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Camera dei Deputati, Palazzo Montecitorio, Aula della Commissione XI (Lavoro)

AMBIENTE, ECONOMIA, ISTITUZIONI E SVILUPPO SOSTENIBILE ILLUSTRAZIONE DEI CONTENUTI DELLA SESSIONE

Giampiero Di Plinio

A parte i non solo doverosi ringraziamenti e apprezzamenti per l’organizzazione e la qualità scientifica con cui è stato condotto il Convegno, un buon grosso pezzo di gratitudine aggiuntiva va ai giovani studiosi che ho avuto l’onore di coordinare in questo atelier, alla loro passione scientifica e vivacità intellettuale, che hanno reso ineffabili e senza prezzo le ore di intenso dibattito, con ben tre completi giri di tavolo, nello scenario dell’Aula della XI Commissione a Palazzo Montecitorio.

Sebbene le “musiche” eseguite nel dibattito fossero segnate da provenienze scientifiche e professionali variegate, narrando storie e scenari diversi, allineando modelli, analizzando casi, ritmi e assonanze e dissonanze, esse sono armonicamente confluite dentro i nuclei della trama dei rapporti tra natura, ambiente, economia industriale e sviluppo sostenibile, rappresentati da parole chiave come “rischio”, “danno”, “bilanciamento”, “sussidiarietà”.

Parole chiave maneggiate, dai giovani maestri, nelle loro varie declinazioni, a partire da Daniela Belvedere, che accostando appunto “rischio” e “precauzione”, snoda una intelligente analisi della utilizzazione di questa endiadi da parte del legislatore e della giurisprudenza amministrativa, fino al passo di blocco rappresentato dalla tagliola della “certezza”, con l’abbandono, da parte del Consiglio di Stato, della tutela precauzionale fondata su dati “ipotetici”. Di conseguenza, a fronte della tendenza alla dilatazione dell’uso da parte di legislatore e amministrazioni del principio di precauzione nella giustificazione di scelte discrezionali, si delinea sempre più chiaramente un controlimite operazionale, rappresentato dal grado di compromissione ammissibile (direi “sostenibile”) di altri diritti fondamentali e interessi pubblici degni di tutela costituzionale. Tra questi, i valori espressi dalle esigenze dell’economia assumono un ruolo di primo piano, guidando la giurisprudenza amministrativa verso una interpretazione restrittiva dell’esigenza precauzionale e della corrispondente discrezionalità, nella gestione del rischio da parte delle amministrazioni, alle quali viene imposto l’obbligo di valutare e decidere in base a criteri predeterminati e misure “certe”, quasi suggerendo la trasmutazione di quello che è un quadro essenzialmente probabilistico in un più o meno rigido modello quantitativo, con la conseguenza che l’asse del bilanciamento tra rischio ambientale e sistema economico si inclina di diversi gradi a vantaggio di quest’ultimo.

E che questo trend non sia circoscritto all’azione della giustizia amministrativa, viene molto efficacemente evidenziato da due ricerche

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collettive, in un certo senso collegate tra loro, e non solo per la comune appartenenza degli autori allo staff dell’Agenzia pugliese per la prevenzione e la protezione ambientale. La prima – di Simona Sasso, Emanuela Laterza, Claudio Lofrumento e Barbara Valenzano (che ne ha esposto i passaggi chiave) – si è soffermata sugli scenari presenti e futuri del “Caso ILVA”, amaramente celebre come punto d’incrocio e di deflagrazione di molte teorie giuridiche dell’ambiente, nonché, soprattutto, di un preoccupante contrasto tra le istituzioni politiche nazionali e la magistratura locale, risolto, se così si può dire, dalla nota raffica di atti normativi nazionali. A questi Valenzano e Colleghi rimproverano, con dovizia di argomenti, di non essere supportati da valutazioni di risk assessment scientificamente adeguate; ciò nonostante essi sono stati assolti dalla clamorosa quanto (almeno per chi scrive) prevedibile anzi scontata sentenza n. 85/2013 della Corte costituzionale, secondo la quale quella soluzione legislativa non sacrifica irragionevolmente il bene della salute, ma lo “bilancia” con altri beni di rango costituzionale (iniziativa economica, lavoro), nell’ambito di una dialettica rimessa alla discrezionalità politico-amministrativa, che nel caso di specie “non travalica il limite della manifesta irragionevolezza”.

Una pietra tombale, in tutti i sensi, la quale, se pure dà certezza costituzionale al diritto di ILVA di “esistere”, non dirada la nebbia che si addensa intorno al significato di precauzione, prevenzione, valutazione e gestione del rischio. Il bene della salute, dunque, può essere sacrificato, purché lo si faccia “ragionevolmente”, e questo malgrado – come mostra con dovizia di informazione la seconda delle due sopradette ricerche (Simona Sasso, Barbara Valenzano) – debba essere rilevata una importante evoluzione normativa, con la “Direttiva Seveso III”, dei principi europei in materia di sistemi di analisi per la valutazione del rischio ambientale in particolare connesso ai c.d. incidenti rilevanti, che sembrano ampiamente confermare la necessità della prevalenza della valutazione “scientifica” sulla decisione “discrezionale”.

Peraltro, il diritto, specie nell’esperienza comparatistica, non vive solo del binomio tecnica/politica, ma conosce altri importanti modelli – di bilanciamento e valutazione del rischio di danneggiare irreversibilmente le risorse ambientali – come quello fondato sulla ricostruzione di un antico principio nelle moderne fattezze di “equità intergenerazionale” e ancora poco (ma ben) battuto dalla dottrina costituzionalistica, su cui si sofferma il contributo di Ylenia Guerra, con una splendida sintesi dello stato dell’arte sul principio e un misurato blitz applicativo del medesimo alla problematica recentissima della regolazione dei rifiuti alimentari, ove si evidenzia la gravità assoluta della carenza della configurazione normativa del concetto di rifiuto/spreco alimentare, e della corrispondente scarsa sensibilità per questi aspetti da parte dei formanti dell’ordinamento (al contrario della Francia, ove lo spreco è configurabile come reato, e fatta eccezione per qualche recente tentativo della legislazione regionale).

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E la stessa parola chiave, equità, stavolta col predicato “ambientale”, in assonanza al modello americano di environmental justice, viene declinata come “solidarietà non solo intergenerazionale ma anche infragenerazionale” e come interfaccia del principio di sviluppo sostenibile, sul versante dei conflitti relativi alla “localizzazione” di opere pubbliche “pericolose, nocive o comunque degradanti”, da Raffaele Bifulco ed Elisa Scotti, in un innovativo studio a quattro mani, in cui l’interconnessione tra i sentieri del diritto pubblico corre sul filo dell’eleganza di analisi e argomentazione. L’impatto sui diritti fondamentali (ma anche, direi per ora solo fugacemente, sui “territori”), i costi e gli svantaggi che tali opere generano conducono gli autori dritti alla questione dei confini tra le ragioni dei diritti e gli interessi pubblici di livello nazionale e sovranazionale. E qui deve rilevarsi l’insufficiente elaborazione teorica e l’ancor più pericolosa carenza applicativa e giurisprudenziale della risposta al disagio, emergente anche in un contesto di conflitti sociali e istituzionali sempre più “acceso”, per “una concezione che dall’interesse pubblico ha tradizionalmente derivato non solo la soccombenza degli interessi individuali ma anche la mancata percezione dei pregiudizi imposti al singolo e in generale agli interessi contrapposti, talora diffusi”.

Il cammino, certamente non facile, da percorrere diventa allora quello che conduce allo spazio teorico chiamato “equità”, declinato sui due aspetti, sostanziale e procedurale. Quanto al primo, al di là dell’usuale quanto fragile tematica della “compensazione”, gli autori propongono una incursione nel campo della responsabilità civile per atto illecito, quando viene ad esser leso il nucleo di diritti fondamentali, trovando prove e conferme non solo nell’esperienza comparatistica ma anche nell’analisi economica del diritto. Quanto al secondo, il ritmo è quello della partecipazione del pubblico ai processi decisionali, soluzione anch’essa alla fine fragile ed effimera, quando si snoda in una solitaria esibizione solo comunicativa, senza essere accompagnata dalla configurazione e dal consolidamento, nei formanti dell’ordinamento giuridico, di un sostanziale “dovere di perequazione”.

Ma fino a che punto sono compatibili tra loro precauzione e perequazione? È sempre possibile compensare? Sarebbe davvero ineluttabile un’opera pubblica se un test di sostenibilità scientificamente sicuro mostrasse che l’utilità economica che essa globalmente arreca alla dimensione nazionale è assai minore delle perdite che essa stessa impone non solo e non tanto all’ambiente, ma ai diritti individuali e all’economia politica delle collettività locali?

Mi fermo, per ora, alle domande, anche se l’atelier è stato riempito di questioni di questo ordine e di risposte, in molte variegate dimensioni, come l’indagine di Pietro Masala sull’effettività dei poteri della Regione Sardegna di fronte alle politiche nazionali di localizzazione di impianti di energie rinnovabili. Qui l’assurdo diventa sublime, perché l’opera d’impatto possiede essa stessa un valore ambientale riconosciuto, di fronte a cui lo studioso si

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chiede di quali margini disponga in concreto una Regione che intenda attuare un modello di sviluppo fondato su tutela del paesaggio e economia agricola di qualità. Masala evidenzia d’intuito l’eccesso centralista, che, legittimato dalla Corte costituzionale, lascia l’amaro in bocca nella misura in cui la Corte stessa individua nei criteri di localizzazione degli impianti fissati dalla legge statale, in cui le Regioni possono intervenire in sede di istruttoria, il “punto di equilibrio”, e ciò la porta ad escludere deroghe regionali alla pianificazione statale, anche se migliorative dal punto di vista della tutela paesistica, Ciò, nonostante che quelle deroghe implichino l’assoluta parità della quantificazione complessiva delle installazioni imposta dal diritto europeo, al quale tra l’altro non interessa minimamente la localizzazione, imponendo appunto soltanto obblighi produttivi “quantitativi” di energia rinnovabile. E questo implica, come conclude Masala, non soltanto che una Regione che voglia perseguire un modello di sviluppo imperniato sulla tutela del paesaggio incontri limiti insormontabili, ma anche che ad essa sia di fatto sottratta la possibilità di partecipare al governo delle rinnovabili.

Peraltro, la problematica della sussidiarietà può anche essere narrata in modo diametralmente opposto, come fa Maria Nazarena Rodriguez snodando una ricostruzione della legislazione ambientale federale e locale argentina successiva alla riforma costituzionale del 1994 che attribuisce allo Stato la competenza normativa sui presupuestos minimos di protezione, lasciandone l’enforcement, compreso l’eventuale adattamento in melius, ai livelli subnazionali di governo. Si tratta di un sistema mutuato da quello spagnolo e quindi in qualche modo conforme alla declinazione comune europea delle competenze ambientali, che racchiude nella fissazione di standard comunitari uniformi sia le esigenze della circolazione delle merci e dell’unità di mercato, sia le esigenze “essenziali” di protezione ambientale, che per i Trattati deve comunque essere elevata.

Ma se gli dei stanno nelle teorie e nei principi, i demoni si annidano nella prassi e nei dettagli. E puntualmente il dettaglio nel caso argentino descritto da Rodriguez mostra l’inefficienza degli standard minimi a frenare le politiche produttivistiche delle entità subnazionali, con la conseguente denuncia, in dottrina, della violazione del principio di sviluppo sostenibile e la richiesta di una maggiore centralizzazione delle decisioni ambientali.

Così, abbiamo sul tavolo tutti gli inferni possibili, quello in cui il produttivismo dello Stato uccide le politiche locali fondate sull’ambiente, quello opposto, in cui sono le scelte locali, pur mosse da imperativi di miglioramento e crescita, a devastare e bruciare senza limiti le risorse ambientali, e tutte la variazioni intermedie, tanto che vien voglia di chiedersi se il sintagma “sviluppo sostenibile” abbia realmente significati euristici, o sia soltanto una luminosa quanto evanescente cometa.

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comparatistica sulla circolazione – verticale, orizzontale e financo obliqua – del “modello di sviluppo sostenibile”, è nel contributo di Ivano Alogna, accanto alla consapevolezza della difficoltà di tutte le declinazioni teoriche del modello ad assumere consistenza scientifica in sede di enforcement. Ma se lo sviluppo sostenibile come modello giuridico “ha prodotto come risultato principale la sua diffusione a livello globale, (...) resta ancora aperta la domanda su cosa rappresenti concretamente: si tratta di un principio, un obiettivo politico, l’ideologia chiave del moderno ambientalismo? Un piano d’azione o una componente delle politiche pubbliche e delle azioni private? Un pleonasmo, perché qualsiasi sviluppo deve essere sostenibile? O al contrario un ossimoro, visto che lo sviluppo per sua natura non può essere sostenibile? O magari un

tertium genus, un modello adattabile a diversi contesti e situazioni, una miniera

ancora ricca da esplorare?”.

Quale che sia la risposta che ciascuno può dare, è evidente che economia e ambiente, comunque, continuano a percorrere insieme un “viaggio allucinante”, costellato di insidie, trappole, contraddizioni, drammatiche e devastanti al punto che vien voglia di chiedersi fino a che livello a un popolo, a una collettività locale, o anche a un singolo individuo possa essere consentito di scegliere di che morte morire, davanti all’alternativa tra lucrare ricchezza immediata provocando crisi anche irreversibili del proprio ambiente naturale, o stringere i denti e investire sul futuro e su una ricchezza meno vistosa e più lenta, ma durevole e sostenibile.

Puntualmente, con un colpo d’ala che ci porta dritti dentro la “tragedia dello sviluppo sostenibile”, Annalaura Giannelli propone, con disarmante (e deliberato) candore, di prendere in considerazione non solo la domanda se esiste un “diritto ad inquinare”, ma anche quella se esista un “diritto a essere inquinati”, con tutte le sfaccettature più o meno piacevoli che ne conseguono o che ne sono presupposti, che Giannelli affronta in un elegante viaggio nelle questioni fondamentali, dalle configurazioni privatistiche alla configurazione dei teoremi della “maggior tutela” (o protezione ‘incrementale’) nella ripartizione costituzionale delle competenze ambientali tra Stato e Regioni, con la consapevolezza che “sul fronte delle scelte pubbliche il problema delle rivendicazioni del “diritto di farsi del male” manifesta spiccati tratti di specificità, che si esprimono, innanzitutto, nel fatto che la scelta produttiva del danno (reale o potenziale) ... non viene assunta dal soggetto che direttamente sconta le conseguenze negative di tale scelta, ma da un soggetto terzo, sia esso il legislatore o l’amministrazione (...)”. E quanto sia rilevante questa specificità sul piano dei conflitti ambientali “verticali” e delle configurazioni costituzionali della loro soluzione, lo vedremo tra breve.

Su un diverso terreno, Fiore Fontanarosa prova a postulare il trasferimento del “potere ambientale” dalle entità politiche multilivello alle dimensioni proprietarie in forma collettiva, sul modello di quelle rinvenibili, ad esempio, in

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alcune realtà del continente asiatico, la cui pur augurabile maggiore efficienza nella gestione del rapporto economia/ambiente, rispetto ai modelli proprietari tradizionali (pubblico o privato), è tuttavia ancora da dimostrare, anche in rapporto alla ineluttabile parabola della (tanto politicamente fortunata quando scientificamente destituita) teoria dei cosiddetti “beni comuni”. E non sembra che l’esperienza di alcune pur importanti figure anche risalenti dell’ordinamento italiano (usi civici, Comunità alpine ecc.) possa essere presa a modello per generalizzazioni nello stato industriale ad elevata complessità, e nella costituzione economica “multilivello” intrisa di economia sociale – non “socialista” – e di mercato, ove i conflitti ambientali non possono che essere filtrati dalla dinamica dei pubblici poteri dello Stato costituzionale.

In questo contesto, sul piano del diritto pubblico “positivo”, le risposte non possono che muoversi sul filo degli esperimenti finalizzati ad armonizzare ambiente ed economia; il che, in via astratta, sarebbe possibile seguendo due diversi sentieri, non necessariamente alternativi: rendendo economicamente conveniente la protezione ambientale, e/o manipolando i processi economici in modo da ottenere, accanto al risultato “aziendale”, un risultato “ambientale” positivo.

In teoria, è bellissimo. In pratica è difficilissimo. Insomma, bello e impossibile? Può essere, ma perché non provarci? Così, ad esempio, Francesca Carpita, a fronte dei desolanti effetti della crisi della finanza pubblica sulla protezione della natura mediante parchi e riserve, si cimenta con l’analisi anche comparativa di approcci di “finanza creativa”, teoricamente possibili e talora concretamente intrapresi in diversi contesti territoriali, per reperire le risorse attraverso le quali rendere effettiva la pianificazione naturalistica e la conservazione della biodiversità nelle aree protette. I rilevanti risultati analitici e la chiara percezione del contesto di costituzione finanziaria in cui si trovano oggi a viaggiare le esperienze di conservazione del patrimonio naturale in zone territorialmente definite confermano, mi pare, il common core delle teorie integraliste della protezione: se i dati accurati esposti nel suo paper mostrano infatti che ogni euro speso nei parchi e nei siti “habitat” produce ritorni immensi, e si moltiplica per decine di volte, l’unico motivo ragionevole per cui ciò avviene non può che coincidere con “l’intensità della stessa protezione”, con la capacità, cioè, di “conservare” dinamicamente, nella misura più integrale possibile, Wilderness e biodiversità.

Da un altro angolo visuale, e sempre con approccio comparatistico, Luca Fanotto scandaglia a pettine fitto le insufficienze della gestione integrata della costa e della “valorizzazione” del demanio marittimo nel nostro ordinamento, caratterizzato da frammentazione legislativa e carenza di strumenti di governo, a fronte del modello di regolazione spagnolo, in cui l’inesistenza di un regime concessorio analogo a quello italiano ha consentito una maggiore flessibilità di governo, un più efficace ed immediato adattamento alle direttive comunitarie,

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migliori performance economiche. La lezione che se ne può trarre, mi pare, è che una maggiore liberalizzazione, mentre non implica necessariamente una caduta dei livelli di tutela ambientale e paesistica, può costituire un importante ingrediente della valorizzazione economica “sostenibile” del patrimonio costiero.

Nelle sue fasi terminali, il flusso del dibattito nel nostro atelier, partito dalle ribollenti fornaci dei problemi e delle domande, è approdato nelle più calme acque di alcuni teoremi “sufficientemente” stabili e, mi pare, generalmente condivisi nella sostanza: l’economia non è necessariamente il demone della violazione ambientale, così come la protezione dell’ambiente non è necessariamente l’ostacolo della crescita economica. Il problema è il bilanciamento, da un lato, e la pianificazione sinergica, dall’altro, e soprattutto la razionalità del controllo da parte della democrazia rappresentativa e delle sue istituzioni di governo, declinato verticalmente nella costituzione multilivello e nel principio di sussidiarietà, attraverso la corretta valutazione delle performance di lungo periodo delle iniziative economiche e delle politiche ambientali rispetto agli interessi locali e globali della collettività.

La “sostenibilità”, in questa ottica, assume le fattezze di un durevole wedding tra vantaggio economico nel lungo periodo (ma delle popolazioni e non di lobby!) e conservazione degli equilibri nelle risorse naturali/ambientali, sempre nel lungo periodo. Di esempi di come ciò sia possibile sono costellati, come abbiamo visto, i risultati e le proposte dei lavori dei giovani studiosi che hanno preso parte all’atelier, ai quali vorrei aggiungerne uno, alquanto trasversale, che riflette il contributo personale di chi scrive all’intensa discussione.

È facile dimostrare quanto sia sempre stato debole il governo “politico” e democratico dell’economia e dell’ambiente, le cui determinanti sono spesso decise su tavoli oscuri, e spesso il Parlamento, piuttosto che governare i processi, ha finito per tradurre in legge quelle decisioni. Come per l’antica vicenda dei lavori pubblici, dove l’asimmetria di conoscenze tecniche e potere economico ha sempre sbilanciato i pesi a vantaggio delle lobby, in materia di economia, energia e ambiente i ritmi della danza sono stati a volte dettati dai superpoteri di centrali economiche, spesso multinazionali. Certo, ciò non vale solo per questo Paese, ma non vale per tutti gli Stati e comunque non nella stessa, devastante, misura.

Per di più, lo sviluppo storico della regolazione degli interessi ambientali, e degli elementi di “costituzione economica” intimamente connessi, ha seguito una direttrice di “sussidiarietà rovesciata”, una tendenza alla centralizzazione dei poteri dalla dimensione regionale e locale ai livelli nazionali, e da questi alle sedi sovranazionali. Le ragioni sono complesse; qui è sufficiente rilevare che lo slittamento dalle Regioni allo Stato della decisione ambientale “trasversale” è probabilmente non reversibile, legittimato da una giurisprudenza costituzionale pressoché costante.

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a causa delle esigenze di mercato e concorrenza, dubbi emergono in riferimento alle localizzazioni produttive delle (grandi) opere o industrie suscettibili di creare, al di là della valutazione ambientale, danni economici alle collettività locali e ai corrispondenti livelli costituzionali di democrazia rappresentativa.

Da questo punto di vista il dilemma più delicato è se l’interesse nazionale prevalga sempre e ciecamente su quello regionale o locale, oppure se il principio costituzionale di autonomia territoriale, declinato in termini di “costituzione economica”, introduca garanzie e bilanciamenti. Insomma, i territori sono proprio del tutto inermi davanti alla volontà e agli interessi nazionali? Anche quando il principio di precauzione consiglierebbe una riflessione e una moratoria? Anche qualora la stessa costituzione economica mostrasse che l’impatto dell’opera sarebbe devastante non solo e non tanto per l’ambiente,

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