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3 “Raddrizzare i torti” o “spezzare le gambe”?

Negli ultimi anni pare si registrino delle timide aperture al discorso dei diritti umani in alcuni degli Stati firmatari della Bangkok Declaration. La Cina, uno

22 È piuttosto dubbio che oggi paesi a economia “sociale” di mercato in fortissima cresci-

ta possano ricadere ancora, da un lato, sotto lo stereotipo dell’obbedienza orientale all’auto- rità e, dall’altro, sotto il cliché della parsimonia.

dei paesi all’attenzione delle organizzazioni internazionali e dell’opinione pub- blica mondiale su tali temi, già nella seconda metà degli anni Novanta aveva sottoscritto i Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e cul- turali. Nel 2004 ha poi modificato la Costituzione del 1982, affermando all’art. 33, comma 3, che “lo Stato rispetta e protegge i diritti umani”. Con ciò, ha ab- bandonato la formulazione classica di “diritti dei cittadini” che implicitamente respingeva ogni assunto universalistico, per introdurre nel testo costituzionale un’espressione (diritti umani) che alquanto paradossalmente era emersa in Cina solo all’indomani dei fatti di Tienanmen. Si comincia a sostenere che la Cina sta cambiando, che sta facendo degli sforzi nella direzione dell’accoglimento delle istanze per il rispetto dei diritti umani, che non è più il caso di guardare ad essa con la diffidenza che la comunità internazionale – talvolta con malcelata ipocri- sia – le riservava per la sua “cattiva fama” con riferimento all’uso massiccio della pena di morte, alla negazione e violazione degli elementari diritti civili e politici, alla repressione del dissenso e della libertà religiosa.

Naturalmente un’analisi di questi processi potrà essere intrapresa solo con grande attenzione alla molteplicità di fattori che riguardano i diritti in Cina, per esempio con riferimento ai diritti dei lavoratori, oppure al diritto all’ambiente, che talvolta appare del tutto subordinato al diritto allo sviluppo economico e in- dustriale di quel paese, per non dire della repressione del dissenso politico o del trattamento riservato alla libera attività sindacale. In altri termini, ben vengano le aperture formali, ma la situazione cinese è ancora piuttosto discutibile.

Nel 2002 Ronald Dworkin ha tenuto una serie di conferenze in Cina. La sua testimonianza, raccolta in un articolo significativamente intitolato Taking Rights

Seriously in Beijing e apparso sulla “New York Review of Books” 23, racconta

dell’uso massiccio della pena di morte, della sua comminazione per i reati più disparati (dalla malversazione allo sfruttamento della prostituzione), della de- tenzione di membri della setta Falun Gong, del caso di una donna condannata a sei anni di reclusione per essere stata trovata nella propria abitazione a guardare un video del Dalai Lama, delle condanne a dieci e undici anni di due dissidenti per aver appoggiato uno sciopero.

Per non dire di ciò che accade in alcuni regimi autocratici o apertamente dit- tatoriali del Sud-Est asiatico.

Di fronte a tutto questo sommariamente richiamato non si può non provare, di contro, simpatia per la lotta per i diritti umani a cui una parte dell’Occidente ade- risce sinceramente. Escludo, in modo forse tranchant, dal novero dei sinceri so- stenitori della lotta per i diritti umani tutti quei suoi sostenitori (istituzionali o che rivestono un ruolo intellettuale e nella società civile) che postulano la legittimità

23 2002, 14: <http://www.nybooks.com/articles/archives/2002/sep/26/taking-rights-seriously-

di guerre di invasione per ragioni “umanitarie”, ricalcando la logica argomentati- va medievale della guerra giusta; e direi che è il caso di escludere anche coloro che si ergono a paladini dei diritti umani per poi rivendicare, all’interno dei loro confini nazionali, un eccezionalismo che li dispensi dal dar conto del rispetto di tali diritti. Se i diritti umani servono a qualcosa, una delle loro funzioni è di mette- re in luce le ipocrisie di una parte della comunità internazionale.

Simpatia, dicevo, intesa non tanto come immedesimazione nell’altro o come adesione al punto di vista dell’altro. La simpatia di cui parlo deriva da un atteg- giamento etnocentrico critico, ovvero dall’idea che i diritti umani, se pure am- mettiamo la loro origine “occidentale”, sono un cassetta degli attrezzi che con- sente ai soggetti di perseguire il fine dell’autonomia individuale contro ogni forma di oppressione. Se i diritti umani sono questo, allora chi condivide l’ane- lito verso l’autonomia individuale e contro l’oppressione di genere, di gruppo, dello Stato, dell’etnia e di qualsiasi altro tipo penso possa comprendere cosa vuol dire “simpatia”. Il tema naturalmente è molto risalente nella riflessione fi- losofica 24 e non può essere eviscerato qui. Ciò che però si può dire è che sebbe-

ne le posizioni di alcuni moralisti siano condivisibili – non ci si può immedesi- mare con l’“altro”, né si può provare per le sue “sventure” la stessa compassio- ne che si prova per se stessi o per coloro a noi vicini – occorre aggiungere che il mondo come lo conosciamo oggi non è più attraversato da distanze insormonta- bili. Pur volendo rifuggire dalla retorica del “villaggio globale” interconnesso, è indubbio che le distanze si siano notevolmente ridotte, e che il dolore degli altri, anche quelli lontani, arrivi ai nostri sensi con molta maggiore facilità di quando Diderot e Rousseau – tra i moralisti “scettici” che hanno sostenuto un rapporto inversamente proporzionale tra sentimenti morali e distanza fisica – scrivevano le loro opere. Ciò amplia considerevolmente ciò che possiamo definire “zone di contatto” tra esperienze diverse.

Dunque la simpatia a cui si fa riferimento è quella dello spettatore. Se si vuo- le, una simpatia fondata sull’etnocentrismo: ciò che accade agli altri è accaduto, o potrebbe accadere, anche a me, a noi. Ma non si tratta dello spettatore impar- ziale. Si potrebbe dire anche che lungi dal far riferimento all’idea smithiana di un ipotetico terzo (o a una sorta di “posizione originaria” rawlsiana dietro un velo d’ignoranza, cosa che in qualche misura implicherebbe il riconoscimento che esiste una posizione terza e che essa è “giusta”), essa è una posizione da spettatore non-imparziale, cioè “determinata” dall’etnocentrismo critico. Il pun- to d’osservazione non si compenetra con il punto di osservazione dell’“altro”, ma rimane il proprio, e non c’è compassione per l’“altro” lontanissimo se essa

24 Non posso qui che rimandare, ancora una volta, al mio Diritti umani e relativismo, cit.,

pp. 70-74, dove mi occupo, nel paragrafo Lontano dagli occhi, lontano dal cuore?, del tema in questione.

significa essere dimentichi di sé. Ciò che accade è che l’esperienza dell’“altro” viene filtrata attraverso la propria.

Dunque, da un lato, la simpatia per la lotta intrapresa dai soggetti (anche col- lettivi, laddove l’adesione a essi risponde allo stesso criterio di libertà e di ri- spetto dell’autonomia individuale) “non occidentali” che utilizzano – declinan- dolo in modo proprio, ovvero transculturandolo – lo strumentario messo a di- sposizione dal discorso sui diritti umani; dall’altro, il monito del relativismo contro la pretesa di stabilire ciò che è “bene” per gli altri.

A quest’ultimo proposito mi pare significativo ricordare che “raddrizzare i torti” era il compito del cavaliere mancego Don Chisciotte, il quale si era messo in testa di riparare alle offese subite da coloro che la sua percezione distorta del- la realtà gli faceva intendere fossero poveri derelitti. E così, quando si vide una processione avanzare verso di lui e il suo fido scudiero, caricò lancia in resta e sbaragliò la masnada di manigoldi che in realtà era un’indifesa combriccola. Ne lasciò uno malconcio a terra, e avvicinatosi gli disse:

Voglio che sappia vostra reverenza che sono un cavaliere della Mancia, chiamato don Chisciotte, ed è mia professione e mio compito andare per il mondo raddrizzan- do torti e riparando offese. “Non so in che cosa consista il raddrizzare torti – disse il baccelliere –, perché a me da diritto mi ha fatto diventare storto, lasciandomi una gamba spezzata che non si vedrà più diritta per tutti i giorni della sua vita; e l’offesa che in me avete riparato è stata quella di lasciarmi offeso in modo che resterò offeso per sempre; è stata una non piccola sventura quella di imbattersi in voi che andate cercando avventure” 25.

Stesso destino del baccelliere avrebbe avuto il giovanissimo contadino An- drea, in cui Don Chisciotte si imbatté mentre il padrone di quello lo stava fru- stando a dovere. Il “Cavaliere dalla Trista Figura” crede di sottrarre Andrea alla furia del suo padrone che, legatolo a un albero, lo frustava a sangue e non inten- deva pagarlo. Il Mancego intervenne intimando al padrone di smettere di pic- chiare quel giovane legato all’albero, ma appena ottenuto lo scopo, senza preoc- cuparsi di ciò che era accaduto prima e di ciò che sarebbe accaduto dopo (di- remmo il “contesto”), si dilegua. Una volta andato via Don Chischiotte, raccon- ta il ragazzo, il contadino “tornò a legarmi alla quercia e mi diede tante altre frustate che restai come un san Bartolomeo scorticato” 26.

Ecco, la tragicità delle esperienze irachena e afghana, solo per citarne un paio, con le loro scie di morti civili e di collateral damages e la comminazione collettiva di una pena di morte irrispettosa non solo del diritto alla vita ma del

25

M. DE CERVANTES, Don Chisciotte della Mancia, vol. I, Einaudi, Torino, 1957 (1994; 2005), p. 179.

principio cardine del diritto penale (nullum crimen, nulla poena sine lege), tra- ducono in amara realtà la farsa di Cervantes e le buffonerie di Don Chisciotte.

I diritti umani hanno senso solo se mettono in discussione le ipocrisie e le chiusure che ne hanno caratterizzato l’origine, e se mettono in crisi la pretesa fon- dazionalista e fondamentalista di essere universali senza essere discussi o sotto- posti a deliberazione e consenso. Ciò è possibile isolando – o piuttosto mettendo in questione, criticando – l’origine di un fenomeno (i diritti umani) dal suo svi- luppo e dalla sua diffusione, e così evitando di cadere in un’aporia, in una gene-

tic fallacy, che rischia – con pericolose virate reazionarie che fanno il gioco dei

nemici dei diritti e delle libertà – di buttare via il bambino con l’acqua sporca. È chiaro che la retorica che accompagna il rapporto tra “Occidente” e diritti umani è piena di ipocrisie, di ricostruzioni ideologiche in cui il bene sta da una parte e il male da un’altra parte; eppure l’ideologia è una costruzione della realtà, e il discorso sui diritti umani, se pure non corrisponde a “come i fatti sono andati” nel corso della modernità, ha un valore performativo, politico. In altri termini, pur riconoscendo tutte le nefandezze dell’“Occidente” (la Conquista delle Ame- riche, il colonialismo, lo schiavismo, le guerre, l’evangelizzazione forzata, lo sfruttamento e tutte le altre voci del catalogo dell’orrore), si può sostenere che i diritti umani hanno una valenza politica, contribuiscono a elaborare un’immagi- ne del mondo, un dover essere, un modello a cui tendere e una lente attraverso cui guardare e valutare la realtà.

È in questo contesto che occorre inserire una riflessione sul fatto che i feno- meni umani, persino laddove caratterizzati da dominio e violenza, non sono mai un monologo di una cultura sull’altra, di un gruppo contro l’altro, ma sono scambi e negoziazioni, in un continuo gioco, una danza dello specchio che con- tinuamente rimanda le immagini, le riflette anche distorcendole. Se questa lettu- ra tiene, allora i diritti umani sono performativi e svolgono una funzione politica nella misura in cui – pur ammettendone (più per convenzione che per convin- zione) l’origine occidentale – essi possono essere transculturati dai soggetti non occidentali intenzionati a usarli come strumenti di lotta all’oppressione. Una cassetta degli attrezzi utile a questo scopo, ecco cosa sono i diritti umani. Essi possono essere presi e trasformati, adattati, e anche rivoltati contro coloro che li hanno “inventati”.

Di recente l’Italia ha assistito a un esempio di ciò che ho chiamato “transcul- turazione dei diritti”: a Colonia, paesino del bresciano, l’amministrazione aveva negato a un gruppo di islamici di riunirsi e pregare; per tutta risposta quegli immigrati islamici hanno impugnato la Costituzione italiana (uno “strumento”

nostro) e lo hanno puntato contro gli imprenditori della pura identità “padana”,

con il risultato di transculturare un diritto – quello alla libertà di culto – che pro- babilmente non fa parte del corredo filosofico, politico, giuridico e religioso di chi non è passato – pur con tutti i fallimenti e le insufficienze che conosciamo –

attraverso le guerre di religione e l’elaborazione del concetto di tolleranza e di laicità.

E dunque lo scenario che si profila può essere così tratteggiato: da un lato, l’etnocentrismo critico – l’idea che è difficile uscire da se stessi così come an- che gli altri non possono uscire da loro stessi (e ciò rende questo etnocentrismo “critico” diverso dalla presunzione di superiorità presente nel discorso di un Rorty) –, dall’altro, la transculturazione dei diritti; da un lato, la consapevolezza critica del proprio essere situati 27, dall’altro, l’apertura alla possibilità che i di-

ritti umani diventino strumenti di affermazione dell’autonomia individuale per soggetti che hanno sofferto della sua deprivazione e che possono usare questi strumenti come “armi”. Non si tratta di coppie opposizionali, ma di logiche che interagiscono.

27 Del resto il tema del consenso che qui privilegio come “fondamento” attuale e/o possi-

bile dei diritti umani cos’altro è se non un’opzione etico-politica situata? Certo, si tratta di un’opzione che sembra preferibile perché interpella l’“altro”, ma rappresenta pur sempre un’opzione che affonda le proprie radici nella riflessione filosofica “occidentale”, o meglio in una parte di essa: la “razionalità fronetica, la logica probabilistica della filosofia pratica aristotelica” contrapposte al ragionamento apodittico dei “diritti assoluti e inderogabili” (L. BACCELLI, I diritti dei popoli, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 47; ma va del resto rilevato che anche il ragionamento apodittico è situato: nel caso specifico Baccelli si riferisce alle inter- pretazioni di Vitoria). Così come il tema del “prendere la parola” (e dunque l’autonomia, il consenso – e il dissenso) come essenza democratica di contro all’idea che la virtù democrati- ca per eccellenza sia la decisione.

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