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Dal “diritto di essere uomo” all’arendtiano “diritto ai diritti”

Diritti umani e umanità: a partire da Jeanne Hersch di S ILVIA V IDA

6. Dal “diritto di essere uomo” all’arendtiano “diritto ai diritti”

Come abbiamo visto, l’uomo ha dei diritti perché l’attualizzazione della sua libertà responsabile può essere resa difficile, se non impossibile, da ostacoli ester- ni. I diritti umani sono perciò diritti storici, sono il frutto di un processo che ha portato alla loro formulazione, e non sono naturali. Ciò che invece è naturale, nel senso di “fondato nella natura stessa dell’essere umano”, è il fondamento dei dirit- ti, l’esigenza e l’aspirazione all’affermazione della propria capacità di libertà.

Siamo dunque di fronte a una nuova dottrina dei diritti umani? E Hersch può dirsi a pieno titolo una teorica dei diritti umani? Le risposte a entrambe le do- mande sono indubbiamente negative. Hersch sembra infatti molto più interessa- ta a riflettere sul significato di una politica che dovrebbe essere incentrata su una “nuova” visione della dignità umana, proprio quando il mondo sembra mi- nacciare a vario titolo i diritti umani permanendo in una forma di “angelismo” autocompiaciuto. Non c’è alcun bisogno di ridefinire o modificare le dottrine esistenti dei diritti, o gli assetti giuridico-politici (sotto forma di trattati, dichia- razioni, istituzioni nazionali e sovranazionali) idonei a garantirli: l’interesse di Hersch non è diretto alle questioni istituzionali. Siamo invece di fronte a una visione etica dei diritti umani, dove per “etica” non si intende pregiuridica o prepolitica, ma “che va oltre il diritto e oltre la politica”, identificando un possi- bile senso di quelle istituzioni che sono per definizione universali, ossia i diritti umani. Quello che occorre è che le strutture politiche dello Stato e dell’ordina- mento internazionale colgano il senso dell’esigenza di libertà, del suo ricono- scimento (del riconoscimento della dignità dell’uomo) e il bisogno di sviluppare la capacità di ogni uomo di essere (potenzialmente) libero. Un obiettivo che più che al presente guarderebbe a un futuro improntato al riconoscimento reciproco di uomini culturalmente e ideologicamente connotati dalla propria natura di es- seri situati, storici, concreti. Un futuro fatto di diritti che creano (progressiva- mente) lo spazio vitale entro cui la materia simbolico-esistenziale si incarna nel- la forma di azioni libere e responsabili.

Credo che questo sia l’unico modo per leggere il pensiero di Hersch sui dirit- ti senza essere sopraffatti dall’ovvia considerazione che il “diritto di essere uo- mo” non è un fondamento plausibile dei diritti dato che identifica la natura umana, che si pretende universale, con una idea di uomo specificamente esisten- zialistica, occidentale, e nient’affatto astorica. Senza essere cioè pervasi da quel senso di pericolo che proviene dalla consapevolezza (suffragata dalla storia an- che molto recente) che il mezzo più potente di violazione dei diritti umani è escludere intere categorie di persone dal dominio del concetto di “umanità”; pe- ricolo non inferiore a quello che scaturisce dal pensare che l’uomo confuciano sia lo stesso del liberalismo politico. Per non dire che è semplicemente falso che il riconoscimento simbolico che pretendiamo essere a fondamento del nostro

diritto di essere uomo sia il medesimo in ogni situazione politica concreta: che l’europeo nutrito di idee liberali o socialiste possa riconoscere l’umanità com- piuta nel collettivismo o armonismo confuciano, o che l’idea di libertà presente in una cultura politica cristiano-cattolica possa essere riconosciuta da quella che opera in una specifica tradizione islamica. E non si vede come da presupposti fattualmente falsi debbano discendere conclusioni normativamente valide.

Non credo tuttavia che Hersch sia tacciabile di una tale ingenuità. E anche se la sua indagine appare difficilmente difendibile dall’accusa di “circolarità”, quella stessa che si reputa insita in ogni indagine antropologica su presunti uni- versali umani 64, certamente non le si può muovere l’accusa di “fallacia geneti-

ca” 65.

Detto altrimenti: appoggiando la sua teoria dei diritti umani su elementi tratti dall’indagine antropologica-etnografica (l’universale etico-antropologico della capacità di libertà), Hersch non si sottrae all’impressione di aver ricavato dalla sua analisi esattamente ciò che aveva previamente introdotto nel materiale rac- colto (cioè una certa nozione esistenzialistica, anche se pretesa universale, di

umanità), ma al tempo stesso rivela, con una sensibilità tipica del teorico uni-

versalista dei diritti, che la contingenza storica e le diversità culturali sono fatti, certamente inaggirabili, ma non sono risposte al problema dei diritti – del loro significato e della loro diffusione. C’è la natura, ma c’è anche il dover essere; c’è il regno della forza, ma anche quello dell’anima.

Mi pare quindi di vedere nel suo tentativo fondazionalistico qualcosa di si- mile a ciò che un’altra allieva di Jaspers, Hannah Arendt, compie ne Le origini

del totalitarismo, in cui il fondamento dei diritti umani è identificato nel “diritto

ad avere diritti” 66 (il “diritto ai diritti”), dove la prima occorrenza di “diritto”

esprime kantianamente il riconoscimento dell’umanità in ogni persona, e la se- conda ciò da cui dipende il valore e l’efficacia del primo. È vero che da tutto questo Arendt ricava la priorità dei diritti che dipendono dall’appartenenza a una comunità politica e giuridica su quelli che derivano dal far parte, semplice- mente, della comunità umana 67; ed è altrettanto vero che, pace Locke, i diritti

64 Cfr. a questo proposito G.E.R. L

LOYD, Cognitive Variations. Reflections on the Unity

and Diversity of the Human Mind, Clarendon Press, Oxford, 2007, pp. 12-13.

65 La “fallacia genetica” è quella che si presume commettano coloro che negano l’appli-

cabilità dei diritti umani (universali) in base alla premessa che essi sono, di fatto, occidentali e storici e non transculturali e astorici. Cfr. J. DONNELLY, Human Rights and Asian Values:

A Defense of “Western” Universalism, in J.R. BAUER,D.A.BELL (eds.), The East Asian

Challenge for Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge, 1999, p. 69. Sul pun-

to si veda F. TEDESCO, Diritti umani e relativismo, cit., cap. 1.

66

H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Milano, 2009, cfr. ad es. p. 410.

67 Si vedano, a questo proposito, le osservazioni di Judith Butler inJ.B

UTLER,G.C.SPI- VAK, Che fine ha fatto lo stato-nazione?, Meltemi, Roma, 2009, p. 52 ss. Scrive H. ARENDT,

umani per Arendt non sono naturali, e, pace Kant, non sono necessitati dal- l’esercizio della razionalità consapevole di tutti gli esseri umani in quanto sog- getti liberi. Essi sono solo convenzioni, forme di riconoscimento prodotte da ac- cordi che si mostrano come i fragili artefatti della convivenza umana 68.

Tuttavia, pur riconoscendo la “solidità pragmatica” 69 della concezione di un

Burke, che insiste sul dato che l’esistenza fisica in quanto tale (il dato universa- le biologico) non conferisce alcuno status morale all’essere umano (tale cioè da garantirgli la titolarità dei diritti), e che la titolarità dei diritti dipende da forme istituzionali di riconoscimento che si possono solo radicarsi in specifiche comu- nità, Arendt non trova ragioni per fermarsi a questo dato, e non accetta che lo status morale di un soggetto dotato di diritti sia determinato esclusivamente dal- la sua appartenenza a un contesto giuridico, o da una convenzione. C’è insom- ma ancora spazio per formulare un principio universale, un imperativo etico dal quale ricavare una nuova garanzia e un nuovo rispetto della dignità umana, no- nostante sia evidente il dato di fatto “burkeano” che se un individuo perde il suo status politico non per questo si ritrova nella situazione contemplata dalle di- chiarazioni che proclamano diritti umani inalienabili e innati. Se perde i diritti di cittadinanza, non per questo si ritrova nello stato di natura.

Insomma, il dato più interessante è un altro: Arendt riconosce che la peggio- re violazione dei diritti umani non consiste nel togliere la libertà, “ma nell’e- scludere una categoria di persone dalla possibilità di combattere per la libertà, una possibilità che permane sotto la tirannide, e persino nelle disperate condi- zioni del terrore moderno, ma non nel campo di concentramento” 70. In sostanza

per Arendt, come per Hersch, non si tratta di sviluppare una nuova dottrina dei diritti umani, ma di riflettere sui problemi originati dal fallimento dei diritti, dal- la loro sistematica violazione, dalla loro incapacità di tutelare la dignità umana. Esse cercano, in altri termini, di “riformulare” i diritti umani 71, di “ri-dichiarar-

li” 72, allo scopo di sostenere l’esigenza di una nozione transtorica di dignità

Le origini del totalitarismo, cit., p. 412: “non la perdita di specifici diritti, ma la perdita di

una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto è stata la sventura che si è abbat- tuta su un numero crescente di persone. L’individuo può perdere tutti i cosiddetti diritti umani senza perdere la sua qualità essenziale di uomo, la sua dignità umana. Soltanto la per- dita di una comunità politica lo esclude dall’umanità”.

68 Si veda J.C. I

SAAC, A New Guarantee on Earth: Hannah Arendt on Human Dignity

and the Politics of Human Rights, in “American Political Science Review”, vol. LX, 1996

(1), p. 64.

69 H. A

RENDT, Le origini del totalitarismo, cit., p. 414.

70 H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, cit., p. 411. 71

Cfr. J. KRISTEVA, Strangers to Ourselves, Columbia University Press, New York, 1991, pp. 151-154, che, ovviamente, si riferisce esclusivamente alla posizione di Arendt.

72 Cfr. J. B

umana, di libertà (e di esercizio di questa libertà), che faccia piazza pulita del- l’ottimismo e dell’ingenuità che sottostanno alle idee di dignità umana tipiche delle dichiarazioni universali.

Alla luce di questa interpretazione, la posizione di Hersch ha il significato di un’invocazione alla libertà, dove la libertà non può preesistere a questa invoca- zione (e questa è una delle ragioni del fallimento dello stato di natura), ma solo esistere nel suo esercizio. La Dichiarazione può diventare l’esercizio di questa libertà, mostrando cos’è o cosa può essere. Che questo esercizio sia efficace o meno è un’altra questione.

si sta riferendo unicamente a ciò che Arendt sostiene nel cap. IX de Le origini del totalitari-

Diritti umani, universalismo e differenze culturali

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