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di Antonio Russo

5. Reti di imprese e cooperazione

Sono in particolare cinque le dinamiche, riscontrate nel caso di studio se- lezionato, che assumono significativo rilievo rispetto alle finalità del pre- sente lavoro, e che saranno diffusamente approfondite nella successiva trat- tazione:

 la limitata strutturazione di relazioni stabili tra le aziende del net-

work, e la conformazione verticistica assunta dallo stesso;

 il ruolo ancora preponderante espletato dalle politiche e dai finanzia- menti pubblici nell’attivazione delle iniziative e degli investimenti privati;

 la commistione tra elevate capacità gestionali di imprenditori-inno- vatori e i limiti derivanti da un assetto microcapitalistico;

 gli alti costi di transazione, indotti da un contesto istituzionale sfa- vorevole, che incentivano un ricorso alla regolazione gerarchica e all’inter- nalizzazione dei processi produttivi;

 le circoscritte esternalità positive generate dalla localizzazione di aziende leader, con limitati effetti di spillover e ridotte dinamiche agglome- rative nelle aree di insediamento.

Partiamo dalla prima questione. Dopo la stipulazione del contratto di rete, e i frequenti contatti iniziali, alcuni intervistati hanno lamentato la sostan- ziale mancanza di relazioni con le altre aziende. In particolare, alcuni com- ponenti del partenariato lamentano un comportamento a loro dire “opportu- nistico” di altri aderenti alla rete, che prima li hanno coinvolti – quando si trattava di strutturare il partenariato – e poi li hanno isolati. Secondo alcuni

intervistati tenderebbero difatti a prevalere logiche verticistiche, con attori forti e dominanti che monopolizzano la rete, catturandone in via pressocché esclusiva i relativi vantaggi:

C’è molta furbizia e individualismo. Spesso non si raccolgono frutti di queste reti perché chi ha più tempo da dedicare a seguire le attività della rete sfrutta la situazione per fini personali. Non opera in modo super partes, si tiene le informazioni per sé, non suggerisce agli altri come muoversi sui mercati […] Ho aderito a un contratto di rete, ma sono in pochi ad avere dei vantaggi. La maggior parte delle aziende è stata riempitiva, inclusa per riempire la rete. Poi i giochi se li gestiscono in cinque o sei. C’è un problema di ripartizione dei benefici. Si viene contattati solo quando c’è bisogno dell’assemblea o delle decisioni che non possono prendere i soliti […]. Si è parlato di grandi cose sul piano teorico, ma poi all’interno della rete è successo che alcuni si sono aggregati tra di loro, quelli più amici, e si sono fatte le loro cose, noi, siamo solo riempitivi. C’è una rete nella rete: ci sono aziende che vengono utilizzate per fare massa e arrivare solo ai finanziamenti. Poi però la spartizione viene fatta su gruppi ristretti […] C’è una gestione personalistica della rete, e i maggiori vantaggi sono per quelli vicini agli organizzatori (Intervista n. 5, imprenditore).

All’interno della rete sarebbe dunque prevalso un approccio relazionale riconducibile a un modello di capitale sociale bonding (Putnam, 2004), che avrebbe agito da argine e freno all’estensione della partecipazione e della cooperazione, e causato una ripartizione fortemente asimmetrica dei relativi benefici. Del resto, in un contesto particolaristico come quello analizzato, le reti sociali – fondamentali risorse per l’azione anche in campo economico (Coleman, 2006) – tendono inevitabilmente ad essere utilizzate in modo stru- mentale. Di conseguenza, le politiche non possono fare leva sul capitale so- ciale esistente per stimolare innovazione istituzionale e sviluppo; al contra- rio, dovrebbero specificamente mirare – entro tali contesti – a spezzare e di- sarticolare i reticoli relazionali sedimentati, nei quali frequentemente si an- nidano relazioni intrise di clientelismo e particolarismo, generando ineffi- cienti rendite di posizioni e barriere al mutamento.

Nel contempo, gli imprenditori delle aziende leader esternano la difficoltà di interfacciarsi con partner di differenti dimensioni di scala, connotati da esigenze operative troppo eterogenee per potere intraprendere azioni comuni sul fronte del marketing e dell’internazionalizzazione:

Abbiamo partecipato a questo contratto di rete ma non abbiamo fatto nessuna attività. Uno dei principali motivi è che si tratta di una rete con molte aziende parte- cipanti, ma molto eterogenea sotto il profilo dimensionale […] le necessità operative sono molto diverse. Quando ci ritroviamo ognuno prende giustamente la parola ed esprime le sue esigenze. Alla fine abbiamo fatto ben poco. Attualmente non so se la rete è ancora in attività e che attività svolge […] non ha mai svolto rilevanti attività.

Il problema è l’eterogeneità […] A parole questa scarsa cooperazione non c’è. Anche se eravamo tutte aziende non concorrenti, siamo comunque riuscite a sederci intorno al tavolo. Nel concreto, la vera volontà di cooperare non si è vista, dato che non abbiamo fatto nulla (Intervista n. 6, imprenditore).

Almeno in Calabria di gusto, le caratteristiche strutturali delle aziende aderenti (dimensioni di scala, capacità tecnologiche, profilo operativo) sem- brano avere condizionato profondamente il potenziale di cooperazione e di interazione del network. Aggregando nei contratti di reti aziende il più pos- sibile omogenee sotto il profilo operativo e strutturale, se ne accrescerebbe il relativo potenziale di integrazione e le concrete ricadute sul piano opera- tivo. In caso contrario, vengono a mancare gli spazi per un’effettiva e profi- cua collaborazione tra aziende, mentre aumentano i rischi indotti da un’ec- cessiva distanza cognitiva tra gli agenti coinvolti, fattore che gioca a scapito del buon funzionamento del network e della cooperazione. Dall’esperienza di policy analizzata tale indicazione sembra emergere in misura piuttosto netta:

Nei molteplici contratti di rete che abbiamo contribuito a costituire abbiamo ri- scontrato che, se non c’è uniformità sia per settore merceologico che per settore aziendale e quindi riguardo ai mercati sui quali operano, si fa fatica a tenere insieme le aziende (Intervista n. 9, consulente).

A giudizio di diversi intervistati, i contratti di rete avrebbero potuto in- durre maggiori effetti aggregativi se avessero mirato a stabilizzare e forma- lizzare le relazioni interne a singole filiere, al fine di integrare le micro e piccole imprese isolate in catene del valore guidate dalle aziende leader lo- cali, con l’obiettivo di stimolare la clusterizzazione o la distrettualizzazione di produzioni che – allo stato attuale – si basano frequentemente su reti lun- ghe, extraterritoriali. Anche le dimensioni della rete, e un’estensione ecces- siva della stessa, giocherebbe a sfavore dell’integrazione tra aziende. Come sottolinea a riguardo un imprenditore:

È difficile con altre 15-20 aziende mettere tutti d’accordo e fare insieme le cose. Le reti più piccole funzionano molto meglio. Essendo aziende famigliari abbiamo molte difficoltà ad incontrarci e parlare, per via dei tanti impegni […] La rete Cit ha funzionato appunto grazie alla piccola dimensione della rete, basata su un’amicizia che abbiamo formalizzato. Sono oltre dieci anni che con questi amici ci sentiamo tutti i giorni. La crescita c’è anche solo parlando, giorno per giorno (Intervista n. 1, imprenditore).

Altra criticità, segnalata frequentemente nel corso delle interviste, è rap- presentata dai vincoli generati dalla distanza fisica tra aziende della rete, sparse sull’intero territorio regionale, elemento che induce un naturale argine alla frequenza e all’intensità delle interazioni. In realtà, tra alcune aziende della rete si sono effettivamente strutturati dei rapporti stabili di collabora- zione, in parte basati su relazioni personali pregresse, dando origine ad altri partenariati, come già segnalato. Nel 2016, sei aziende del network Calabria

di gusto hanno ottenuto un finanziamento da 150.000 € per la creazione di

un consorzio (la già menzionata Cit) a sostegno del rafforzamento dei legami commerciali con la Germania. Le stesse aziende aderenti al consorzio hanno complessivamente percepito, a vario titolo, milioni di finanziamenti europei negli ultimi anni (dati OpenCoesione, 2019).

Del resto – e veniamo così alla seconda questione da discutere – l’espan- sione e il rafforzamento competitivo delle aziende, in tale contesto regionale, è frequentemente l’esito di un accorto mix tra strategie di mercato e notevole capacità di intercettare i finanziamenti messi a disposizione dalle politiche per lo sviluppo in Calabria, Regione Obiettivo 1.

Il capitale sociale, oltre che risorsa per l’azione in campo produttivo – come nelle esperienze distrettuali – tende, in tale contesto regionale, ad as- sumere lineamenti decisamente ambivalenti, divenendo una leva strategica per incidere sulle scelte distributive operate dalla sfera politica. Si tratta di un approccio operativo del tutto razionale, entro un ambiente economico connotato da rilevanti diseconomie e notevoli deficit strutturali.

Nell’esperienza analizzata, il problema dell’accesso al credito costituisce un’altra palese criticità, rimarcata in continuazione dagli attori locali intervi- stati, e il sostegno pubblico all’investimento privato assume, di conseguenza, un’importanza decisiva. Non a caso, anche gli stabilimenti delle aziende lea- der sono stati realizzati o rinnovati con il cofinanziamento pubblico, che ha così concorso al successo delle stesse, coniugandosi con rilevanti capacità gestionali di imprenditori fortemente orientati al successo e all’innovazione. Nell’emersione di queste best practices, il supporto pubblico sembra dunque essersi coniugato in modo armonico e virtuoso con le strategie gestionali delle aziende in questione. Va inoltre segnalato che tutte le aziende contattate hanno dichiarato di avere introdotto innovazioni di processo e di prodotto nell’ultimo quinquennio, di avere mantenuto o aumentato i livelli occupazio- nali, registrando un aumento non solo dell’export verso i mercati europei ed extraeuropei, ma anche del fatturato e degli utili. Detto questo, il ruolo esple- tato nel successo di tali aziende dal supporto pubblico resta comunque di incerta quantificazione e interpretazione. Esso può avere spinto l’apparato produttivo locale su traiettorie evolutive che non avrebbe intrapreso sponta- neamente. Manca però – è evidente – la prova controfattuale: è possibile che,

anche in assenza di intervento pubblico, queste aziende avrebbero comunque ottenuto dal settore bancario privato il capitale necessario all’investimento. Il rischio che gli incentivi pubblici e le politiche industriali generino più o meno ampi effetti di spiazzamento della spesa o di sostituzione intertempo- rale degli investimenti è endogeno alle stesse (Tirole, 2017), e difficilmente può essere eluso anche attraverso un buon disegno di policy.

In aggiunta, l’intervento pubblico presta il fianco a strategie opportunisti- che, e incorpora inevitabilmente lineamenti ambivalenti, mentre il confine tra finanziamenti erogati a compensazione dei fallimenti del mercato o delle diseconomie esterne, e politiche orientate a creare occulte rendite di posi- zione, a vantaggio di gruppi politicamente protetti, risulta di per sé sfumato, e indeterminabile a priori, qui come in altri contesti territoriali. L’ambiva- lenza di fondo di tali policies, tuttavia, rende ancora più necessario uno stretto controllo e una costante valutazione dei risultati effettivamente con- seguiti attraverso questi interventi, per evitare sia sprechi di risorse pubbliche (in una fase storica connotata da una strutturale scarsità di fondi), sia delete- rie commistioni tra sfera politica e sfera imprenditoriale, e le conseguenti derive particolaristiche (Bellanca, 2018).

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