Camera dei Deputati, Palazzo Montecitorio, Aula della Commissione VI (Finanze)
GLI USI CIVICI NEL CONTESTO DEL PATRIMONIO CULTURALE (IMMATERIALE): PER UN NUOVO PARADIGMA GIURIDICO DE
3. Usi civici quali beni culturali immateriali e modelli di governance
La valorizzazione dei profili cultural-identitari di cui sono portatori gli usi civici impone un ripensamento anche dei modelli di gestione degli stessi, non più in chiave meramente produttivistica, attraverso la teorizzazione di un modello nazionale unitario in grado di recepire le nuove istanze di protezione, ma che sia, nel contempo, adattabile ai differenti contesti locali.
L’obiettivo è quello di individuare una via in grado di superare gli inevitabili conflitti tra interessi individuali e interessi collettivi che caratterizzano la governance dei beni comuni, scongiurando così la descritta dinamica della “tragedy of commons”33. Ciò comporta, come detto, innanzitutto un
allontanamento dalle posizioni di aprioristica sfiducia nei confronti di sistemi non conformi ai principi generali della proprietà privata, posizioni che – fondate su una concezione di efficienza intesa unicamente in senso economico ed antropocentrico – non possono che condurre a soluzioni comportanti un sistema di regole imposte dall’alto (statalizzazione) o la privatizzazione delle terre comuni (v. il processo di liquidazione degli usi civici)34.
Da qui la ricerca di un modello di gestione sostenibile in termini di preservazione della terra in sé (aspetto puramente ambientale), ma anche delle tecniche di sfruttamento storicamente adottate, delle consuetudini che da anni regolano le relazioni tra i commoners, del modello di proprietà condivisa così lontano (e per questo foriero di numerosi stimoli) dalla nostra esperienza (aspetto culturale)35.
L’obiettivo non è più quello del sostentamento dei titolari dei diritti d’uso e di uno sfruttamento sostenibile della terra dal punto di vista produttivo, bensì quello della conservazione paesaggistico ambientale (nonché culturale) delle risorse; inoltre (e conseguentemente), coloro che godono dei benefici di una corretta gestione degli usi civici non sono più solo i titolari dei diritti d’uso (popolazione locale), bensì l’intera collettività, nonché le future generazioni. Ciò comporta anche una revisione dei modelli di governance: divenendo recessiva la
32 K.R. OLWING, Commons & Landscape, in Landscape, Law & Justice: Proceedings from a
workshop on old and new commons, Oslo, 2003, 20.
33 Per una critica alla dottrina che teorizza l’inevitabile fallimento di politiche di gestione
fondate sui beni comuni v. M.A. HELLER, The Tragedy of the Anticommons: Property in the
Transitionfrom Marx to Markets, in Harward Law Review, 1998, 621 ss.
34 P. GROSSI, Un altro modo di possedere, cit.
35 R. LOMBARDI, Ambiente e mercato: note minime per una nuova prospettiva d’indagine
GLI USI CIVICI NEL CONTESTO DEL PATRIMONIO CULTURALE (IMMATERIALE)
AMBIENTE, ENERGIA, ALIMENTAZIONE. MODELLI GIURIDICI COMPARATI PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE
VOLUME 1, TOMO I
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dimensione economico-privata dello sfruttamento della terra, ed emergendo, al contrario, la dimensione culturale-collettiva della protezione e valorizzazione delle risorse ad essa connesse, si rivelerebbe inadeguata un’impostazione gestoria puramente privatistica, legata alle esigenze dei soli titolari dei diritti d’uso, che non tenesse conto dei profili pubblicistici coinvolgenti l’intera collettività.
Elinor Ostrom, la prima ad aver proposto un modello teorico sistematico di gestione dei beni comuni, ha individuato alcune condizioni essenziali per garantire la sostenibilità e la corretta governance dei commons. Le più interessanti ai nostri fini sono: l’adozione di modelli di democrazia partecipativa nell’individuazione delle regole; il riconoscimento del diritto degli usuari di organizzarsi e autogestirsi; la previsione di più livelli di governo (locale e nazionale) della risorsa comune36.
Si profila, quindi, l’esigenza di individuare modelli di governance ispirati alle teorie della democrazia partecipativa, e non solo in quanto ciò consentirebbe l’emersione delle “voci” delle diverse anime che beneficiano e, nel contempo, sono responsabili, del bene comune37. Spingono in tal senso anche finalità di
risultato: in un processo di decisione partecipata, se adeguatamente gestito, non ci si limita ad ascoltare le posizioni dei diversi stakeholders, bensì si confrontano e discutono gli interessi in gioco, spesso anche confliggenti tra loro, fornendo così a ciascuno gli strumenti per andare oltre la propria posizione individuale, in ragione del perseguimento dell’interesse comune38.
A ciò deve aggiungersi il ruolo fondamentale che deve giocare in tale processo il principio di sussidiarietà orizzontale, che, nell’agevolare l’implementazione di forme di auto-amministrazione e gestione associata delle terre comuni, consente il superamento sia di un’ipotesi di governance centralizzata a livello statale, sia l’appiattimento del regime degli usi civici sul modello della proprietà privata, in ragione di una visione meta-individuale e, quindi, solidaristica della gestione dei beni comuni39.
Tuttavia, la configurazione degli usi civici (anche) in termini di beni culturali immateriali non consente di affidare al solo livello locale la funzione gestoria. Ciò
36 E. OSTROM, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action,
Cambridge, 1990, 90.
37M. PIERACCINI, Introduction: Common Land as a Contested Resource, cit., 10.
38J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro, trad it., Milano, 1998. V. anche J. BLACK,
Proceduralizing Regulation, I, Oxford Journal of Legal Studies, 2000, 597 ss.; U.
ALLEGRETTI, La democrazia partecipativa in Italia e in Europa, in www.rivistaaic.it, 2011.
39 Cfr. C. IAIONE, Beni comuni e innovazione sociale, in Equilibri, 2015, 60 ss.; G. ARENA,
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innanzitutto in ragione della marcata connotazione paesaggistico/ambientale degli usi civici, con le relative conseguenze in termini di esercizio del potere conformativo statale attraverso l’individuazione di vincoli anche fortemente restrittivi: non tenere in debito conto tale influenza “esterna” significherebbe idealizzare modelli di auto-governo locale non rispondenti alla realtà. Inoltre, se è vero che per preservare intatta l’identità locale è necessario consentire l’adozione di regole e modelli di governance differenziati, un approccio meramente localistico rischia di mettere in pericolo le realtà “politicamente” più fragili e, quindi, meno in grado di fronteggiare le ingerenze dei c.d. poteri forti.