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Diritti umani, universalismo e differenze culturali di L UCA B ACCELL

1. Dal Chiapas al Chiapas

Nello stato del Chiapas, in Messico, l’insurrezione del 1993-94, guidata dal movimento Zapatista, ha utilizzato ampiamente il linguaggio dei diritti e portato alla ribalta la rivendicazione dei diritti indigeni. “Diritti indigeni” va inteso sia in senso oggettivo sia in senso oggettivo. Il termine “diritto” (ius, droit, derecho,

direito, Recht) può, infatti, essere utilizzato nell’accezione soggettiva (right) di

libertà, pretesa, potere, facoltà propria di un soggetto (il “diritto al lavoro”) ov- vero in quella oggettiva (law) di insieme di norme giuridiche, ordinamento (il “diritto del lavoro”). Gli indigeni rivendicano i loro diritti soggettivi di parteci- pazione politica, l’accesso ai beni vitali essenziali, i fondamentali diritti umani e, allo stesso tempo, le comunità chiedono di applicare in determinati ambiti – dal- la proprietà terriera alla gestione delle controversie nei villaggi – i loro ordina- menti, codici normativi originali ereditati da una lunga tradizione.

Questa impostazione, con tutta evidenza, mette in questione l’universalismo, considerato uno dei caratteri tipici di quei diritti soggettivi a cui attribuiamo particolare importanza, che consideriamo “fondamentali”. In particolare, nel ca- so dei “diritti umani” il termine “diritto” è usato nella prima accezione, in senso soggettivo; e tali diritti sono “umani” in quanto attribuiti all’intera umanità: tito-

lari dei diritti sono tutti i soggetti facenti parte della specie homo sapiens sa- piens (universalismo dei titolari). Ma in genere l’universalismo tende a implica-

re anche una seconda dimensione: si sostiene che i diritti sono universali nel senso che costituiscono un codice etico o giuridico universalmente riconosciuto o comunque fondato in modo tale da assumere una validità universale (univer-

salismo dei fondamenti).

dai movimenti indigeni. Alcuni diritti soggettivi – comunque molto importanti, “fondamentali” in quel contesto – sembrano acquistare connotazioni storiche e culturali. Ad esempio, le forme di proprietà fondiaria, che spesso rimandano ad un legame ancestrale dei popoli con la terra nel quale la dimensione individuale e quella collettiva si fondono, sono ben diverse da quel diritto di proprietà, inte- so come controllo esclusivo del soggetto individuale sulla cosa, che per secoli è stato considerato un diritto universale; anzi, che per molti autori (si pensi a Locke, o alle dichiarazioni rivoluzionarie della fine del XVIII secolo) costitui- sce il paradigma del diritto soggettivo. D’altra parte, la rivendicazione dei diritti indigeni si fonda su una valorizzazione delle differenze culturali e sembra pren- dere le distanze, esplicitamente o implicitamente, dall’idea di un fondamento uni- versale dei diritti.

La tensione fra universalismo e differenze culturali è emersa con molta chia- rezza nell’esperienza zapatista: uno dei fronti caldi è stata la questione dei di- ritti delle donne. Tra le caratteristiche del movimento è infatti rilevante la gran- de partecipazione delle donne indigene, che si dichiarano discriminate tre volte: in quanto donne, in quanto povere e in quanto indigene. Sia esponenti del- l’establishment messicano, sia intellettuali liberali hanno sostenuto che la ri- vendicazione dei diritti indigeni è dannosa per le donne: i diritti indigeni non sarebbero soltanto una regressione rispetto al diritto moderno, introdotto in Messico nell’epoca coloniale e poi sviluppato con l’indipendenza; sarebbero espressione di una società patriarcale caratterizzata da una dura sottomissione delle donne, dalla violenza domestica, dai matrimoni forzati, dalla poliginia; riaffermare i diritti indigeni perpetrerebbe la loro condizione di soggezione e oppressione. È una riformulazione della tesi di una nota teorica femminista nordamericana, Susan Moller Okin, espressa nel saggio Is Multiculturalism Bad

for Women?

Non è affatto chiaro, dunque, che i diritti delle minoranze siano parte della solu- zione, da un punto di vista femminista. Essi possono addirittura aggravare il proble- ma. Nel caso di una minoranza culturale più patriarcale entro una cultura maggiori- taria meno patriarcale, non si può argomentare in base al rispetto di sé o alla libertà che le donne di quella cultura hanno un chiaro interesse alla sua conservazione. An- zi, la condizione delle donne potrebbe migliorare molto se la loro cultura di nascita dovesse estinguersi, lasciando integrare i suoi membri nella cultura circostante meno sessista, o, ancor meglio, venisse incoraggiata a cambiare in modo da rafforzare l’u- guaglianza delle donne – almeno fino al grado della cultura maggioritaria 1.

1 S.M. O

KIN (with Respondents), Is Multiculturalism Bad for Women?, Princeton Uni-

versity Press, Princeton, 1999 (trad. it. Il multiculturalismo danneggia le donne?, in “SWIF. Sito Web Italiano per la Filosofia”, http://lgxserver.uniba.it/lei/filpol/okin.htm).

Ma le militanti indigene hanno più volte sostenuto che le cose non stanno così: il movimento zapatista ha offerto loro maggiori possibilità di partecipazio- ne politica nello sviluppo della democrazia indigena, favorendo l’affermazione della loro dignità di donne e, dunque, permettendo uno sviluppo e una più effi- cace tutela dei loro diritti. Il femminismo indigeno prefigura, quindi, una richie- sta di autonomia che si ricollega alle tradizioni culturali e giuridiche tipiche del- le comunità rinnovandole nella partecipazione alla vita comune; una forma di valorizzazione delle differenze – culturali e di genere – per avviare un processo – complicato, dialettico, conflittuale – di ridefinizione e trasformazione paralle- la sia della condizione femminile sia della comunità e della cultura indigena. Ma non prescindendo da esse, non facendo riferimento a principi universali. Al di fuori della partecipazione a quel processo di trasformazione di quella cultura e di quella comunità alle donne non resta spazio per fare valere i propri diritti e per migliorare la propria condizione.

Un esempio di questa impostazione è il discorso tenuto dalla comandanta Esther – una indigena tojolobal – nel 2001 di fronte al Congresso federale mes- sicano, in difesa della proposta di accordo fra governo e zapatisti elaborato dalla commissione Cocopa; nella sua visione, il riconoscimento dei diritti indigeni e della dignità della condizione indigena è un presupposto necessario per l’eman- cipazione delle donne indigene:

[…] ci dicono che la legge Cocopa causa la nostra emarginazione. È la legge at- tuale che permette che ci emarginino e ci umilino. […] Noi abbiamo lottato per cambiare questo e continueremo a farlo. Ma abbiamo bisogno che le leggi ricono- scano questa lotta, che finora non è stata riconosciuta. […] Noi oltre che donne sia- mo indigene e dunque non siamo riconosciute. Noi sappiamo quali degli usi e dei costumi sono buoni e quali sono cattivi. Cattivi sono quelli che consentono di pagare e di picchiare le donne, quelli per i quali esse si comprano e si vendono, si fanno sposare a forza senza che lo vogliano, quelli secondo cui le donne non possono par- tecipare all’assemblea né uscire di casa. Per questo chiediamo che venga approvata la legge sui diritti e la cultura indigena, una legge molto importante per noi donne indigene di tutto il Messico. Ci servirà per essere riconosciute e rispettate per quello che siamo, donne e indigene. Questo vuol dire che vogliamo che sia riconosciuto il nostro modo di vestire, di parlare, di governare, di organizzare, di pregare, di curare; la nostra forma di lavoro collettivo, il nostro modo di rispettare la terra e di concepi- re la vita, che è la natura di cui facciamo parte. In questa legge sono affermati i no- stri diritti come donne, cosicché nessuno potrà impedire la nostra partecipazione, po- trà negare la nostra dignità e integrità in qualsiasi lavoro, allo stesso modo degli uo- mini 2.

2 Discurso de la comandanta Esther ante el Congreso de la Unión, http://www.ezln.org/

Nel movimento indigeno del Chiapas le comunità cristiane e il vescovo Sa- muel Ruiz (per i Maya Jcanam, il protettore del popolo) hanno svolto un ruolo fondamentale. Un altro vescovo si è impegnato nella difesa dei diritti degli indi- geni già cinque secoli fa. Fra il 1546 e il 1547 fu infatti alla guida della diocesi del Chiapas una straordinaria figura di chierico e di militante: Bartolomé de Las Casas (1484-1566). L’opposizione dei coloni spagnoli fu durissima e il vescovo dovette tornare in Europa. Ma continuò la sua intensa battaglia come Protector

de los Indios a difesa dei nativi.

Il momento più noto della sua esperienza è probabilmente la partecipazione alla congregación che si tenne nel 1550-51 a Valladolid: uno dei tanti incontri che i sovrani spagnoli convocarono per avere indicazioni da giuristi e teologi sulla legittimità della conquista dell’America e sulle sue modalità. È significati- vo che ancora a più di cinquant’anni dalla “scoperta” di Colombo Carlo V – re di Spagna ed imperatore – avverta questa esigenza. Il motivo è semplice: la conquista è stata il più grande genocidio di cui abbiamo memoria storica (non è possibile un bilancio esatto, ma si calcolano fra i 10 e i 100 milioni di morti, la stragrande maggioranza della popolazione). In un primo momento la conquista fu considerata legittima in base al mandato di evangelizzazione, contenuto nelle bolle Inter caetera promulgate già nel 1493 da papa Alessandro VI. In seguito si preferì fare riferimento alle teorie di ascendenza aristotelica che volevano gli indigeni, in quanto barbari e pertanto difettosi di intelligenza, caratterizzati da una razionalità minore, servi per natura di chi invece, intelligente, è capo e pa- drone per natura. Su questo fondamento Ferdinando di Castiglia promulgò le

Leyes de Burgos (1512-13). In base ad esse gli indigeni, riconosciuti “sudditi

liberi della Corona”, potevano però essere obbligati al lavoro, “con moderazio- ne ed in cambio di un salario”. Veniva cioè legittimato il sistema delle enco-

miendas e dei repartimientos, introdotto già ai tempi di Cristoforo Colombo e

legalizzato nel 1503 con la Cédula de Medina, che perpetrava forme di assog- gettamento degli indigeni difficilmente distinguibili dalla schiavitù. Alle Leggi di Burgos fece seguito il Requerimiento: un documento letto agli indigeni al- l’arrivo dei conquistatori, che in poche righe compendiava la storia della sal- vezza, sosteneva che il papa, come successore di Cristo, esercitava il suo potere su tutta la terra, affermava che per mandato del papa il re di Spagna aveva giuri- sdizione sulle Indie e intimava la sottomissione.

Las Casas era arrivato in America giovanissimo ed era stato corresponsabile della conquista: aveva fatto il cappellano dei conquistadores ed era stato lui stesso encomendero. Ma nel 1513-14 si era convertito alla causa dei nativi. Una conversione in senso religioso, in senso politico e, ancor più profondamente, nel senso dell’assunzione di un modo diverso di guardare gli eventi: un punto di vi- sta che, se non è lo stesso degli indigeni, si allontana da quello dei cristiani spa- gnoli. Quando Las Casas pronuncia il suo discorso a Valladolid, lo spopolamen-

to delle isole caraibiche è pressoché completato (come è noto oggi a Cuba, Gia- maica, Portorico, Haiti e Santo Domingo non si trovano discendenti dei nativi) e la crisi demografica degli indigeni nell’America centro-meridionale ormai irre- versibile. Nel suo straordinario libretto Brevissima relazione della distruzione

delle Indie Las Casas attribuisce la devastazione a due cause principali: la diret-

ta violenza delle guerre e la servitù a cui gli uomini sono sottoposti quotidiana- mente, che ha portato alla disgregazione delle loro comunità. A Valladolid, Las Casas prende in considerazione gli argomenti posti alla base della legittimità della conquista, li riesamina sulla base di un’effettiva conoscenza degli eventi e confuta le teorie professate dai suoi contemporanei 3.

In primo luogo, si oppone alla teoria della schiavitù per natura, elaborata da Aristotele e ripresa dai teorici della conquista. Las Casas non attacca frontal- mente Aristotele: da bravo domenicano evita di delegittimare completamente le teorie del filosofo cui si era ispirato il grande teologo dell’ordine, Tommaso d’Aquino; la teoria della schiavitù naturale viene piuttosto svuotata dall’interno in modo di ridurne al minimo la possibilità di applicazione. Il termine “barba- ro”, sostiene infatti Las Casas, è perlopiù usato in accezioni improprie e acci- dentali; in senso proprio i barbari, per Las Casas, sono solo gli uomini privi di ordine politico, che vivono isolati in zone remote del mondo e sono incapaci di stabilire rapporti sociali. Sono costoro gli schiavi per natura; ma sono molto po- chi ed è impossibile che l’intera popolazione delle Indie sia composta da tali soggetti. E comunque, nelle loro forme di vita associata, di organizzazione poli- tica, di produzione, di commercio, gli indigeni dimostrano di non rientrare affat- to in questo genere di barbarie. D’altra parte, sostiene Las Casas, per diritto na- turale gli uomini sono tutti egualmente ed originariamente liberi in quanto “es- sendo tutti per natura uguali, Dio non fece nessuno servo di un altro, ma con- cesse a tutti la stessa libertà” 4; perciò al popolo non si può imporre nulla servi- tus senza il suo consenso.

In secondo luogo, Las Casas considera fallace un argomento condiviso anche dai teorici più moderati della conquista, uno di quegli argomenti che appaiono irresistibili: l’esigenza di salvare gli indigeni dai sacrifici umani rituali e di de- bellare la pratica dell’antropofagia. Da un lato, Las Casas ridimensiona il nume- ro di vittime dei sacrifici umani e, dall’altro lato, mostra la violenza e la brutali- tà della guerra. Ma soprattutto sostiene che le pratiche indigene sono sì un atto riprovevole, ma non costituiscono una giusta causa di guerra. Gli indigeni, ef-

3 Cfr, B.

DE LAS CASAS, Brevísima relación de la destrucción de las Indias (1552) (trad.

it. a cura di C. Acutis, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Mondadori, Mila- no, 1987); ID., Apologia, in ID., Obras Completas, vol. IX, ed. A. Losada, Alianza Editorial, Madrid, 1988.

4 B.

fettuando tali riti, credono, in base a convinzioni che risalgono a tempi imme- morabili, di praticare la forma più alta di culto dovuto a Dio. Gli indigeni non hanno ricevuto la rivelazione; sanno in base alla ragione naturale che esiste una divinità e che si deve rendere grazie ad essa; ma nessuno ha detto loro che que- sto deve avvenire mediante la preghiera o ha parlato loro dell’Eucarestia. Non solo: coloro che essi ritengono i più autorevoli e i più saggi insistono nel dire che i sacrifici umani sono il modo in cui si deve rendere onore alla divinità. Per- tanto, appoggiandosi alla teoria aristotelica degli endoxa, Las Casas ritiene tali atti dovuti ad “errore probabile”: i sacrifici umani in quanto determinati da pra- tiche religiose derivanti da una cultura tradizionale e l’antropofagia perché non viola la legge di natura e d’altra parte non è repressa da coloro che potrebbero intervenire, ovvero i loro legittimi principi o giudici. Né è possibile convincere rapidamente gli indigeni della iniquità di atti derivanti da una lunga ed ammessa consuetudine, adducendo la ragione naturale; infatti è de iure naturali l’obbligo di rendere omaggio alla divinità e fare sacrifici, ma è de iure humano la scelta di che cosa sacrificare. Ed è comprensibile che, in assenza di divieti, si sacrifi- chi alla divinità ciò che ha più valore: la vita umana. Pertanto è improbabile che con la guerra si riesca a sradicare convinzioni profonde, legittimate dall’opinio- ne di coloro che gli indigeni considerano autorevoli e saggi. In base a tali argo- menti, Las Casas condanna tutte le guerre combattute dagli spagnoli nei con- fronti degli indigeni e, parallelamente, legittima e considera giuste le guerre che gli Indios hanno combattuto contro gli invasori:

so per scienza certa e infallibile che le guerre degli indiani contro i cristiani furono sempre giustissime, mentre nemmeno una di quelle intraprese dai cristiani contro gli indiani lo è stata. Ché anzi furono tutte diaboliche e ingiustissime, ben più di quelle mosse da qualsiasi tiranno di tutti i tempi 5.

Nella storia della teoria della guerra giusta non si trova molto frequentemen- te che titolare della giusta causa sia il nemico.

Nella sua difesa degli indigeni Las Casas li considera titolari effettivi di una serie di diritti che vanno dalla libertà politica, all’autodeterminazione, all’immu- nità dall’imposizione della religione, allo ius belli contro gli invasori: propone una forma di universalismo dei titolari consapevole delle differenze e concreta- mente aperta alla reciprocità. Ma riconosce la profonda influenza dei contesti culturali nell’interpretazione dei principi, e l’impossibilità di sradicare valori condivisi, modi di vita risalenti e costumi tradizionali attraverso la guerra. Rein- terpretando Aristotele, criticandolo attraverso il messaggio evangelico, utiliz- zando il diritto canonico e il diritto romano, Las Casas propone una visione del-

5 L

l’uguaglianza, che esclude – di fatto in ogni caso – la schiavitù e il lavoro servi- le e delegittima la guerra di conquista.

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