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I valori asiatici: monito all’Occidente o grimaldello teorico dell’op pressione?

1 “Il dire e il fare” Relativismo e diritti uman

2. I valori asiatici: monito all’Occidente o grimaldello teorico dell’op pressione?

In questo contesto di decostruzione, postcolonialismo, dominio e resistenza la frammentazione – non solo culturale e teorica, ma più propriamente geopoli- tica – del globo ha prodotto una nuova polarizzazione: da un lato l’atlantismo “umanitario”, dall’altro l’emersione di specificità e localismi, rivendicazioni identitarie e esaltazioni della diversità. Due opposte retoriche, due ideologie de- clinate in molti modi diversi e tutto sommato tese l’una ad affermare la centrali- tà (l’universalità) dei valori “occidentali”, l’altra a reclamare il diritto di formu- lare una propria visione, un proprio “codice” di valori. Come si può ben imma- ginare, nessuna delle due è una retorica innocente, sebbene le spiegazioni uni- fattoriali non siano mai esaustive: il tentativo di diffondere il discorso dei diritti umani non corrisponde soltanto (come vorrebbe un rozzo “realismo” politico) al tentativo di dominio degli Stati Uniti 17; la rivendicazione della propria specifi-

cità non corrisponde soltanto al tentativo di negare l’universalità dei diritti nella speranza di inibirne la portata emancipatoria.

In questa cornice si situa il dibattito sui cosiddetti “valori asiatici”. L’espres- sione (traduzione dell’inglese Asian values) si riferisce all’elaborazione di una visione del mondo alternativa a quella “occidentale” 18 da parte di alcuni teorici

e personaggi politici asiatici. In particolare, ruolo di spicco ha avuto l’ex “re- filosofo” di Singapore Lee Kuan Yew 19. Il nocciolo della dottrina dei valori

ciproca e in cui accade che di alcune nozioni introdotte dai dominanti nella cultura subalter- na i dominati si impossessino per trasformarle (transculturarle) in “armi” per la lotta all’op- pressione. È possibile ritrovare tale nozione – seppure senza alcun riferimento a Ortiz o a Pratt – ante litteram nel lavoro di Michail Bachtin sul rapporto tra cultura alta e cultura po- polare o nel lavoro di Carlo Ginzburg. Cfr. il mio Diritti umani e relativismo, cit., pp. 61-70.

17 Non sottovaluterei la componente di idealismo presente nei discorsi dei neoconservati-

ves statunitensi, alcuni dei quali hanno avviato il loro itinerario intellettuale e politico da po-

sizioni trotzkiste. Si veda l’agile antologia di J. LOBE,A.OLIVIERI (a cura di), I nuovi rivolu-

zionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, Feltrinelli, Milano, 2003.

18 Ho già messo in guarda, all’inizio di questo saggio, dall’essenzialismo in reverse: mi rife-

risco al capovolgimento di ciò che Edward W. Said ha definito “orientalismo”, attribuendo alla disciplina accademica che porta quel nome il ruolo di forza “essenzializzante” che ha prodotto l’ipostatizzazione (in chiave spesso negativa o comunque alterizzante e stereotipata) di un “Oriente” monolitico. L’“Occidentalismo” è la prospettiva teorica che essenzializza l’Occidente.

19 Naturalmente Lee non è affatto un filosofo, ma un politico che ha teorizzato, partico-

asiatici è l’idea che esistano dei valori “occidentali” a cui si contrappongono al- trettanti valori “orientali”, in una sorta di irreconciliabile opposizione binaria, peraltro talvolta icasticamente rappresentata persino mediante delle tavole com- parative di valori contrapposti. Così all’atomismo occidentale si contrappone il senso di appartenenza alla comunità dell’Oriente; al consumismo capitalista la parsimonia asiatica; alle rivendicazioni in termini di diritti la ricomposizione sociale delle controversie in nome dell’armonia sociale; al culto del tempo libe- ro l’elogio del duro lavoro; alla contrapposizione tra imprenditore e lavoratore il rispetto filiale del secondo nei confronti del primo; all’individualismo politico (i diritti come strumenti di autonomizzazione anche nei confronti delle apparte- nenze) l’idea di essere una parte del tutto, e che il bene del tutto è sovraordinato al bene del singolo; e così via.

Come si traducono tali contrapposizioni in termini di diritti umani? Esse ten- tano di dimostrare la difficoltà di conciliare la visione “etnocentrica” dei diritti umani con le società asiatiche. In particolare, i valori asiatici mettono in que- stione i due assunti della Dichiarazione universale del ’48: l’universalità e l’in- divisibilità dei diritti in essa enunciati. Se diamo per buona la tripartizione dei diritti in civili, politici e sociali, economici e culturali, e se assumiamo che se- condo la Dichiarazione l’intero “pacchetto” sta o cade a seconda che essi ven- gano considerati indivisibili o meno, ciò che Lee Kuan Yew e gli altri (il primo ministro malese Mahathir bin Mohamad, il politico giapponese Ishihara Shin- tarō) hanno sostenuto è invece che tra i diritti esiste una gerarchia, e che essi non possono essere considerati tutti allo stesso livello. Secondo i sostenitori dei valori asiatici l’obiettivo primario è il conseguimento dello sviluppo economico della nazione, anche a costo di conculcare i diritti civili e politici. Essi, peraltro, ritengono che l’Occidente, pur dichiarando l’orizzontalità tra varie categorie di diritti, prediliga quelli tipici della tradizione liberale, in particolare i diritti civili, e su tutti la proprietà.

Dunque i diritti umani non sarebbero affatto un “pacchetto” indivisibile, e neanche universale, essendo l’universalismo – sostengono i teorici dei valori asia- tici – un assunto etnocentrico, ovvero la pretesa dell’Occidente di ritenere uni- versalmente validi i diritti fondati sulla tradizione giuridica, politica, religiosa di una parte del mondo.

A tale duplice critica si aggiunge il corollario dell’inviolabilità del principio di sovranità degli Stati: sulle questioni riguardanti i diritti umani entro i confini di uno Stato è quest’ultimo il solo a poter accampare un diritto di intervento (giurisdizionale o politico). In quest’ottica, i diritti umani attengono alla dome-

stic jurisdiction, e nessuno Stato può accampare pretese né ingerirsi negli affari

interni di un altro Stato.

Quest’ultima posizione assume che il paradigma delle relazioni internaziona- li sia ancora quello emerso come “modello di Westfalia”, laddove gli unici sog-

getti del diritto internazionale pubblico sono gli Stati, e ciò anche in polemica con il riconoscimento della soggettività di diritto internazionale agli individui contenuta nella Dichiarazione.

Ho accennato rapidamente in precedenza all’origine degli Asian values. Essi ot- tengono particolare fortuna e sviluppo, in relazione ai diritti umani, all’inizio degli anni ’90 del Novecento, in concomitanza con la convocazione della seconda Con- ferenza mondiale sui diritti umani indetta dall’ONU e che ha avuto luogo a Vienna nel 1993. Proprio in occasione dei meeting regionali preparatori della Conferenza di Vienna, gli Stati asiatici enuclearono lo prospettiva degli Asian values in un do- cumento, la Bangkok Declaration, che rappresenta – in tutta la sua ambivalenza – la posizione dei critici dell’universalità e indivisibilità dei diritti umani.

In realtà già la composizione degli Stati firmatari mette in luce la difficoltà di usare l’aggettivo “asiatico” senza un certo disagio per la sua generalità: l’ete- rogeneità fra i 34 Stati è lampante. Si va dalla Siria alle Filippine, dall’Iraq alla Cina, escludendo per esempio l’Australia e la Nuova Zelanda, non invitate alla conferenza regionale di Bangkok 20.

La Bangkok Declaration, dopo aver riaffermato il proprio committment nei confronti della Dichiarazione universale del ’48, riconosce la fondatezza dell’idea che i diritti non stiano tutti su uno stesso piano orizzontale, ma che tra essi vi sia una gerarchia con al vertice i diritti economici, sociali e culturali; esprime poi l’esigenza di democratizzazione dell’ONU e di estensione del consenso attorno alle sue decisioni ma al contempo riconosce la centralità della domestic jurisdic-

tion e del principio di inviolabilità della sovranità. In un contesto così ambivalente

destano particolare interesse due prese di posizione, una con riferimento all’auto- determinazione dei popoli, l’altra alla lotta al terrorismo. Per quanto riguarda l’au- todeterminazione dei popoli (non presente nella Dichiarazione del ’48 ma nei

Patti del ’66), la Bangkok Declaration afferma la centralità di tale nozione, ma

solo per i popoli sotto dominazione coloniale o straniera; quanto alla lotta al terro- rismo, si legge che essa va distinta sia dalla legittima lotta di liberazione del popo- lo palestinese che da quella contro la dominazione coloniale o straniera.

Con riferimento agli ultimi due temi, le ONG riunite a Bangkok nello stesso periodo ebbero a rilevare che l’accento sulla dominazione straniera o coloniale come giusta causa per invocare l’autodeterminazione o per distinguere la lotta legittima contro l’oppressione da quella illegittima non era altro che un modo per tacere l’oppressione degli Stati nei confronti delle pretese autonomiste con- siderate illegittime e degne di repressione militare (il caso del Tibet, a questo riguardo, è lampante).

Tornerò in conclusione del paragrafo sulle ambiguità dei valori asiatici e sul

20 Un antropologo come James Clifford si chiederebbe se l’Australia e il Giappone siano

sospetto che alcune formulazioni siano destinate a legittimare, a fronte del rico- noscimento formale della centralità dei diritti umani, la repressione del dissenso politico e delle spinte autonomistiche. Ciò che qui si può ricordare è che proprio le 240 ONG riunite a Bangkok hanno rilevato fondamentalmente tre punti critici della Bangkok Declaration e, estensivamente, dei valori asiatici: in primo luogo, la gerarchia tra diritti umani autorizza la violazione degli uni in ragione dell’af- fermazione (del tutto dubbia) degli altri; in secondo luogo, il tipo di auto- determinazione dei popoli “ristretta” che ho menzionato serve a zittire il dissen- so interno e a riaffermare la centralità della sovranità anche in violazione dei di- ritti umani; in terzo lungo, le ONG hanno rilevato la cancellazione, nel testo della Bangkok Declaration, di ogni riferimento alla tortura, alla libertà di espressione e allo Stato di diritto.

In realtà però su un piano genericamente culturale, religioso, linguistico, mol- ti tra gli Stati firmatari della Bangkok Declaration hanno davvero poco in comu- ne. Quanto poi all’eterogeneità dei sistemi giuridici, occorre rilevare che l’Asia contiene quasi tutti i modelli rintracciabili in altre regioni del pianeta: dalla tradi- zione di common law a quella di civil law, passando per il diritto islamico (che a sua volta si dirama in mille rivoli) e per quello ebraico, per non dire delle diffe- renze negli assetti costituzionali e con riferimento ai regimi politici. A quest’ul- timo proposito, si va da un regime di socialismo “di mercato” (la Cina) a una dit- tatura militare (Myanmar), da una monarchia assoluta e da una forma di autorita- rismo “illuminato” (il Brunei e Singapore) a sistemi costituzionali di ispirazione democratica (le Filippine, la Corea del Sud e in particolare il Giappone).

Quanto poi alla traduzione dei “valori asiatici” in termini normativi, un’ana- lisi di diritto comparato riserva alcune sorprese. Se è vero che le Costituzioni e le norme dei paesi asiatici sono perlopiù restie al riconoscimento dell’universa- lità dei diritti; se più che il diritto soggettivo la figura deontica preminente è quella del dovere; se i fievoli riconoscimenti dei diritti umani vengono indeboli- ti dalla previsione di clausole di limitazione (che in molti casi non contemplano neanche la riserva di legge); se le garanzie giurisdizionali sono scarsamente at- testate; se tutto ciò è vero, è pur vero che il framework di riferimento è comun- que il costituzionalismo liberale (in una versione grandemente indebolita, e te- nendo da parte il problema dell’effettività), perfino nelle sue formulazioni clas- siche (si pensi al richiamo, contenuto nella Costituzione del Vietnam, art. 3, al diritto alla ricerca della felicità). Ciò che risalta è che il diritto positivo di molti degli Stati asiatici contiene davvero scarsi riferimenti ai principi propugnati dai sostenitori dei “valori asiatici”: “Il richiamo ai diritti collettivi è assai meno dif- fuso di quanto il dibattito sui ‘valori asiatici’ potrebbe far pensare” 21, così come

21 T. G

ROPPI, Diritti umani in Asia, in C.AMATO,G.PONZANELLI (a cura di), Global law

non vi è alcun rinvio – al contrario che nel diritto positivo di molti paesi del- l’Africa – al diritto consuetudinario o tradizionale.

Dunque per quanto la ricostruzione proposta dagli Asian values possa rite- nersi minimamente fondata su effettive caratteristiche delle società “orientali” 22

e “occidentali” (e per quanto l’atlantismo umanitario abbia usato spesso i diritti umani come mezzo per interferire negli affari interni degli Stati) è tuttavia vero che essa non restituisce affatto la complessità di aree geografiche, politiche, giu- ridiche, culturali, religiose, linguistiche così vaste e differenziate. Anzi, vi è il fondato sospetto – spesso una certezza – che gli Asian values siano stati usati come grimaldello teorico che potesse giustificare la repressione del dissenso po- litico e la lotta per i diritti di libertà contro i regimi autocratici o apertamente dittatoriali nonché contro le logiche comunitarie ritenute oppressive.

L’esaltazione dell’obiettivo dello sviluppo economico anche attraverso la negazione e la violazione dei diritti civili e politici, inoltre, non ha certo preser- vato le “tigri” asiatiche dai tracolli economico-finanziari che le hanno colpite negli anni Novanta. Paradossalmente, al contrario, gli Asian values hanno per- messo agli Stati asiatici di avvicinarsi ai modelli di ‘autoritarismo industriale’ tipici di alcune esperienze occidentali sempre più diffuse.

Così, e per concludere, pur ritenendo che gli Asian values possano rappre- sentare un salutare monito nei confronti delle tentazioni muscolari e civilizzatri- ci dell’“Occidente” – ciò che ho definito “atlantismo umanitario” – poiché ri- cordano l’eterogeneità del globo e – forse anche secondo una eterogenesi dei fini – rammentano che la sovranità non è morta e che spesso reclama il suo tri- buto, occorre dire che essi sviluppano tale eterogeneità in una chiave essenzia- lizzante che dà conto di culture monolitiche e prive di porosità, compatte e ca- ratterizzate da valori condivisi, senza tenere nella debita considerazione le enormi differenze che hanno sempre attraversato, per stare all’Asia, un conti- nente mai consapevole di vivere un synoikismòs, di condividere una casa comu- ne. Di fronte a tutto ciò, pare più che fondato il sospetto che i valori asiatici sia- no serviti da grimaldello teorico per l’oppressione, ovvero come strumento per giustificare la negazione dei diritti, in particolare i diritti attribuiti alla tradizione liberale (quelli civili e politici).

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