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Ambiente istituzionale e sviluppo regionale

di Antonio Russo

6. Ambiente istituzionale e sviluppo regionale

Comune alle aziende del network Calabria di gusto è la peculiare rela- zione sinergica innescatasi tra un modello di gestione dell’impresa dai linea- menti ancora marcatamente famigliari e un forte orientamento all’innova- zione diffuso tra gli imprenditori della rete. Tale virtuoso intreccio tra mo- dello di regolazione e azione imprenditoriale ha conferito a queste aziende – soprattutto negli ultimi due decenni – un notevole slancio competitivo, e la capacità di proiettarsi con crescente successo nei circuiti dei mercati globali. Svariate aziende vantano più di cento anni di attività, nel corso dei quali hanno rinnovato profondamente il rispettivo profilo operativo, le produzioni e i mercati di sbocco dei prodotti. Molte delle imprese contrattiste hanno quindi superato il limite marshalliano della terza generazione, coniugando le tradizioni di famiglia e il sapere-fare ereditato con competenze professionali avanzate. Le strategie seguite hanno fatto leva sull’integrazione verticale e sulla costruzione di vantaggi competitivi fondati su risorse interne all’a- zienda stessa, dunque poste sotto lo stretto controllo della regolazione gerar- chica e dell’imprenditore. Eccezion fatta per l’accesso ai finanziamenti pub- blici, le imprese risultano quindi poco debitrici verso il territorio o verso forme di integrazione orizzontale con altre aziende dell’area. Anzi, la chiu-

sura alle relazioni esterne rappresenta un’altra caratteristica distintiva e pro- pria del manifatturiero calabrese (Fantozzi, 1997), di cui si ritrova traccia anche in questa esperienza di policy.

Lo sviluppo delle aziende leader ha quindi seguito traiettorie di lungo pe- riodo, che hanno progressivamente modificato i lineamenti operativi delle stesse in modo incrementale, senza discontinuità rilevanti. Anche il lento ac- cumulo di capacità competitive sembra riflettere la collocazione entro un am- biente istituzionale ed economico regionale poco adeguato a supportare lo sviluppo aziendale. È dunque nelle capacità personali degli agenti imprendi- toriali, più che nelle caratteristiche istituzionali del contesto locale, che vanno rintracciate le determinanti del successo di queste aziende. Tale ele- mento è stato frequentemente enfatizzato dagli intervistati:

Quelle di Calabria di gusto sono tutte aziende storiche. Non hanno scelto la loro localizzazione. Sono nate sul territorio e c’è stata una crescita spontanea e un lento rafforzamento. Paradossalmente, potrebbero operare in qualsiasi altro contesto territo- riale e avere le stesse capacità, anzi forse con vantaggi aggiuntivi derivanti da una di- versa localizzazione, avvantaggiandosi di economie di altro genere. Il contesto esterno non è un contesto agevole, e non ha di certo supportato la crescita. Sono imprese che hanno costruito le loro capacità produttive di eccellenza con tanti sacrifici, di genera- zione in generazione. Stiamo parlando di aziende che spesso hanno più di cento anni di storia. La principale leva competitiva è costituita dalle capacità imprenditoriali in- dividuali, e non dal contesto favorevole […] Per dare ulteriore impulso allo sviluppo del comparto industriale sarebbe sufficiente farlo operare in condizioni di normalità. Se le stesse aziende fossero “trasportate” in un altro contesto dove non dico tutto fun- zioni in modo efficiente, ma ci fossero meno vincoli e intralci esterni, il comparto agroalimentare calabrese potrebbe fare numeri impressionanti. I vincoli allo sviluppo sono tutti vincoli oggettivi esterni al perimetro aziendale. Se ci fosse maggiore inte- grazione tra pubblico, privato e centri di ricerca le aziende potrebbero svilupparsi e crescere su questo territorio con estrema facilità. Fare impresa in Calabria è diverso e più difficile rispetto ad altri contesti. Qui purtroppo non abbiamo lo stesso tipo di op- portunità presenti altrove. C’è un deficit strutturale di risorse primarie per lo sviluppo delle imprese, e non è solo un problema connesso alla distanza fisica dai mercati euro- pei (Intervista n. 12, rappresentante associazione di categoria).

Il ricorso alla regolazione gerarchica costituisce quindi una strategia razio- nalmente orientata a fronteggiare un ambiente esterno turbolento e incerto. Il territorio, in questa realtà regionale, tende infatti a rappresentare una rilevante fonte di rischi più che di opportunità, anche a causa della diffusa presenza della criminalità organizzata. In secondo luogo, non offre beni e servizi collettivi locali (Crouch et al., 2004) di qualità, capaci di supportare la competitività dinamica delle aziende. Le diverse Province calabresi, nel loro insieme, incor- porano ecosistemi territoriali connotati da bassi livelli di qualità istituzionale

(Nifo e Vecchione, 2015) segnati da molteplici vincoli, configurando ecosi- stemi operativi endogeni poco fertili e decisamente inospitali, dunque inidonei a promuovere lo sviluppo di un florido e robusto tessuto imprenditoriale au- toctono. Terzo, la propensione alla cooperazione – intesa come «capacità delle persone di lavorare insieme per scopi comuni in gruppi o organizzazioni» (Fu- kuyama, 1996, p. 23) – appare poco diffusa tra gli imprenditori calabresi. In ultimo, le caratteristiche proprie del modello di capitalismo mediterraneo (Burroni, 2016) – subdimensionamento delle aziende, sottocapitalizzazione, scarso orientamento all’innovazione, gestione poco professionalizzata – ten- dono a presentarsi in forma ancora più marcata ed estrema in tale contesto re- gionale. Tali diseconomie, e i deficit endogeni alle aziende, non vengono com- pensati attraverso forme di integrazione orizzontale e cooperazione, date le problematiche di cui sopra che connotano lo spazio locale.

In risposta a tale situazione di incertezza e sfiducia sistemica, le aziende reagiscono chiudendosi al territorio e internalizzando le singole fasi dei pro- cessi produttivi, specie quelle dalle quali ricavano i vantaggi competitivi più avanzati e distintivi, esattamente come previsto dalla teoria dei costi di tran- sazione (Coase, 2006; Williamson, 1987). Di conseguenza, le aziende cala- bresi «si presentano come isole, slegate le une dalle altre. In tale situazione le imprese sono interessate solo fino a un certo punto a stabilire legami tra di loro, perché la sopravvivenza e il successo non sono legate a un sistema lo- cale, ma ad una capacità produttiva propria» (Fantozzi, 1997, pp. 11-12). Tali dinamiche hanno espletato una rimarchevole incidenza sull’esperienza di po-

licy analizzata. Vediamo come e con quali effetti, discutendo l’ultima delle

questioni evidenziate in precedenza: le circoscritte esternalità irradiate dalla localizzazione di aziende leader. Queste risultano talvolta poco propense ad intessere relazioni con le altre imprese e con subfornitori locali, sia a causa di una forte sfiducia, sia per il timore di effetti di spillover capaci di innescare dinamiche imitative da parte di aziende followers, con conseguente disper- sione dei vantaggi competitivi faticosamente costruiti nel tempo. Ciò circo- scrive le potenziali esternalità positive derivanti dalla localizzazione delle stesse sul territorio. Le ricadute, in tal senso, allo stato attuale risultano piut- tosto ridotte, come sottolineato da diversi intervistati:

Il problema fondamentale è che c’è poca collaborazione tra le aziende del posto con le grandi aziende agroalimentari che sono insediate qui. Le grandi aziende locali sono un po’ chiuse. Non cercano la collaborazione con i piccoli produttori locali. Io so che alcune grandi aziende agroalimentari, senza fare nomi, si riforniscono da aziende siciliane o di altre regioni, che hanno sicuramente maggiori estensioni e pos- sibilità di produrre rispettando quei disciplinari di produzione. Questa collabora- zione è poco ricercata anche a causa di queste carenze strutturali delle aziende. Uno dei problemi fondamentali per il settore agricolo è l’eccessiva frammentazione

aziendale. Essendoci moltissime imprese con una bassa estensione media (2-3 ettari) queste aziende hanno molta difficoltà a seguire i disciplinari di produzione. Però abbiamo aziende anche di 50 o 100 ettari, alle quali non è mai stato chiesto niente in termini di collaborazione […] Praticamente lo sviluppo resta confinato dentro queste aziende e non si espande sul territorio, nel settore primario non c’è stato sviluppo. Non siamo neanche stati contattati, come associazione datoriale, affinché fossero coinvolte le nostre aziende, perché si potevano creare, volendo, tali sinergie. Lo svi- luppo non è stato generalizzato, è risultato concentrato (Intervista n. 2, rappresen- tante associazione di categoria).

Le aziende più grandi sono poco propense a collaborare con quelle minori. La possibilità di avere imprese che trascinano le altre è fortemente limitata, ma è fon- damentale per sostenere lo sviluppo del territorio. La collaborazione è frenata da molteplici fattori. Anzitutto ci sono imprese che sono considerate potenziali concor- renti, e tra queste non c’è cooperazione per ovvi motivi. Le cooperazioni di filiera, sia a monte che a valle, sono inibite dal fatto che a volte mancano imprese con cui collaborare, oppure dal fatto che ci sono imprese in posizioni diverse. Non c’è col- laborazione perché c’è comunque una sorta di preoccupazione sul fatto che le im- prese possano carpire “segreti” produttivi e trasformarsi, domani, in potenziali con- correnti. C’è un tentativo di preservare le conoscenze del mercato acquisite, del pa- trimonio informativo e di conquista del mercato faticosamente acquisito che ognuno cerca di custodire gelosamente. Anche la condivisione di informazioni, di contatti, avviene solo se c’è un rapporto che si è cementato negli anni, ma sono sempre piccoli passi, non c’è la capacità di collaborare per allargare gli orizzonti di mercato o di conquistarne di nuovi congiuntamente, dove c’è il rischio di ostacolarsi reciproca- mente o di competere sulle quote di mercato già acquisite. Io sono del parere che l’elemento della fiducia lasci il tempo che trova. L’azienda ragiona in base a van- taggi e svantaggi economici. Anche per le forme di aggregazione vanno costruiti vantaggi economici, altrimenti diventa solo una filosofia teorica della convenienza a lavorare insieme. Qui abbiamo una infinità di consorzi che si sono creati nel tempo e non hanno mai funzionato […]. Non c’è una diffusione sul territorio dei vantaggi di mercato che queste aziende riescono a conquistare. Ma non dobbiamo essere ne- gativi. Un po’ di questa diffusione avviene, avviene nei circuiti più vicini a queste aziende. Il club dei big di questa regione si è ingrandito negli anni, includendo altre aziende che hanno conquistato la fiducia, ma si è arricchito piano piano (Intervista n. 3, funzionario).

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