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Le ambivalenze dei diritti “umani”

Diritti umani, universalismo e differenze culturali di L UCA B ACCELL

2. Le ambivalenze dei diritti “umani”

L’antagonista di Las Casas a Valladolid era Juan Ginés de Sepúlveda (1490- 1573), un chierico che aveva frequentato i palazzi romani e la corte imperiale di Carlo V, coltissimo umanista e grande studioso di Aristotele. Sepúlveda ripro- pone e raffina la tesi dell’inferiorità degli Indios e della legittimità – o meglio della doverosità – della conquista 6; si basa sull’antropologia aristotelica della

disuguaglianza e insiste sulla necessità di combattere l’idolatria ed estirpare la pratica dei sacrifici umani.

La teoria della schiavitù naturale professata da Aristotele afferma la liceità della guerra nei confronti di coloro che devono per natura obbedire e rifiutano di sottomettersi. Costoro sono, come abbiamo visto, gli schiavi per natura; lo sono perché la loro ragione è sviluppata tanto da renderli capaci di ubbidire, di sottomettersi al comando di un superiore, ma non di deliberare e comandare. Per questo non solo è naturale che siano sottomessi dai più saggi, ma è bene per loro esserlo.

Particolarmente significativo è l’uso che Sepúlveda fa della nozione di hu-

manitas (che significa sia “umanità” che “civiltà”). L’inferiorità degli indigeni

viene enfatizzata da Sepúlveda: egli li chiama homunculi, dichiara che i segni dell’humanitas in loro si notano a stento. E paragona gli indigeni agli animali: vivono bestiarum more, persino nei loro riti religiosi si rivolgono, anziché al cielo, alla terra more porcorum. Questo significa, come sostengono molti stu- diosi, che Sepúlveda considerava gli indigeni animali? No: l’umanità degli in- dios non viene negata. Non c’è dubbio che molti conquistadores e coloni trat- tassero gli indigeni come e peggio degli animali; ma se non erano uomini e non avevano l’anima, che fine faceva la giustificazione della conquista? A chi si sa- rebbe annunciata la buona novella? Chi sarebbe stato salvato? Infatti gli indige- ni vengono ascritti da Sepúlveda a uno dei gradi inferiori dell’umanità; il punto è decisivo, perché è proprio la comune appartenenza all’umanità a comportare il conseguente dovere di intervento di chi esprime un’umanità superiore, cioè i cristiani spagnoli. Questa strategia argomentativa si basa, dunque, sulla defini- zione di differenti livelli di umanità (quella delle genti cristiane e quella degli

6 Cfr. IOANNIS GENESII SEPULVEDAE, Democrates secundus, sive de iustis bellis causis,

testo latino e trad. it. a cura di D. Taranto in Juan GINÉS DE SEPÙLVEDA, Democrate secondo,

ovvero sulle giuste cause di guerra, Quodlibet, Macerata, 2009; ID., Apologia pro libro De

iustis bellis causis, ed. A. Moreno Hernández, trad. A. Losada, in J.G. DE SEPULVEDA, Obras

homunculi), ma altrettanto importante è la comune appartenenza al genere uma-

no. Sepúlveda arriva a citare il motto di Terenzio. “Nihil humanum a me alie- num puto”: gli indigeni sono uomini, nostri fratelli e prossimi. È proprio perché riconosco la tua umanità che mi assumo il dovere di conquistarti e sottometterti: in questo modo compio il mio dovere di uomo verso un altro uomo, perché la sottomissione è per te un bene: come tutti i servi per natura è bene per te essere sottomesso a chi è padrone per natura; ed essere sottomesso a chi è humanior (più civilizzato; letteralmente “più umano”) è la condizione necessaria perché tu possa conoscere il Vangelo, eviti di peccare, ti salvi dalla dannazione, sia edu- cato fino ad una forma superiore di humanitas.

Siamo di fronte ad un’esplicita teorizzazione della conquista basata sulla su- periorità culturale dei colonizzatori e sulla civilizzazione dei colonizzati, che presuppongono l’idea della comune condizione umana. Sono argomenti che ri- torneranno nella storia dell’imperialismo europeo. D’altra parte, è ancora nel contesto della discussione sulla legittimità della conquista spagnola dell’Ameri- ca che (probabilmente per la prima volta) hanno trovato sintesi una compiuta nozione soggettivistica dei diritti, l’universalismo dei titolari e l’universalismo dei fondamenti. È in quel contesto che si sono incontrate le teorie che hanno sviluppato la nozione di diritto soggettivo e l’universalismo, dando ai diritti una fondazione universale ed arrivando a considerare gli esseri umani, tutti, quali titolari di diritti soggettivi. È in quel contesto, si potrebbe sostenere, che si può parlare per la prima volta di “diritti umani”.

Per rendercene conto dobbiamo fare un altro passo indietro nel tempo, sta- volta molto più breve, per arrivare alla fine degli anni trenta del XVI secolo. In quegli anni, il maggior teologo dell’epoca, Francisco de Vitoria (1483-1546), elabora una critica dei tradizionali titoli della conquista proponendo nuovi ar- gomenti basati su una concezione universalistica dei diritti soggettivi. Vitoria, teologo domenicano, non può che dichiarare di basarsi sulla dottrina teologico- giuridica di Tommaso; ma in realtà la reinterpreta utilizzando la dottrina di Jean Gerson e Conrad Summenhart in modo da conferire a ius l’accezione di diritto soggettivo: “diritto è un potere o una facoltà che perviene a chiunque in base alle leggi” 7. Vitoria comunque si differenzia da Gerson e Summenhart perché

ritiene che titolari dei diritti non possano essere le cose inanimate o gli animali irrazionali; non possono perché, da un lato, in quanto non razionali non sono

domini delle proprie azioni; dall’altro lato, perché non possono subire iniuria. Il

termine si può tradurre in vari modi, ma ciò che a noi importa è che l’in-iuria consiste nella negazione di uno ius, di un diritto. C’è una perfetta circolarità, perché è titolare di ius colui che può subire iniuria: animali non umani ed esseri

7 F.

DE VITORIA, De iustitia, q. LXII, a. 1.8, ed. R.P.V. Beltrán de Heredia, Publicaciónes

inanimati non possono subire iniuria e, perciò, non sono titolari di iura. Solo l’uomo è padrone dei propri atti e delle proprie decisioni, e dunque è titolare di

ius.

Sulla base di tali considerazioni, Vitoria afferma che gli indigeni delle Indie sono esseri razionali: ritenuti amentes vel insensati da molti europei, mostrano all’opposto una forma, anche se primitiva, di razionalità, e dunque sono titolari di diritti. Hanno realizzato una qualche struttura organizzativa sociale, politica, commerciale, produttiva, che appunto testimonia la loro razionalità. In quanto razionali hanno dominium sui actus e, pertanto, sono titolari di ius. Come tali

possunt pati iniuriam, e dunque possono esercitare il dominium. Prima dell’arri-

vo degli spagnoli gli indigeni erano quindi “et publice et privatim ita veri domi- ni, sicut cristiani” 8.

Ma se gli indigeni erano legittimi proprietari delle loro terre e le loro istitu- zioni politiche erano legittime, la conquista deve essere giustificata. Come ab- biamo accennato, Vitoria demolisce, tuttavia, le giustificazioni tradizionali. Un titolo illegittimo si basava sull’idea che l’imperatore sia dominus mundi 9. Non

lo è, sostiene Vitoria (e questo a Carlo V non fece piacere). D’altronde la pote-

stas temporale del papa è soltanto “in ordine ad spiritualia” 10. Il preteso titolo

derivante dallo ius inventionis non giustifica la conquista “né più né meno che se essi stessi avessero scoperto noi” 11. Inoltre in assenza di una iniuria com-

messa dai barbari non è lecito imporre la fede con la forza. Né i peccati dei bar- bari che violano la stessa legge naturale (come l’antropofagia, l’incesto, la so- domia) sono giusta causa di guerra: i principi cristiani non possono imporre ai barbari di astenersi da tali peccati nemmeno con l’autorizzazione del papa, che non ha giurisdizione su di loro.

La legittimità della conquista sembrerebbe a repentaglio. E d’altra parte, come Vitoria preciserà nella Relectio de iure belli, “Giusta causa” di guerra è isolo l’iniuria. “La differenza di religione […] non è causa di guerra giusta”. E non lo sono l’amplificatio imperii né la gloria del principe. E dunque “Una sola causa iusti belli est, scilicet iniuria accepta” 12. Come abbiamo visto il termine iniuria ha lo specifico significato della violazione di uno ius, di un diritto sog-

gettivo. Vitoria esclude dalle cause di guerra giusta il peccato contro la legge divina e anche violazioni della legge di natura come l’idolatria o la perversione; inoltre, l’iniuria deve essere di grave entità; potremmo dire che si deve trattare

8 V

ITORIA,Relectio De Indis. La questione degli Indios, testo critico di L. PEREÑA, ed. it.

e trad. di A. Lamacchia, Levante, Bari, 1996, p. 30.

9 Ivi, p. 33. 10 Ivi, p. 49. 11 Ivi, p. 54. 12 V

della violazione di un diritto fondamentale. In questo modo ius e bellum iustum rimandano l’uno all’altro. E per converso, come abbiamo visto, è la possibilità di subire una iniuria che rende titolari di uno ius.

Ma allora, per giustificare la guerra di conquista delle Indie, Vitoria dovrà indicare l’iniuria subita, cioè identificare degli iura – dei diritti soggettivi – che sono stati violati. Ed è esattamente quello che fa. Determinati diritti sussistono, infatti, sulla base dello ius gentium, che a sua volta si fonda sul diritto naturale. In quanto tali sono universali, nel senso che sono goduti da tutti gli uomini e che sono universalmente fondati nella natura umana: universalismo dei titolari e universalismo dei fondamenti. Vitoria ne individua tre gruppi.

In primo luogo, ci sono i diritti “della società e comunicazione naturale”: lo

ius peregrinandi et degendi (di migrare in un altro territorio e di risiedere in

quel luogo), i diritti relativi al commercio, all’esportazione e all’importazione dei prodotti: “gli indios non possono vietare il commercio agli spagnoli, per la stessa ragione per cui i cristiani non possono impedirlo ad altri cristiani” 13. Non

è lecito, inoltre, impedire la partecipazione e la comunicazione dei beni comuni ai cittadini e agli hospites. Di più, non è lecito impedire ai figli degli spagnoli residenti in quelle terre e lì nati di acquisire la cittadinanza. Gli indigeni erano

veri domini, titolari di diritti; ma non avevano titolo di opporsi ai diritti (natura-

li, universali, umani) di altri, nel caso gli spagnoli. Violare tali diritti universali costituirebbe iniuria. Si può allora cercare di fare valere il diritto in modo paci- fico; ma cosa avviene se questo non è possibile, se la violazione del diritto av- viene con protervia e violenza? Come abbiamo visto, è l’essere vittime di iniu-

ria a configurare, alle estreme conseguenze, la giusta causa di guerra, fino alla

conquista e alla sottomissione del nemico ingiusto.

C’è poi, in secondo luogo, il diritto di annunciare e predicare la verità evan- gelica. Attenzione: non è lecito imporre il Vangelo con la guerra. Ma anche in questo caso la guerra di conquista è giusta come lecita risposta ad una iniuria, cioè alla negazione di uno ius, in questo caso lo ius praedicandi et annuntiandi

Evangelium. Se infatti sarebbe illegittimo e sacrilego fare guerra per imporre la

predicazione, nel caso in cui la predicazione sia impedita si nega uno ius, si commette una iniuria, che è giusta causa di guerra. E dunque, se non c’è altro modo, è lecita l’occupazione dei territori, la deposizione dei sovrani e l’imposi- zione di nuovi, il ricorso a tutti gli iura belli 14.

Si dirà: si tratta di diritti universali, ma fino qui a Vitoria interessa che siano

13 V

ITORIA, De Indis, cit., p. 81.

14 Cfr.VITORIA, De Indis, cit., pp. 87-90. Va a merito di Vitoria avere introdotto a questo

punto alcune considerazioni cautelative: tutto questo vale in teoria, ma è possibile che la guerra e i suoi effetti in termini di stermini e saccheggi in realtà ostacolino la conversione (cfr. ivi, pp. 90-91). Vitoria finisce per passare al modo condizionale: questo “potuit esse se- cundus titulus legitimus”.

stati negati agli spagnoli. Non c’è dubbio che l’universalismo di Vitoria sia pro- fondamente asimmetrico. Ma c’è un altro aspetto.

Titolari di un altro gruppo di diritti universali che costituiscono giusta causa di guerra sono, in terzo luogo, gli stessi indigeni. La conquista è in questo caso giustificata “propter leges tyrannicas in iniuriam innocentium”: i sacrifici umani e l’antropofagia. Si tratta certamente di peccati, ma non è questo ad essere rile- vante; ciò che conta è che sono anche iniuriae, violazioni del diritto alla vita degli indigeni. Mentre non è legittimo far guerra ai barbari per punire i loro peccati contro natura, lo è per difendere il loro diritto a non essere sacrificati agli idoli o mangiati. Lo è in quanto si tratta dell’uccisione – che configura iniu-

ria – dell’innocente, insomma della difesa del diritto, naturale e universale, alla

vita. L’importanza dello ius – la gravità corrispondente dell’iniuria – è tale da giustificare il ricorso a tutti gli iura belli, e può avvenire “sine auctoritate Ponti- ficis” 15: la guerra per la difesa dei diritti dei barbari non richiede l’autorizzazio-

ne di un potere superiore. Ma soprattutto la legittimità dell’intervento in difesa del diritto alla vita prescinde dalla volontà e dal consenso delle vittime. Gli in- digeni non potrebbero dire: “no grazie; preferisco rimanere sotto il governo dei miei sovrani, anche se rischio di essere sacrificato agli dèi, che essere invaso e sottomesso dai cristiani”. Non potrebbero “poiché in questo non sono padroni di se medesimi e dei loro diritti [non ita sunt sui iuris], vale a dire nel consegnarsi essi alla morte e nel darla ai loro figli” 16. Vi sono, insomma, diritti assoluti, cui

non si può rinunciare. Ed è nella negazione di tali diritti – nell’iniuria – che consiste la causa di guerra giusta. Vitoria è molto chiaro; giusta causa non sono i peccati né la violazione della legge di natura come tali, ma la violazione di di- ritti soggettivi: “la ragione per la quale i barbari possono venire debellati non è il fatto che l’antropofagia o i sacrifici umani siano contro la legge naturale, ma perché arrecano iniuria agli uomini” 17.

Si è discusso a lungo sulla modernità della teoria di Vitoria. Credo che in ogni caso si debba riconoscere che è con l’argomentazione di Vitoria sulla legit- timità della conquista che l’universalismo dei titolari e l’universalismo dei fon- damenti si incontrano, esprimendo una teoria dei diritti naturali/universali (“umani”, diremmo oggi) che viene applicata ad un problema di grande impor- tanza ed attualità sul piano teologico, giuridico, politico. Determinati diritti, in quanto ne sono titolari tutti gli uomini ed hanno un fondamento universale, ven- gono utilizzati per argomentare la legittimità della conquista. E su un punto Vi- toria è certamente moderno: non esistono autorità universali – né papa né impe- ratore – politicamente sovraordinate ai principi e alle repubbliche. In questa si-

15 Ivi, p. 93. 16 Ivi, p. 94. 17 Ibidem.

tuazione i diritti naturali universali costituiscono il solido punto di riferimento per la giustificazione della legittimità della guerra: si potrebbe sostenere che per Vitoria l’unica guerra offensiva legittima è la “guerra per i diritti”. Vitoria defi- nisce uno schema basato su diritti universali – considerati assoluti – che mutatis

mutandis viene utilizzato ancora oggi (o è stato utilizzato fino a ieri) nella legit-

timazione delle “guerre umanitarie”. Dunque non solo l’utilizzazione della no- zione di humanitas si presta alla sottomissione degli appartenenti al genere umano. Nel contesto della conquista l’universalismo dei diritti si afferma sotto il segno di una profonda ambivalenza: l’universalizzazione avviene in funzione della legittimità della sottomissione e l’assolutizzazione del fondamento è fun- zionale a questa operazione.

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