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Diritti umani, universalismo e differenze culturali di L UCA B ACCELL

4. I dubbi sull’universalismo

Le tesi sulla fondazione universale dei diritti e sulla liceità della guerra come strumento per tutelarli, elaborate ai tempi della conquista, si ripropongono così nell’epoca contemporanea. Ma queste tesi sembrano trascurare il problema po- sto da Las Casas e riproposto da una serie interminabile di teorici e intellettuali, oltre che da importanti movimenti politici e culturali: l’universalismo dei fon- damenti è fondato? Esistono principi assoluti, validi in ogni tempo ed ogni luo- go, riconosciuti in ogni epoca, da ogni individuo e in ogni contesto culturale?

Qualche esempio: Michel de Montaigne già nel XVI secolo evidenziò che la mutazione della concezione morale e giuridica varia in base al contesto storico o culturale vigente: “Ognuno chiama barbarie quello che non è nei nostri co- stumi”. Olympe de Gouges con la Dichiarazione dei diritti della donna e della

cittadina (1791) ha dimostrato che il soggetto dei diritti della Dichiarazione del

1789 è tutt’altro che asessuato. E sempre nel 1791 la rivoluzione degli schiavi di Haiti guidata da Toussaint-Louverture ha evidenziato come il soggetto dei diritti “dell’uomo” sia in realtà l’uomo bianco. Durante la redazione – da parte di un piccolo gruppo di giuristi, quasi tutti di ascendenza cristiana e di forma- zione occidentale presieduti dalla vedova del presidente Roosevelt – della Di-

chiarazione universale del 1948, l’American Anthropological Association ave-

va segnalato il rischio che finisse per imporre standard e principi tipici delle esperienze culturali europee e nordamericane. Nel dibattito antropologico suc- cessivo il relativismo culturale è stato sottoposto a critiche. Ma la teoria degli “universali culturali” è esposta al rischio di finire per individuare categorie estre- mamente generiche, di contenuto tanto esile da essere inservibili per fondare si- gnificativi principi, valori e diritti. Scrive l’antropologo Clifford Geertz:

che dappertutto la gente si accoppi e generi figli, abbia un certo senso della proprie- tà, si protegga dalla pioggia e dal sole in un modo o in un altro, non sono idee false né, da un certo punto di vista, poco importanti, ma ci aiutano poco a tracciare un ri-

tratto dell’uomo che abbia una vera e onesta somiglianza e non sia una specie di fu- metto amorfo. […] non vi sono generalizzazioni che si possano fare circa l’uomo come tale, tranne che è un animale molto vario, o che lo studio della cultura non può in alcun modo contribuire alla scoperta di queste generalizzazioni 22.

Nel 1993, durante la preparazione della Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti umani, i paesi dell’area asiatica, con la Dichiarazione di Bangkok, hanno affermato che “sebbene i diritti umani abbiano natura universale, essi devono essere considerati nel contesto di un dinamico processo evolutivo di normazione internazionale, tenendo presente l’importanza delle particolarità nazionali e re- gionali e dei vari contesti storici, culturali e religiosi” 23.

Analogamente, molte correnti del pensiero filosofico contemporaneo, a par- tire dai “maestri del sospetto” Marx, Nietzsche e Freud e dalla svolta linguisti- ca, hanno contestato radicalmente la possibilità di un fondamento universale dei diritti. Sarebbe impossibile anche soltanto citare i principali protagonisti di un discorso filosofico che ha messo in questione la pretesa della ragione moderna di attingere una verità universale e di fondare valori universali, dal decostruzio- nismo al neopragmatismo. Se c’è una espressione-chiave della filosofia del No- vecento è “crisi dei fondamenti”, rinuncia del pensiero teoretico alle verità asso- lute e del pensiero morale ad una fondazione definitiva dei valori.

Tutto questo significa che il linguaggio dei diritti deve essere abbandonato, che i diritti umani sono nient’altro che un inganno, un’ideologia che copre e le- gittima l’oppressione delle donne, la sottomissione dei più deboli, l’imperiali- smo? Significa che sono il veicolo per imporre la presunta superiorità della cul- tura occidentale? Le considerazioni da cui siamo partiti dovrebbero suggerire una valutazione diversa. Abbiamo visto che anche in situazioni specifiche, legate a culture radicate in comunità indigene molto antiche, si utilizza il linguaggio dei diritti, in un’accezione emancipatoria. D’altra parte il tentativo di dare a questi diritti un fondamento solido, universale, valido in ogni tempo ed in ogni luogo sembra destinato al fallimento.

22 C. GEERTZ, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York, 1973 (trad. it.

parz. Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna, 1987, pp. 80-81).

23 Final Declaration of the Regional Meeting for Asia of the World Conference on Hu-

man Rights, 2 aprile 1993, http://www.unhchr.ch/html/menu5/wcbangk.htm; cfr. F. TEDESCO,

Diritti umani e relativismo, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 39-58, nonché il suo contributo a

questo stesso volume.

Posizioni analoghe sono espresse già nella Dichiarazione di Tunisi del Regional Meeting for Africa del 2-8 novembre 1992, http://daccessdds.un.org/doc/UNDOC/GEN/G92/146/80

/PDF/G9214680.pdf?OpenElement.

Cfr. anche la Dichiarazione di San José del Regional Meeting for Latin America and the Caribbean, 18-22 gennaio 1993: http://daccessdds.un.org/doc/UNDOC/GEN/G93/106/64/

Il filosofo Ernst Bloch ha sostenuto che “non esistono dei diritti innati, sono tutti acquisiti o devono venir acquisiti con la lotta” 24. Per Bloch

all’inizio una pretesa poteva essere avanzata solo dal creditore. Ma anche il lavora- tore rivendica qualcosa, esige per sé il plusvalore che produce. Pertanto il diritto soggettivo deve avere due fonti, anche se eventualmente vicine; in tal maniera, in quanto rivendicazione, facoltà giuridica, pretesa legale, diritto a qualcosa, segue an- che due cammini diversi; per dirla in breve: quello del creditore all’interno della so- cietà presente, e quello della lotta rivoluzionaria contro la società nel suo complesso. A sua volta questa duplicità è completamente assente nel diritto oggettivo […] 25.

Nella capacità di cogliere la feconda ambivalenza per cui una modalità deon- tica utilizzata per il rapporto debitore/creditore (e a vantaggio di quest’ultimo) viene ripresa dai sottomessi che si mobilitano per affermare i propri interessi e i propri bisogni, si coglie un qualcosa di essenziale nel concetto dei diritti sogget- tivi. E per Bloch la rivendicazione (Anspruch) dei diritti esprime quel “cammi- nare eretti” che simboleggia la dignità umana 26 .

Contro le impostazioni universalistiche e i fondamentalismi astratti Joaquín Herrera Flores ricordava, d’altra parte, che i diritti umani “non si possono com- prendere se non come prodotti culturali sorti in un determinato momento storico come ‘reazione’ […] agli insiemi di relazioni predominanti” 27. Vedere i diritti

umani come prodotti culturali “non suppone una negazione delle possibilità di traduzione fra culture, bensì, al contrario, implica accettare come razionale ciò che non ci è familiare dell’altro” 28 e significa concepirli “como processos que empoderen a los débiles o a los afectados por relaciones de violencia estructu-

ral” 29. L’opposto che considerare i diritti umani come un universale eterno che

è rimasto latente fino a quando la commissione di giuristi presieduta da Eleanor Roosevelt ha formulato nel 1948 la Dichiarazione universale 30. Norberto Bob-

bio ha criticato, a questo riguardo, la pretesa di individuare un “fondamento as- soluto” dei diritti umani e sostenuto che la moderna prevalenza della figura deontica del diritto soggettivo rispetto a quella del dovere rappresenta una “ri-

24 E. BLOCH, Naturrecht und menschliche Würde (1961), Suhrkamp, Frankfut am Main,

1985 (trad. it. Diritto naturale e dignità umana, Giappichelli, Torino, 2005, p. 175).

25

Ivi, p. 201.

26 Cfr. E. B

LOCH, Über Karl Marx, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1968 (trad. it. Karl

Marx, il Mulino, Bologna, 1972, in part. pp. 197-212).

27 J. H

ERRERA FLORES, Los derechos humanos como productos culturales. Crítica del

humanismo abstracto, Los libros de la catarata, Madrid, 2005, p. 98.

28 Ivi, p. 17 29 Ivi, p. 240. 30 Cfr. ivi, p. 19.

voluzione copernicana”, un “rovesciamento radicale di prospettiva”: i fenomeni politici sono valutati non più ex parte principis ma “dal basso”, ex parte popu-

li 31. Per Bobbio, la stessa origine storica dei diritti può essere ricollegata alla

rivendicazione e al conflitto: i diritti nascono dal basso, dalle rivendicazioni e dalla lotte dei movimenti sociali 32.

Insomma, una serie di filosofi e giuristi propongono una visione dei diritti come espressione della rivendicazione e del conflitto sociale. Ma cosa significa questo dal punto di vista più specifico, più “tecnico” della teoria giuridica? Nel corso del Novecento, molti giuristi hanno sostenuto la tesi della “correlatività” fra diritti e doveri (il diritto di A verso B rispetto a X è identificato con il dovere di B verso A rispetto a X) 33; e per Hans Kelsen “il diritto dell’uno esiste solo

presupponendo il dovere dell’altro” 34. Su questa base il linguaggio dei diritti è

stato ricondotto alle tre modalità deontiche fondamentali “obbligatorio”, “vieta- to”, “permesso”, a loro volta interdefinibili, fino a sostenere che i diritti “non so- no che parvenze, la cui sostanza è resa dall’imposizione (ad altri) di doveri” 35.

Ma se i diritti, in qualche modo, esprimono la prospettiva “dal basso”, rap- presentano le istanze dei sottomessi e conferiscono loro potere e libertà; se la diffusione del linguaggio dei diritti rappresenta una “rivoluzione copernicana” è possibile che siano completamente traducibili in termini di doveri? Non deve esserci un quid, una qualche eccedenza di significato dei diritti rispetto ad altre modalità deontiche? E infatti la tesi della correlatività è stata sottoposta a criti- che importanti. Per Herbert Hart il titolare di determinati diritti ha “il controllo esclusivo, più o meno estensivo, sul dovere di un’altra persona” 36. Il titolare del

diritto può così esercitare una forma di controllo sul dovere correlativo, rinun- ciando a esso o esigendolo, applicandolo o disapplicandolo 37.

31 N. B

OBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1992,pp. 54-57, 112-14.

32 Ivi, pp. VIII, XIII-XV.

33 Cfr. W.N. HOHFELD, Some Fundamental Legal Conceptions as Applied in Legal Rea-

soning. I, in “Yale Law Journal”, XXIII (1913), 1 (trad. it. Alcuni concetti giuridici fonda- mentali nella loro applicazione al ragionamento giudiziario. I, in ID., Concetti giuridici fon-

damentali, Einaudi, Torino, 1969).

34 H. K

ELSEN, La teoria generale del diritto e il materialismo storico (1931), Istituto del-

l’Enciclopedia italiana, Roma, 1979, p. 122; cfr. ID., General Theory of Law and State, Har-

vard University Press, Cambridge (Mass.), 1945 (trad. it. Teoria generale del diritto e dello

Stato, Etas Libri, Milano, 1994, pp. LII,77-88).

35 B. C

ELANO, I diritti nella jurisprudence anglosassone contemporanea. Da Hart a Raz,

in “Analisi e diritto”, Giappichelli, Torino, 2001, p. 16.

36 H.L.A. H

ART, Bentham on Legal Rights (1973), ora in C. WELLMAN (ed.), Rights and

Duties, 1, Conceptual Analyses of Rights and Duties, Routledge, New York-London, 2002,

p. 112.

Per cercare ci chiarire questo aspetto – in quella che lui stesso definisce co- me un’indagine “impressionistica” – Joel Feinberg riconnette i diritti a “the ac- tivity of claiming”, l’attività del rivendicare. Per Feinberg l’“uso caratteristico” dei diritti, “e ciò per cui sono specificamente adatti è l’essere pretesi [claimed], richiesti, affermati, rivendicati”:

Avere diritti, naturalmente, rende possibile la rivendicazione; ma è l’atto di rivendi- care che conferisce ai diritti il loro specifico significato morale. Questa caratteristica dei diritti si ricollega in qualche modo alla consueta retorica su cosa significa essere umani. Avere diritti ci rende capaci di “alzarci in piedi da uomini”, di guardare gli altri negli oc- chi e di sentirci fondamentalmente eguali a ciascun altro. Pensarsi come titolari di diritti significa sentirsi orgogliosi – legittimamente, non indebitamente –, significa avere quel minimo rispetto di se stessi che è necessario per meritarsi l’amore e la stima degli altri […] e ciò che viene definita “dignità umana” può essere semplicemente la capacità rico- noscibile di avanzare pretese [to assert claims]. Dunque, rispettare una persona, o pen- sarla come titolare della [possessed of] dignità umana semplicemente è pensarla come potenziale attore di rivendicazioni [maker of claims] 38.

Insomma: non solo la genesi dei diritti può essere vista come l’opera di pra- tiche sociali, il risultato dell’attività di rivendicazione. È il legame con questa attività a conferire ai diritti il loro significato specifico. Essere titolari di diritti significa poter guardare l’altro negli occhi senza chinare la testa, richiedere ciò di cui si è titolari, non aspettarsi un dono o implorare una graziosa concessione. È su questa base che assumere la prospettiva dei diritti significa compiere una “rivoluzione copernicana”. D’altra parte in secoli di storia del pensiero filosofi- co, giuridico, sociale, politico, antropologico la pretesa di rinvenire un fonda- mento universale di determinati diritti (“naturali”, “fondamentali” o “umani”) è stata sottoposta a critiche devastanti. Proviamo allora a tirare le fila.

Intanto, il legame genetico e concettuale dei diritti con le pratiche sociali e l’attività di rivendicazione esclude anche che si possano imporre i diritti manu

militari. I diritti nascono con una connotazione culturale, la diffusione dei diritti

umani non può prescindere da un processo, difficile e conflittuale, di apprendi- mento collettivo e dunque l’idea della “guerra per i diritti” è destituita di legit- timità: in fondo l’argomento non è molto diverso da quello con il quale Las Ca- sas sosteneva che la pratica dei sacrifici umani non si estirpa con la guerra. Ri- conoscere la connotazione storica e culturale dei diritti umani e soprattutto am- mettere l’indisponibilità di un fondamento universalistico toglie ai diritti lo sta-

tus di principio primo assoluto, di istanza superiore non discutibile. L’universa-

lizzazione dei diritti umani è, piuttosto, ciò che è in questione e che richiede

38 J. F

EINBERG, The Nature and Value of Rights, in “Journal of Value Inquiry”, 4 (1970),

un’opera difficile, paziente e responsabile di confronto e di traduzione. In que- st’ottica i diritti umani esprimono principi cui si attribuisce un valore fondamen- tale, ma che devono essere mediati e bilanciati con altri principi, a cominciare dalla tutela della pace: è insostenibile una posizione del tipo fiant iura, pereat

mundus. E il riconoscimento del legame dei diritti con l’attività di rivendicarli

esclude anche che si possano esportare i diritti sotto le ali dei bombardieri o nel- le ogive dei missili Cruise.

D’altra parte, se si può affermare che l’universalismo dei fondamenti è inso- stenibile, forse non è neppure desiderabile. L’universalismo dei fondamenti ha prodotto gravissimi effetti collaterali (o meglio: in molte situazioni è stato ela- borato anche allo scopo di “fondare” atti imperiali, espropriazioni, genocidi, op- pressioni). E l’ossessione del fondamento assoluto non favorisce, ma anzi osta- cola, il confronto interculturale. Ma quando si parla di confronto interculturale sull’universalità dei diritti umani in realtà si affrontano due questioni distinte: l’universalità del contenuto normativo espresso nel linguaggio dei diritti sogget- tivi e l’universalità della forma del diritto soggettivo, in definitiva dello stesso linguaggio dei diritti. La prima questione, relativa al contenuto, fa riferimento a una domanda di questo tipo: il contenuto P del diritto di parola dP, garantito nell’ordinamento giuridico dello Stato occidentale F e accettato nella sua cultu- ra liberaldemocratica di (assumiamo) radici ebraico-cristiane, può essere rifor- mulato nel principio sP espresso nel linguaggio normativo utilizzato nello re- pubblica islamica I e accettato nella sua cultura politica, e/o nel principio cP espresso nel linguaggio normativo utilizzato nella repubblica asiatica S e accet- tato nella sua cultura politica di radici confuciane? Affrontare tale questione presuppone che le differenze culturali vengano prese sul serio, che si consideri la propria tradizione culturale accanto alle altre, che le culture vengano viste come entità in trasformazione, dai confini aperti. E occorre riconoscere che ogni individuo partecipa ad appartenenze plurali, che gli universi culturali si trasfor- mano storicamente, e che i confini delle culture sono porosi e possono venire attraversati; questo riconoscimento apre la prospettiva di un processo di reinter- pretazione delle tradizioni culturali che può esprimersi in un atteggiamento di decostruzione e ricostruzione. Da questo punto di vista Las Casas ha indicato un sentiero da percorrere, presto interrotto.

È comunque verosimile che questo processo richieda modifiche e amplia- menti dei cataloghi tradizionali dei diritti: i contenuti non sono esattamente so- vrapponibili; se davvero si ha di mira il consenso interculturale sui diritti umani non si può imporre il pacchetto tradizionale (liberale-occidentale) di diritti ma piuttosto occorre aprirsi alla sovrapposizione e all’intreccio di diversi cataloghi, scritti in lingue differenti e a volte difficilmente traducibili, probabilmente senza che il parziale overlapping si risolva in una assoluta convergenza. E questo ri- chiede la disponibilità a rivedere il proprio catalogo ed eventualmente a modifi-

carlo e arricchirlo. Se impariamo qualcosa da una tradizione inaugurata da Las Casas è che non si impongono i contenuti culturali, non si costringono gli altri ad emanciparsi – nel momento in cui costringo un altro a liberarsi diventa as- soggettato a me – non si rimuovono convinzioni diffuse e profondamente radi- cate con la forza e con la violenza. Ma si può entrare in processi di apprendi- mento reciproco, in situazioni nelle quali i nostri punti di partenza vengono messi in discussione; è in un’ottica di questo genere che i diritti umani riman- gono una risorsa essenziale.

Il problema dell’universalizzazione del linguaggio dei diritti e della forma diritto soggettivo – nelle repubbliche I e S la cultura politica diffusa è aperta al- l’uso del linguaggio dei diritti o (forse meglio) ci sono soggetti interessati al- l’uso del linguaggio dei diritti? – pone altre questioni, ma consente di assumere un differente punto di vista. I diritti umani sono diritti, hanno quello specifico carattere tecnico-giuridico con la connotazione culturale che abbiamo richiama- to. Se il linguaggio dei diritti rimanda all’attività del claiming, all’“alzarsi in piedi”, al conflitto sociale, sembra esprimere un atteggiamento tipico della mo- dernità occidentale: le rappresentazioni delle culture giuridiche tradizionali e non occidentali insistono fin troppo sugli elementi della conciliazione, del com- promesso, della considerazione di ogni conflitto – compresi quelli giuridici – come patologia sociale.

Non si può però escludere la possibilità che sia la forma del claiming a di- mostrarsi attraente nel linguaggio dei diritti al di là dei suoi luoghi di origine. Ciò che i soggetti oppressi e discriminati all’interno delle culture “altre” ricono- scono nel linguaggio occidentale dei diritti potrebbe essere proprio la capacità di formulare rivendicazioni, di esprimerle affermando la propria dignità, “cam- minando eretti”. E non ultimo, potrebbero cogliere la possibilità di concettualiz- zare bisogni e interessi, in una forma tale da individuare tecniche giuridiche per garantirli e proteggerli. Un linguaggio che permette di formulare la rivendica- zione, un linguaggio, in senso letterale, emancipativo (ex-mancipum: liberazio- ne dalla schiavitù) è attraente per chi è sottomesso, persino se lo ha imparato dai suoi padroni e se i suoi padroni lo hanno usato per sottometterlo.

Ho cominciato questo testo con il discorso della Comandanta Esther. Con- cludo citando ancora appartenenti ai movimenti indigeni, stavolta dell’Argenti- na, l’altro estremo dell’America latina rispetto al Messico.

Soprattutto lottiamo per la dignità, la dignità come indigeni e la libertà come es- seri umani e la dignità di essere liberi 39.

39 Egidio García, pueblo qom-tob, in M.CARRASCO,P.GARCÍA REY, Derechos humanos

y ejercicio de la libertad de asociación y participación politica indígena, in CENTRO DE

ESTUDIOS LEGALES Y SOCIALES (CELS), Derechos humanos en la Argentina. Informe 2007,

Siglo XXI, Buenos Aires, 2007, p. 391.

Nella provincia di Formosa viviamo in una democrazia blindata, in cui i popoli aborigeni non possono godere della giustizia, a loro tocca solo l’ingiustizia. Tutti i nostri diritti sono consacrati nella Costituzione nazionale, in cui si riconosce che sia- mo figli delle radici di questa terra, ma ciò nonostante siamo calpestati. Non è cosa di oggi bensì dura da 512 anni di discriminazione, esclusione e violazione dei diritti dei popoli aborigeni. Non possiamo tacere e permettere di essere umiliati, oltraggiati, abusati di tutti i nostri diritti […]. Gridiamo ai quattro venti: basta impunità, basta di- scriminazione, basta minacce, basta offese ai diritti umani dei popoli aborigeni. Vo- gliamo vera giustizia e non un’ingiustizia di esclusione per noi aborigeni 40.

40 Identitad cultural y democracia: el reclamo desoído de los pueblos indígenas, in CELS,

I diritti umani alla prova del relativismo.

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