• Non ci sono risultati.

Camera dei Deputati, Palazzo Montecitorio, Aula della Commissione VI (Finanze)

GLI USI CIVICI NEL CONTESTO DEL PATRIMONIO CULTURALE (IMMATERIALE): PER UN NUOVO PARADIGMA GIURIDICO DE

2. Le common lands inglesi: tra protezione, tradizione e partecipazione

L’esame della disciplina delle common lands inglesi si rivela di grande interesse, non solo perché esse rappresentano uno dei più antichi (e ancora operativi) modelli di gestione di “terre comuni”, ma anche in ragione del fatto che esse mostrano un’evoluzione in un certo qual modo parallela a quella dei nostri usi civici, nella misura in cui da una visione puramente economico/produttiva si è passati ad una valorizzazione dei profili paesaggistico/ambientali e, vedremo,

17 G. MAGRI, voce Beni culturali, cit., 118. 18 Art. 1, commi 1 e 2, CBC.

GLI USI CIVICI NEL CONTESTO DEL PATRIMONIO CULTURALE (IMMATERIALE)

AMBIENTE, ENERGIA, ALIMENTAZIONE. MODELLI GIURIDICI COMPARATI PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE

VOLUME 1, TOMO I

114

seppur solo in parte, culturali.

L’istituto delle common lands20, risalente al tardo medioevo, consisteva nella

possibilità da parte della popolazione locale (commoners) di fruire di terreni che – pur appartenendo al feudatario – erano considerati “scarto feudale” (manor waste), in quanto non coltivabili21. Lo sfruttamento di tali aree da parte

dei Signori era in parte limitato dall’esercizio dei diritti d’uso dei commoners, riguardanti attività legate alla sopravvivenza ed alla gestione delle tenute in affitto interne al feudo. Il corretto esercizio di tali diritti era assicurato da tribunali feudali e da regole di diritto consuetudinario, finalizzate a conciliare i privilegi dei Signori con le esigenze di sfruttamento personale da parte della popolazione e di sostenibilità del terreno.

L’obiettivo era quello di regolamentare lo sfruttamento del terreno in modo tale da garantire una pacifica convivenza tra i commoners, e tra i commoners ed il feudatario; non secondariamente, tuttavia, si intendeva in tal modo evitare la realizzazione di quella che molti anni più tardi è stata definita “the tragedy of commons”22. Secondo tale tesi i beni comuni sarebbero inevitabilmente

destinati a deteriorarsi, nella misura in cui il loro “destino” dipenderebbe da singole scelte non coordinate fra loro e tutte finalizzate a massimizzare il proprio vantaggio: le soluzioni proposte sarebbero, pertanto, l’eliminazione dei beni comuni (mediante l’introduzione di diritti di proprietà esclusiva) ovvero la loro gestione attraverso una rigida regolamentazione pubblica23.

In tale ottica è possibile leggere quel fenomeno verificatosi in Inghilterra e Galles tra il XVI e il XIX secolo, che va sotto il nome di enclosures, e che comprende una serie di misure volte a privatizzare buona parte delle terre comuni fino ad allora esistenti24. La visione dei commons come modello

economico locale volto a garantire un’adeguata sussistenza alla popolazione contadina venne, quindi, superata, ma ciò non comportò la totale scomparsa

20 C.P. RODGERS-E.A. STRAUGHTON-A.J.L. WINCHESTER-M. PIERACCINI, Contested

Common Land. Environmental, Governance, Past and Present, London, 2011.

21 Il manor waste rappresenta il principale ma non l’unico modello di commons inglese: v. M.

PIERACCINI, La sostenibilità delle common lands: (sotto)sviluppo storico dei meccanismi

di governance, in Archivio Scialoja Bolla: Annali di studio sulla proprietà collettiva, 2008,

I, 183-184.

22 G. HARDIN, The tragedy of commons, in Science, 1968, 1243 ss.

23 “The commons, if justifiable at all, is justifiable only under conditions of low-population

density. As the human population has increased, the commons has had to be abandoned in one aspect after another”, G. HARDIN, The tragedy of commons, cit., 1248.

24 J. BOYLE, The Second Enclosure Movement and the Construction of the Public Domain, in

Law and contemporary problems, 2003, 33 ss.; R.C. ALLEN, The Efficiency and Distributional Consequences of Eighteenth Century Enclosures, in The economic journal, 1982, 937 ss.

Marco Calabrò - Anna Simonati 115

delle terre comuni inglesi, in quanto alcune di esse vennero percepite come risorse non più (solo) economiche, bensì ambientali, come aree nei secoli non “alterate” dall’uomo e, quindi, da tutelare25.

Il perdurare di uno stato di sostanziale incertezza in relazione alla gestione dei commons non privatizzati ha spinto, in seguito, il legislatore inglese ad emanare il Common Registration Act (1965), con il quale fu istituito un registro dei diritti d’uso interessanti ciascun common. L’intento non era solo quello di fare ordine in un settore ancora sostanzialmente disciplinato da norme di tipo consuetudinario, finalmente chiarendo “chi” potesse fare “cosa” e “dove”; alla luce dell’evoluzione paesaggistico/ambientale descritta, infatti, tale nuovo regime avrebbe dovuto consentire un più facile monitoraggio dello sfruttamento delle terre comuni, garantendone, nel contempo, la sostenibilità. Ma così non è stato. L’assenza di un valido procedimento di verifica ha indotto gran parte dei commoners a dichiarare diritti d’uso quantitativamente superiori rispetto a quelli effettivamente vantati, il che – insieme alla mancata previsione di una previa analisi di impatto ambientale – ha comportato il crearsi di condizioni di sovrasfruttamento del tutto antitetiche agli obiettivi di sviluppo sostenibile26.

Al fine di riparare alle suddette criticità, il legislatore inglese è, quindi, nuovamente intervenuto con il Commons Act (2006), che rappresenta l’attuale disciplina in materia di common lands27.

In particolare, viene prospettata la valorizzazione di modelli di gestione associata a livello locale: si prevede l’attribuzione di compiti di programmazione e amministrazione attiva a Commons Councils, associazioni private autorizzate dal Segretario di Stato, composte da rappresentanti delle diverse categorie di soggetti interessati alla razionale, sostenibile e pacifica gestione dei commons (titolari dei diritti d’uso, associazioni ambientali, comitati di sviluppo locale, ecc.)28.

L’enfatizzazione di un modello di governance bottom up risponde a molteplici esigenze. In ordine al profilo dei limiti quantitativi allo sfruttamento delle terre, la decentralizzazione a livello locale delle competenze in tema di regolamentazione dei rapporti tra i commoners mediante la votazione di uno statuto da parte di ciascun council dovrebbe essere in grado di garantire

25 M. PIERACCINI, A Comparative Legal and Historical Study of the Commons in Italy and

England and Wales, in Agricoltura, Istituzioni, Mercati, 2008, 101.

26 J.W. AITCHISON-E.J. HUGHES, The commons land registers of England and Wales: a

problematic data source, in Area, 1982, 151 ss.

27 C.P. RODGERS, Reversing the tragedy of the commons? Sustainable management and the

Commons Act 2006, in Moder Law Review, 2010, 461 ss.

28 M. PIERACCINI, Sustainability and the English Commons: a Legal Pluralist Analysis, in

GLI USI CIVICI NEL CONTESTO DEL PATRIMONIO CULTURALE (IMMATERIALE)

AMBIENTE, ENERGIA, ALIMENTAZIONE. MODELLI GIURIDICI COMPARATI PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE

VOLUME 1, TOMO I

116

con maggior facilità non solo l’individuazione di regole condivise (e, quindi, rispettose dei diritti di tutti, compreso il diritto alla salubrità ambientale dei

non commoners), ma anche il loro effettivo rispetto.

In merito, poi, al profilo della tutela ambientale delle terre comuni, ai vincoli restrittivi scaturenti da politiche di rango nazionale, si affianca un modello di protezione di tipo contrattuale, la cui efficacia è agevolata proprio dal ruolo gestionale riconosciuto ai councils: questi ultimi, in rappresentanza dell’intera comunità, sono chiamati ad aderire ad accordi ambientali volti a conformare i diversi diritti sulle terre comuni e le modalità del loro esercizio in modo da garantire il raggiungimento di elevati standard di protezione dell’ambiente29,

accordi il cui contenuto viene determinato mediante meccanismi di democrazia partecipativa, in modo da rendere i commoners non solo più consapevoli, ma veri e propri protagonisti delle politiche di tutela ambientale delle aree di loro interesse30.

L’attuale esperienza delle common lands inglesi – per quanto non priva di criticità – consente, dunque, di sostenere non solo la realizzabilità, ma, in alcuni casi, anche la maggiore efficienza, di modelli di gestione collettiva di terreni, alternativi al regime esclusivistico della proprietà privata. Non ci si riferisce ad un’efficienza di tipo economico/produttivo, quanto piuttosto ad un più agevole conseguimento di livelli elevati di valorizzazione paesaggistica e di protezione ambientale, in relazione ad aree il cui primario valore non è certo più quello originario (garantire la sussistenza dei commoners). Tutto ciò, tuttavia, presuppone la sussistenza di alcuni elementi, sia di tipo finalistico (obiettivi di sviluppo sostenibile) che di tipo gestionale (coinvolgimento e responsabilizzazione della comunità locale nei processi di decision making)31.

Non mancano, infine, argomenti a favore di una tendenziale valorizzazione anche dei profili identitari delle common lands. Il perdurare dell’applicazione di antiche regole di diritto consuetudinario; l’utilizzo di metodi tradizionali di sfruttamento delle terre non coltivabili; il mantenimento di uno stato naturale, quasi “selvaggio”, di intere aree proprio grazie al loro stato di beni comuni, quindi non singolarmente trasformabili dall’uomo: sono, questi, alcuni degli elementi che attribuiscono un valore anche storico-culturale a tali territori,

29 La letteratura internazionale adopera, al riguardo, il termine stewardship, definito come

gestione responsabile delle risorse, al fine di garantire nel contempo interessi pubblici e privati, attuali e delle future generazioni, anche attraverso la valorizzazione dei contributi della società civile. Cfr. D.A. FUCHS, An Institutional Basis for Environmental Stewardship, Springer, 2003.

30 M. PIERACCINI, La sostenibilità delle common lands: (sotto)sviluppo storico dei

meccanismi di governance, cit., 195.

31 U. MATTEI, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, 2012; G. ARENA-C. IAIONE (a cura

Marco Calabrò - Anna Simonati 117

rendendoli “a locus of community identity and cultural capital”32.

Outline

Documenti correlati