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Significazione e vocalità.

4. Ancora su signatures e timbr

4.1 Grana vocale

Estendere i casi di eteroglossia stilistica rilevati da Bachtin al piano orale è possibile, ma un’analisi più approfondita del ruolo della voce umana rivelerà che questi modi di parlare che vengono animati non possono essere solamente una combinazione di parole. Pare un’evidenza affermare che è importante tenere in conto la voce in quanto fenomeno sonoro, ma, come osservato poco sopra a proposito della voce in semiotica e filosofia del linguaggio, è davvero molto facile cadere nella convinzione di discutere di voci quando in realtà se ne sta usando solo una tiepida metafora. La voce, lungi dall’essere un aggiunta di senso, nella prospettiva rovesciata anti-logocentrica diviene il presupposto al senso. Tale prospettiva può essere evidente prendendo il considerazione il fenomeno del canto. Come notava Barthes a proposito della pronuncia del cantante Panzera, la legatura che rende incomprensibili le parole di una melodia è un esigenza estetica, per evitare, attraverso l’articolazione di appesantire "il senso di una chiarezza parassitaria" (Barthes 1982). In quanto voce, nota Barthes, la parola rivela un "linguaggio tappezzato di pelle", in cui si fa sentire "la grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda: l'articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio" (Barthes 1973, p.127). Certo, non bisogna dimenticare che stiamo parlando di canzoni dove, al linguaggio verbale si affianca e subentra quello musicale, distrazione in cui cade anche Cavarero,

quando discute del ruolo del vocale e del femminile nel melodramma, arrivando ad affermare che nella nota romanza di Madama Butterfly "un bel dì vedremo" «la sua voce, da sola, è capace di esprimere ciò che le parole, come una sorta di apparato secondario, si limitano a puntualizzare» (Cavarero 2003, p.134).

È possibile in effetti discutere se sia più la grana vocale del soprano Butterfly o quella della meravigliosa melodia agrodolce ideata da Puccini a dare il maggior contributo alla comprensione del brano. Non è questa sede di analisi musicologiche o fonologiche, ma certo è che non è la voce da sola, e che questo insieme di grana e melodia confina il verbale ad apparato semiotico assolutamente secondario, presente quasi per un’esigenza minima di narratività. Visione estrema ma non così peregrina: i personaggi dell’opera, queste trasfigurazioni paronomastiche e parossistiche di sentimenti e passioni umane, vengono ancorati dal libretto alla loro natura di persone reali per mantenere viva la finzione scenica, grazie all’allestimento di dialoghi, non importa quanto comprensibili (insomma è opportuno fornire ai cantanti delle battute da recitare, ma dopotutto sulla qualità artistica di tali battute si eccepisce tranquillamente, anzi funzionalmente si impedisce loro di cannibalizzare tutto il resto). È anche vero che, tornando all’idea di signature sound proposta all’inizio del capitolo, possiamo anche fare a meno della grammatica musicale occidentale. Nell’esperimento di Rosemberg vi fu chi articolò poche note, forse riproducendo una vera e propria formula. Del resto, i cliché più tipici sono anche chiamati signatures: vi sono cliché signature Charlie Parker, sia che si tratti di cliché che lui stesso utilizzava, sia che si tratti di cliché presi da qualche suo tema, entrati poi a far parte del lessico dell’improvvisatore contemporeano. Ovviamente, eseguire un frammento parkeriano alla richiesta di un signature sound è una precisa dichiarazione estetica, opinabile o meno, ma indubbiamente una decisa delimitazione della propria identità. E, senza dubbio, le firme sonore alternatesi nel seminario sull’improvvisazione, gridavano all’opposto, una forte identità, massimamente, per chi poteva, in virtù dell’utilizzo idiosincratico dello strumento. Nessuna nota, nessuna articolazione insegnata a scuola (e quindi ampiamente condivisa), ma suoni personali, quasi fisiologicamente derivati dal personale rapporto con lo strumento. Ma proprio il rapporto intimo con lo strumento può rivelare se la firma che si è scelta sia autentica o artificiale. Anche in musica è possibilissimo falsificare la firma. Ma urlare nel sassofono senza essere un urlatore, cioè senza veramente possedere una maniera personale di urlare nel sassofono, è un

camuffamento smascherabile, almeno nella stessa misura in cui si può smascherare qualcuno che stia improvvisandosi poeta surrealista o glossolalico, poiché anche dall’espressione meno comprensibile può emergere sempre un agire secondo habitus a garanzia dell’autenticità della pratica. La buona disposizione, oltre ad essere il presupposto per operare e performare con il proprio corpo, è in molti casi un “diagramma” riconoscibile al di là della comprensibilità.

4.2 Il timbro

Una firma, specialmente se la si deve fare più volte al giorno, la si può fare anche tramite un timbro. E il timbro, nella terminologia musicale è proprio «la qualità del suono che, nella percezione, fonda l’individualità della fonte e la rende distinta da ogni altra». Il timbro ci consente di giudicare e distinguere due suoni aventi la stessa altezza ed intensità. Mentre però quest’ultime due grandezze sono monodimensionali, il timbro è multidimensionale: non esiste una scala lungo la quale si possono ordinare e mettere a confronto i timbri di suoni diversi (ipotesi che faceva parte invece della Klangfarbenmelodie, la melodia di timbri schonberghiana). Il timbro è quindi quella particolare qualità del suono che permette di identificare la fonte sonora: il timbro dipende dallo strumento o dalla voce che emette il suono, e non dall’intensità o dall’altezza del suono emesso. Legato all’individualità della fonte, il timbro può però apparire anche come qualità assoluta, possiamo infatti definire una voce più o meno «timbrata», indipendentemente dalla sorgente. In questo caso l’etimologia può aiutare: la parola deriva dal greco tympanon, un tipo di tamburo dotato di corde risonanti. L’italiano tamburo è quindi imparentato, così come l’inglese timbrel (tamburello). In francese lo stesso timbre sta anche per suoni percussivi come piccoli cimbali, crotali, caratterizzati da vibrazione intensa e prolungata. Timbre è anche il campanello della bicicletta o la suoneria del telefono «segnali d’avvertimento che devono essere sufficientemente presenti per adempiere al loro ruolo di messa in allerta» (Risset 2002, p.89). I suoni ben timbrati sono quindi suoni dal carattere intenso, spiccato e presente, come sottolinea Risset. Il timbro si configura sempre con uno «stare per» una presenza, attraverso una relazione di rinvio che può riferirsi alla fonte sonora oppure all’evento perturbante. Il timbro come spostamento. Non a caso tutte le definizioni ufficiali sono “in negativo”, o residuali come ad esempio quello dell’ Associazione americana di Normalizzazione, che lo individua come «attributo

della sensazione uditiva che permette all’ascoltatore di differenziare due suoni della stessa altezza e della stessa intensità, presentati in maniera simile». Il timbro è ciò che rimane quando non ci interessano l’altezza e la intensità, ma non solo: non possedendo un’unità di misura, esso è difficile da graduare se non ricorrendo a categorie sinestesiche come scuro/chiaro o spezzato/continuo. Da qui la difficoltà di trovare posto all’interno del sistema musicale. Con l’evoluzione dell’impianto teorico e la sistematizzazione della maggior parte delle componenti, il timbro rimane oggetto ineffabile. Nella notazione è praticamente assente. I musicisti hanno continuato ad interessarsene ma il sistema produttivo musicale si era ormai assestato su un certo tipo di equilibrio, e gli artefici dei timbri rimangono in realtà gli stessi artigiani che producono gli strumenti35.

4.3 A me gli orecchi

Con la modernità il timbro è diventato una dimensione teoricamente misurabile, anche se non ancora maneggiabile con gli strumenti del senso comune. Con l’esame delle rappresentazioni grafiche degli eventi sonori si arrivò a stabilire che i suoni musicali di una certa altezza sono periodici. E con le ricerche di Fourier, si potè stabilire che qualsiasi onda (periodica all’inizio, poi anche non periodica) può essere ricostruita sovrapponendo delle onde sinusoidali le cui frequenze sono multipli interi di quelle dell’onda fondamentale. In parole povere, il timbro di un suono dipende direttamente dal dosaggio d’ampiezza di queste armoniche, ovvero quello che viene chiamato spettro. Non è questa l’unica dimensione coinvolta (il timbro percepito è influenzato anche dal modo in cui il suono si evolve nel corso del tempo36), ma

35 Almeno fino alla rivoluzione Schaefferiana. O, per essere più precisi, è con la fine del

XIX secolo, con l’invenzione del fonografo (1877 e 76) e del telefono, che si sconvolgono i nostri rapporti con il suono. La possibilità di separare il suono dalla sua sorgente viene sfruttata in musica in diversi modi, con la musica concreta e la musica elettronica (1948, 1950). Da questo momento il timbro non corrisponde più al “certificato di nascita” del suono, ma un campo d’azione diretto per il musicista.

36 Basta invertire la registrazione di un suono (che non modifica la composizione

spettrale) per rendersi conto che il timbro cambia di parecchio, questo perché i transitori, ossia i periodi di attacco e di estinzione del suono, giocano un ruolo fondamentale. La soppressione dell’attacco può rendere certi suoni irriconoscibili.

la derivazione spettrale della qualità dei timbri permette ora delle misurazioni più precise. Il problema rimane, però, nella misura in cui l’orecchio, basandosi sui parametri spettro-temporali in ingresso, elegge alcuni dettagli a livello di pertinenza secondo un comportamento imprevedibile. Non è mai possibile trovare un unico tratto fisico che riconduca all’unicità del timbro. Sulla scorta di questa constatazione, esperimenti mirati hanno mostrato che nel riconoscimento e nella memorizzazione del suono il ruolo fondamentale lo giocano appunto le irregolarità. Sulla scorta della prospettiva “ecologica” di J.J.Gibson, è possibile pensare all’evoluzione dell’orecchio come adattamento ai segnali fisici per trarre il massimo grado di informazione relativo all’ambiente, informazione essenziale per la sopravvivenza. Nell’era storica dell’evoluzione dell’orecchio umano tutti i suoni o quasi erano di origine meccanica, e così, più che sviluppare sistemi di rilevazione dell’intensità o dello spettro di frequenza, esso ha sviluppato un meccanismo di indagine per scovare il modo di produzione fisica all’origine del suono. L’orecchio quindi è sempre alla caccia di irregolarità, di idiosincrasie del suono che lo aiutino a risalire alla sua origine: raschiare dell’archetto sulla corda, glissando del trombone a tiro, “fischio” delle corde di chitarra a lungo compresse, o per dirla più tecnicamente: comportamento erratico della frequenze dell’attacco del suono del violino (ciò che suggerisce il raschiare dell’archetto), scivolamento di frequenza dell’attacco del suono del trombone a tiro, componenti sovracuto dell’attacco del suono di chitarra. Una volta assimilata la sorgente, l’orecchio opera anche un’indagine per rinforzare l’impressione di costanza del timbro lungo tutta la tessitura di uno strumento.

Con le irregolarità, le sfregature e glissandi, indizi di gesto meccanico torniamo coerentemente a Barthes, alla sua nozione grana vocale, che pare proprio una ruvidità superficiale, o semmai una compattezza compressa, non liscia. Sorprendentemente, in Barthes, un concetto che pare così bene aderire alla percezione idiosincratica dell’orecchio, serve all’autore per tratteggiare, al termine dell’argomentazione, la vocalità impersonale del basso russo («tutti i cantori russi hanno grosso modo la stessa voce», 1982, trad. it. p. 259), che dovrebbe trascendere l’individualità del singolo cantante per rappresentare «il Padre» nella sua «statura fallica» (ivi, p.260). Ma al di là dell’argomentazione psicanalitica, plausibile ma pretestuosa nell’utilizzo della grana sonora come punto di partenza, il corpo chiamato in causa dal vocale (e dal timbrico) è lungi dall’essere impersonale. Potrà essere anonimo, ovvero non legato a biografia

aneddotica (non deduco lo stato civile dalla voce), ma è distinguibile nella sua unicità.

«Nelle Kreisleriana di Schumann, non sento in verità nessuna nota, nessun tema, nessun disegno, nessuna grammatica, nessun senso, nulla che permetta di ricostituire una struttura intelligibile dell’opera. No, ciò che sento, sono dei colpi: sento ciò che batte nel corpo, ciò che batte il corpo, o meglio: quel corpo che batte» (ivi, p.287). L’argomentazione di Barthes, pur volta a quel corpo anonimo pericolosamente tendente all’indifferito, addita a quel senso prima di una struttura intelligibile, segno che la libertà con cui gli esseri umani combinano parole e suoni, pur comprovandola, non è un indice sufficiente dell'unicità di chi parla. La voce di chi parla è invece sempre diversa da tutte le altre voci, anche se le parole pronunciate fossero sempre le stesse, come avviene appunto nel caso di una canzone. Come dice Violi «l’enunciazione vocalizzata dell’io semiotico passa in primo luogo attraverso la voce che ne costituisce la marca specifica e il punto di referenza e di individualizzazione» (Violi 2006, p.7). Significante corporeo, la voce si pone sul piano dei significati in quanto operatore di una mediazione semiotica. Essa significa se stessa e costituisce la presenza di un soggetto, non rimandando a un referente né alla presenza di un oggetto assente bensì instaurando nella fisicità dello scambio vocalico, «l’atto della relazione» (Cavarero, 2003, p.186).