni riguardanti una singolarità di tale fenomeno sociale, si traduce automaticamente in una lesione del principio di eguaglianza: per fare degli esempi, in molti casi esiste una soglia di disuguaglianza oltrepassata la quale vengono indirettamente (ma non per questo meno efficacemente) intaccati i diritti di libertà: le agevolazioni fiscali concesse ad una confessione religiosa e negate ad un’altra, ne sono un esempio (per non parlare dell’esclusione delle altre forme associative da questo tipo di finanziamento). in altri casi invece questa soglia di disuguaglianza può essere oltrepassata senza incidere sui diritti di libertà: il riconoscimento della liceità della macellazione di animali secondo i riti di una confessione religiosa, ad esempio, non si riflette sulla libertà di un’altra confessione religiosa che non preveda macellazione rituale di animali (stesso discorso si potrebbe fare per il matrimonio, i giorni festivi e tutti gli elementi che possono in ipotesi caratterizzare un fenomeno autoqualificatosi come religioso)69. La soluzione più efficace e praticabile sembra quindi essere quella

della riconduzione del contenuto della disciplina pattizia all’àmbito suo proprio, cosa che porterebbe alla riespansione del diritto comune, e quindi, con esso, alla perdita di interesse per autoqualificazioni strumentali all’ottenimento di vantaggi quali esenzioni o contributi fiscali, con conseguente salvaguardia della piena eguaglianza nella libertà

67 Seguendo la lezione di n. BoBBio, Teoria generale del diritto, cit., p. 226: «La terza soluzione – conser-

vare entrambe le norme incompatibili – è forse quella cui l’interprete ricorre più frequentemente. ma com’è possibile conservare due norme incompatibili, se per definizione due norme incompatibili non possono coesi- stere? È possibile ad una condizione: dimostrare che non sono incompatibili, che la incompatibilità è puramente apparente, che la presunta incompatibilità deriva da una interpretazione o unilaterale o incompleta o errata di una delle due norme o di tutte e due. Ciò cui tende l’interprete di solito non è già la eliminazione delle norme incompatibili, ma piuttosto la eliminazione della incompatibilità. talvolta, per ottenere lo scopo, introduce qual- che lieve o parziale modificazione nel testo; e in questo caso si ha quella forma d’interpretazione che si chiama correttiva».

68 r. Bin, Libertà dalla religione, cit., p. 45.

di pensiero, coscienza e religione; per ‘chiudere il sistema’ e rendere davvero compati- bili gli artt. 7 e 8 con gli artt. 3 e 19 sarebbe comunque necessario ampliare la possibilità di ‘accesso potenziale’ all’Intesa sulla base del criterio dell’autoqualificazione, l’unico costituzionalmente legittimo.

Rimarrebbe il problema rappresentato dal fatto che, comunque, la possibile diffe- renziazione di disciplina in ragione della peculiarità del fenomeno sociale, per le con- fessioni, dipende in ultima istanza dalla possibilità di accesso all’Intesa che è, in buona sostanza, in mano all’arbitrio dell’esecutivo e del legislativo e si traduce quindi in un meccanismo di patente discriminazione fra fenomeni considerati religiosi, specie in considerazione del fatto che a tutt’oggi sono presenti nella legislazione pattizia privilegi ingiustificabili sulla base di asserite peculiarità70. ma, con la riconduzione del sistema

alla dimensione del diritto comune, molte di queste preoccupazioni sono destinate a ridimensionarsi, dal momento che la discrezionalità nella concessione delle deroghe allo stesso (che garantisce in maniera paritaria tutti i fenomeni associativi), se limitata a valutare le asserite esigenze peculiari di chi si autoqualifica come soggetto religioso, sembra non solo ragionevole, ma del tutto indispensabile.

È evidente, comunque, come le uniche strade capaci di conferire effettività al pieno dispiegarsi della libertà di pensiero, coscienza e religione come ricostruita in questo lavoro, passino più che per le vie della legislazione, politicamente ‘ostruite’ tanto quan- to quelle dell’esecutivo, per quelle della giurisprudenza costituzionale.

Comunque sia, non si può sottacere che il legislatore, volendo, potrebbe teoricamente provvedere a un azzeramento del sistema, apparendo infondate le obiezioni che conside- rano irretrattabili con legge ordinaria le concessioni contenute nel Concordato e nelle Inte-

se. Come fu autorevolmente prospettato a proposito della legislazione di natura pattizia, sembra più logico ritenere che l’art. 7, quale disposizione particolare, diretta a tutelare interessi ben delimitati, impedisca l’azione vincolatrice dei Patti per le parti in cui questi risultino in contrasto con

70 e qui si pone dunque il problema del ‘diritto’ all’Intesa e dei rimedi possibili, su cui vedi a. guazza-

rotti, Art. 8, in V. CriSaFulli - l. paladin - S. Bartole - r. Bin, Commentario breve alla Costituzione, cit.,

p. 69, che, in tema di ‘rimedi contro l’inerzia governativa’, oltre al ricorso alla giustizia amministrativa teorizza la possibilità di un «ricorso alla Corte costituzionale mediante il conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalla rappresentanza confessionale contro il governo, a tutela dell’attribuzione costituzionale di cui all’art. 8, co. 3, Cost. Su tale norma, infatti, può fondarsi il potere di avviare trattative (leali) con lo Stato per raggiungere l’intesa, cui corrisponde l’illegittimità di comportamenti ostruzionistici del governo». Lo stesso autore sottolinea poi come la prassi recente abbia posto l’attenzione su un ulteriore problema, ossia l’omessa approvazione legislativa dell’Intesa siglata, sul quale è ben più arduo sostenere l’ipotesi della esperibilità del conflitto. L’unico rimedio sembrerebbe essere allora solo l’incidente di costituzionalità con il conseguente giu- dizio di eguaglianza-ragionevolezza affidato alla Corte, la quale però non è sembrata sino adesso voler esercitare il suo ruolo in questo settore. Per m. ainiS, Laicità e confessioni religiose, cit., p. 20, pur esistendo un «diritto

all’intesa … quantomeno nel senso che il governo non può negarla senza una valida ragione, la quale a propria volta può trovare fondamento nel solo limite del buon costume evocato dall’art. 19 Cost. … tuttavia questo di- ritto si situa in una zona franca della tutela giurisdizionale, perché le determinazioni del Consiglio dei ministri sono atti politici e perché è impossibile costringere ad un facere le Camere che dovrebbero recepire l’intesa in una legge».

altre specifiche disposizioni costituzionali … ne deriva che le leggi ordinarie, che venissero ad incidere sulle materie disciplinate dai Patti, ben potranno farlo nei limiti di una conformità a norme costituzio- nali insuscettibili di essere contraddette dai Patti71.

e tale ragionamento non può che valere, a maggior ragione, anche per le leggi basa- te sulle Intese. Certo, su tali leggi unilaterali si potrebbe poi sollevare una questione di incostituzionalità per violazione del principio pattizio, ma la Corte, riconoscendo l’incostituzionalità dei privilegi contenuti nella legge di esecuzione del Concordato o nelle leggi di approvazione delle Intese, dovrebbe far salva la normativa unilaterale che si è limitata a rimuovere disposizioni che in tali leggi non potevano essere contenute, appunto perché lesive della Costituzione72.

Sotto un diverso profilo, il legislatore ben potrebbe emanare una legge generale: sarebbe infatti compatibile con i principî costituzionali

un nucleo di legislazione ecclesiastica di portata generale risultante dai principi che la stessa Costitu- zione stabilisce e da altre disposizioni che siano adottate, anche mediante leggi attuative, per interpre- tare tali principi. tale attività legislativa è conseguentemente soggetta al controllo della conformità delle interpretazioni adottate ai principi costituzionali e del rispetto dell’ambito di autonomia proprio delle confessioni, che spetta ovviamente al giudice della costituzionalità delle leggi73.

tale strada potrebbe essere percorsa attraverso la sostituzione dell’idea di un ‘dirit- to comune dei culti’ con quella, più semplice,

di un ‘diritto comune di tutti’. L’esperienza delle intese consentirebbe oggi di trasferire al livello di diritto comune – quindi con il massimo rispetto e la migliore attuazione dei princìpi di libertà, ugua- glianza, laicità, pluralismo – la maggior parte delle esigenze comuni avanzate dalla confessioni religio- se. Certamente residuerebbero sempre alcune esigenze del tutto peculiari delle singole confessioni. Per queste resterebbe utilizzabile il metodo delle Intese, in cui la confessione avanza una richiesta che lo Stato accoglie se la valuta socialmente non rischiosa e diretta a produrre non già un vantaggio d’or- dine civile, lesivo del principi d’uguaglianza, bensì una compiuta espansione della libertà religiosa in un caso che per la sua singolarità non potrebbe essere assunto a norma di carattere generale74.

71 Così C. laVagna, Istituzioni di diritto pubblico, cit., pp. 129 e 130. Per n. Colaianni, Laicità e prevalen-

za delle fonti di diritto unilaterale, cit., p. 220-221, «Si evita così il paradosso di negare legittimità ad una legisla- zione unilaterale, ipoteticamente rispettosa del principio di laicità e degli altri principi costituzionali, a causa dell’eventuale contrasto con norme pattizie incostituzionali: si evita, cioè, il rischio di una revisione, questa sì, strisciante della Costituzione».

72 Per V. onida, La ricognizione dei principi costituzionali in materia di religione, in V. tozzi (a cura di),

Studi per la sistemazione delle fonti in materia ecclesiastica, Salerno, edisud, 1993, p. 50, «se la differenza di trat- tamento non è ragionevolmente giustificata, nessuna copertura costituzionale dell’art. 7 o dell’art. 8 potrebbe valere a consentire deroghe, che dovrebbero ritenersi in contrasto con i principi supremi». e, quindi, liberamen- te rimuovibili dal legislatore.

73 a. pizzoruSSo, Libertà religiosa e confessioni di minoranza, in Quad. dir. pol. eccl., 1997, p. 56. Per l’autore

sarebbe ammissibile che la materia suscettibile di disciplina bilaterale fosse «regolata legislativamente con efficacia transitoria, in attesa della stipulazione delle intese. La disciplina risultante da una tale legislazione avrebbe quindi carattere suppletivo e sarebbe applicabile alle sole confessioni con le quali non esiste ancora un’intesa» (p. 57).

non sembra però che la situazione politica consenta, a breve, esiti di tal genere. anzi, come vedremo nella Parte iii, i segnali vanno nella direzione opposta.

Più chances in questo senso sembra offrirle il sindacato di costituzionalità: se non c’è dubbio che, in senso tecnico, un’Intesa è una legge singolare, applicabile alla confessione religiosa con cui essa è stata stipulata, sembra altrettanto chiaro, considerando l’insieme delle Intese fino a oggi concluse, che da esse emerge un ‘diritto comune delle intese’, ovvero un complesso di norme che disciplinano in senso sostanzialmente uniforme alcuni settori dei rapporti tra Stato e confessioni religiose (assistenza spirituale, insegnamento religioso, finanziamento degli enti confessionali, ecc.). È quindi lecito chiedersi se questo diritto comune delle intese non possa costituire, nei settori dove esso è più chiaramente espresso, il termine di comparazione nel giudizio di uguaglian- za ex art. 8 primo comma Cost.75.

Questa osservazione è certamente corretta, ma non sembra esserci spazio, a livello processualcostituzionale, per sentenze additive, dal momento che non pare possibile ‘allargare la platea dei beneficiari’ di un istituto attraverso ‘addizioni’ in una legge riguardante un singolo determinato soggetto collettivo. non pare quindi essere per- corribile altra strada che quella della dichiarazione di incostituzionalità ‘secca’ per violazione del principio di eguaglianza estesa, per via di illegittimità consequenziale, a tutte le altre disposizioni identiche contenute nella legge di esecuzione del Concordato e in quelle emanate sulla base delle Intese.

nell’ottica interpretativa di questo lavoro, poi, bisogna rimarcare come il giudizio di eguaglianza non possa essere limitato solo al raffronto fra confessioni ma debba essere esteso quanto meno alle associazioni rappresentative, parafrasando la giurisprudenza con- venzionale, di convinzioni, per tutte le disposizioni che non vengano incontro a ‘asserite’ peculiarità del fenomeno religioso: le agevolazioni fiscali date in maniera eguale a tutte le confessioni violano comunque l’eguaglianza perché non c’è alcuna ragione distintiva, che sia legittima costituzionalmente, per agevolare una confessione rispetto a una qualsiasi associazione ateistica o agnostica (ma nemmeno sportiva o culturale, per la verità)76.

sionali – specie di quelle a più forte incidenza d’interessi civili, ad esempio economici – potrebbe e dovrebbe accontentarsi della risposta ottenibile nel quadro di un diritto comune che le prenda in considerazione amalga- mandole ed unificandole con le altre esigenze altrettanto legittimamente emergenti in una società pluralista».

75 Così S. Ferrari, Libertà religiosa individuale ed uguaglianza delle comunità religiose, cit., p. 3097. L’autore

intravede uno spiraglio in tal senso nella s. n. 235/1997, dal momento che la Corte ha parlato, in relazione alle diseguaglianze fra confessioni, di differenze «destinate naturalmente a ricomporsi tutte le volte in cui le norme di matrice pattizia vengano ad assumere, per volontà delle parti, analoghi contenuti»: questo cenno, per quan- to fuggevole, «potrebbe prefigurare l’intenzione di non arrestarsi di fronte ad ogni norma di natura pattizia, deducendone aprioristicamente l’inidoneità a valere come termine di raffronto per il sindacato di uguaglianza. La Corte pare ammettere la possibilità che questo sindacato possa avere luogo anche in riferimento ad una norma pattizia se il contenuto di essa, essendo analogo a quello di altre norme pattizie, configura una disciplina comune. Si tratterebbe di uno sviluppo significativo che, insieme ad una più attenta valutazione del nesso che lega il prin- cipio di uguaglianza a quello di libertà, potrebbe consentire di superare l’impasse in cui la proliferazione delle intese ha costretto la valutazione di legittimità costituzionale delle disuguaglianze di origine pattizia» (p. 3098).

Una strada in tal senso potrebbe essere rappresentata da «un’interpretazione evolu- tiva e sistematica dell’articolo 8 della Costituzione, ormai necessaria» che

impone di assegnare al termine «confessioni religiose» un significato del tipo: «confessioni e convin- zioni in materia religiosa» o, semplicemente, «convinzioni in materia religiosa», non essendo ammissi- bile che le confessioni religiose in senso stretto godano di un qualsiasi favor legis rispetto a spiritualità religiose solo impropriamente designabili come confessioni – ad esempio, i diversi generi di yoga e di buddismo – o rispetto a sistemi teisti-razionalisti non abramitici – ad esempio i deismi e le massonerie – o, ancora, rispetto a convinzioni in materia religiosa scettiche, agnostiche, apofatiche, atee, come ad esempio l’Unione atei e agnostici razionalisti associata alla international humanist and ethical union77. Con una interpretazione di questo tipo sarebbe possibile garantire l’accesso all’In-

tesa anche per le associazioni rappresentative di convinzioni.

anche con queste correzioni, comunque, il meccanismo finirebbe per attribuire uno status eccezionale alla ‘materia religiosa’ non giustificabile, per cui, come già sottolineato, la strada maestra dovrebbe essere quella della legislazione unilaterale attributiva delle medesime facilitazioni per tutti i fenomeni associativi o, in alternativa la dichiarazione ‘secca’ di incostituzionalità di tutte quelle disposizioni che non sono giustificabili sulla base delle asserite ‘peculiarità’ del fenomeno religioso in modo da far ‘riespandere’ il diritto comune.

ma è evidente che, per ottenere questi risultati, non potendosi fare affidamento sul potere politico, è necessario che il giudice delle leggi si muova in una direzione che, come vedremo nella Parte ii, ha mostrato, sino adesso, solo a tratti e con moltissima prudenza di voler percorrere.

Conclusioni

il lungo cammino ricostruttivo e argomentativo percorso sembrerebbe dimostrare come la ‘prima libertà’ si sia ormai dissolta in qualcosa di molto diverso, tanto da non potersi neppure più parlare di libertà religiosa. a pensarci bene, però, sotto un diverso

nomen la lettura proposta non fa altro che valorizzare all’estremo l’essenza della stessa,

«un diritto positivo che non nega la libertà a certe confessioni od a certi partiti o ad associazioni sindacali, ma fa loro un trattamento deteriore rispetto a quello fatto ad altre confessioni o partiti od associazioni, siamo in realtà alla mera tolleranza: il trattamento deteriore presuppone l’idea che meglio varrebbe che quella confessione, quel partito, quella associazione non esistesse, tutti si raccogliessero nel gruppo considerato favorevolmente dal legislatore». L’illustre autore sottolinea pure che la lesione del principio di eguaglianza, in una società in cui una parte non indifferente della popolazione sia estranea ai gruppi religiosi costituiti dalle confessioni, si può verificare facilmente «nell’attribuzione di aiuti economici da parte dello Stato. non a torto i liberali di sentire più delicato escludevano la possibilità di tali aiuti. mentre in una società tutta ripartita in confessioni, lo Stato soddisfa alla regola della parità ove distribuisca i suoi aiuti a tutte, in relazione al numero degli appartenenti, la parità non è più rispettata se, esistendo gruppi areligiosi, questi non ricevono aiuti, per la loro scuola e le loro istituzioni di beneficenza. Qui dunque dovrebbe riaffermarsi la regola della legislazione che conosce soltanto gruppi con fini ideologici e non economici» (p. 148).

essenza che può essere ritrovata originariamente proprio nella rivendicazione di un àmbito di autonomia individuale – la coscienza e il conseguente pensiero – inscalfibile da qualsiasi potere. il fatto che storicamente sia stata la libertà di coscienza in materia religiosa a essere rivendicata per prima ha proiettato sulla libertà religiosa una dimen- sione confessionale che però non ne esaurisce la sostanza78.

La libertà religiosa è sempre ed esclusivamente, in primo luogo, libertà dalla religio- ne, cioè dalla eventuale religione dello Stato, così come sorse originariamente, oppure dalla religione dei gruppi sociali o degli altri individui79. È, cioè, primariamente difesa

della libertà di pensiero e coscienza di ciascun singolo.

essa protegge dunque innanzitutto la dimensione propria dell’individuo e si proietta su tutto l’ordinamento in chiave libertaria. D’altronde, nelle stesse parole di Ruffini di quasi un secolo fa, la libertà religiosa è «la facoltà spettante all’individuo di credere

a quello che più gli piace, o di non credere, se più gli piace, a nulla»80. È dunque l’in-

dividuo singolo l’unico giudice possibile della sua credenza, o convinzione o pensiero, e la pari dignità di ogni individuo impone di conseguenza allo Stato di considerare parimenti degne tutte le prospettazioni individuali possibili. La libertà religiosa (rectius la libertà di pensiero, coscienza e religione) non può che essere dunque il ‘luogo costi- tuzionale’ in cui si riconosce un àmbito di autonomia individuale contro ogni potere, statale o sociale che sia, e non può più essere la base per giustificare privilegi per taluni soggetti e taluni gruppi o limitazioni dei diritti individuali81.

Dimostrato che il criterio di autoqualificazione è l’unico eventualmente utilizzabile e compatibile col dettato costituzionale e dimostrata la non specialità della libertà religiosa rispetto alle altre libertà costituzionali82, si aprono dunque spazi interpretativi

78 Come ricorda p. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., p. 203, «matrice e primo esempio

della libertà di espressione del pensiero, la libertà religiosa ha dietro di sé una storia gloriosa e sanguinosa insie- me, perché la storia della libertà religiosa è legata in buona misura alla storia del fanatismo. essa ha dato origine alla libertà di pensiero politico, dato che il “politico” proviene dal “morale”, che a sua volta con l’avvento del cristianesimo si identificava in gran parte con il “religioso”».

79 Ibidem, p. 207: «il singolo è tutelato anche nei suoi conflitti con le confessioni religiose, nella sua aposta-

sia, o eresia, o scisma; nonché in genere nel suo diritto più ampio a “non compiere alcuna scelta”, a “condurre una vita non illuminata dalla luce della grazia, né tormentata dal dubbio della miscredenza, né esaltata dalla tensione morale di qualsiasi impegno civile”, una sorta di diritto alla “non partecipazione”, “contro ogni rigori- smo di ispirazione religiosa o civile”».

80 F. ruFFini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, cit., p. 279.

81 Secondo p. ConSorti, Diritto e religione, cit., p. 12, essa «abbraccia le diverse possibili espressioni della

spiritualità personale. Si rapporta quindi direttamente alle esigenze di coscienza, che possono esprimersi tanto

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