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Una buona regola: hexis, habitus, abit

Habitus e senso del possibile

2. Una buona regola: hexis, habitus, abit

2.1 Saggezza dall’esercizio

Aristotele concepiva la felicità come effetto dell’esercizio – a livello di eccellenza e per il tempo più lungo possibile – delle attività proprie dell’uomo. Il livello d’eccellenza in un’attività è per Aristotele virtù, e perciò secondo la terminologia aristotelica la felicità è attività secondo virtù. Così il flautista (Etica Nicomachea, I, 25) mira alla perfezione dell’attività che gli è propria come fine desiderabile in se stesso: suonare bene è per lui fonte di felicità24. Da

qui deriva l’interessante dottrina dell’abito virtuoso, o dell’hexis. Infatti, per

24 Anche se per Aristotele la virtù riguarda le attività dell’anima e non quelle del corpo.

Più fortunato del flautista, che esercita sostanzialmente una tecnica del corpo, è il filosofo, che esercitando la ragione nelle sue attività può accedere ai massimi livelli di virtù.

l’istruzione e l’elevazione della componente razionale dell’anima, sono richiesti in sostanza solo «esperienza e tempo», in un processo di continuo ampliamento della sapienza. Ma per l’inevitabile componente irrazionale dell’anima ciò non è sufficiente: essa deve essere temperata e addomesticata attraverso lo sviluppo di una disposizione virtuosa costante fondata sull’abitudine (ethos). Gli uomini sono dunque dotati della capacità di acquisire la virtù, tale capacità tuttavia, rimane allo stato potenziale e non perviene ad attuarsi se non in seguito al ripetuto esercizio di azioni idonee a conformare in senso virtuoso il carattere di chi le compie. Il lato morale del ripetuto esercizio è qualcosa che ritroviamo anche nella cultura jazzistica, quando leggiamo che i musicisti che hanno dedicato tempo allo sviluppo di una tecnica, vengono «ammirati» (vedi nota 3) in seguito ad una valutazione che non è semplicemente estetica, ma etica.

«Practice, practice, practice» ripetono a ogni pié sospinto e molto aristotelicamente i manuali di teoria jazz: l'idea che la virtù si radichi nella esercitata consuetudine a compiere atti virtuosi distingue la posizione aristotelica dall'intellettualismo etico della tradizione socratico-platonica, che, identificando virtù e conoscenza, fa dipendere l'acquisizione della virtù dall'insegnamento teorico. Il compito dell'educazione nella formazione della personalità virtuosa non è quindi limitato alla trasmissione di conoscenze teoriche, ma include anche l’esercizio, teso ad indurre nel giovane una propensione sempre più sicura e spontanea ad agire secondo virtù: esercizio che si sostanzia nell'imposizione di pratiche virtuose, da parte del padre, dei buoni maestri e delle leggi cittadine. Aristotele fornisce anche una divisione tra le facoltà intellettive impiegate nel perseguire le virtù: di esse la più elevata è la sapienza (sophia), volta alla conoscenza dei principi ultimi non dipendenti dall’azione dell’uomo, ma esiste anche una saggezza (phronesis) volta a ben deliberare in mezzo alle cose umane, a scegliere i giusti fini e i giusti mezzi in rapporto a noi, e in rapporto alla specifica situazione (la saggezza “sistemica” di Bateson). Benché a determinare una buona deliberazione possano concorrere anche conoscenze di carattere generale, proprie della sapienza, la conoscenza dei particolari che deriva dall'esperienza è più importante per l'agire virtuoso di quella teorico-astratta. Il giusto mezzo aristotelico non è definito in astratto, una volta per tutte, ma la sua misura è in rapporto a chi compie l'azione e in base alla valutazione delle circostanze. La disposizione costante ad agire nella maniera giusta, basata sull’esercizio e l’abitudine, fonda una forma di conoscenza insostituibile, che sa delle faccende umane, della vita pratica e

produttiva. L’abito aristotelico tornerà (sotto forma di hexis, o di habitus) in varie filosofie pratiche contemporanee, non ultima la semiotica di Charles Sanders Peirce. Esso appare prezioso perché propone una forma di conosceza (la phronesis) che, nell’ignorare i principi ultimi riservati alla sophia, sembra più adatta a descrivere il sapere a disposizione di attori impegnati nella concertazione di pratiche culturali. Non è un caso che tale concetto, opportunamente riformulato, sia centrale nella sociologia pratica di Pierre Bourdieu, dove è posto all'origine di una concatenazione di mosse che sono oggettivamente organizzate come strategie senza essere il prodotto di un'intenzione strategica (Bourdieu 1972).

2.2 Stabilizzazione e rinforzo

Da Aristotele in poi il concetto di abito rimane legato alle filosofie pratiche. Non è un caso che lo recuperi anche Peirce. Nella semiotica peirceana il significato, chiamato interpretante, e definito come effetto veicolato dal segno, è un concetto transitorio, o provvisorio. La sua instabilità è legata all’infinita “fuga” degli interpretanti: in quanto passibili di divenire essi stessi dei segni che generino altri interpretanti, essi possono essere sempre sostituiti e reintegrati25.

E se in Aristotele da una parte vi era il filosofo all’inseguimento dei principi ultimi e dall’altra il saggio amministratore di faccende umane, anche nella filosofia peirceana è prevista una stabilizzazione pratica delle credenze, che consiste nella formazione di abiti, ovvero disposizioni ad agire in un certo modo in date circostanze. «Il significato vero e proprio di un concetto intellettuale è l'interpretante logico. L'unico effetto mentale che può essere prodotto come interpretante logico ultimo (e che non è segno di nient'altro se non di un'applicazione generale) è un mutamento d'abito. S'intende con mutamento d'abito la modificazione della tendenza di una persona verso l'azione, tendenza che risulta da esperienze precedenti o da precedenti sforzi o atti di volontà, oppure da un insieme di entrambi i generi di cause» (Peirce 1980, CP 5.476). Gli abiti hanno gradi di forza, che si manifestano come un misto di prontezza all’azione, mentre il mutamento di un abito consiste spesso nell'aumento o nella diminuzione della forza di un abito precedente. Come per le disposizioni virtuose di Aristotele, la ripetizione delle azioni che producono mutamenti

25 Interpretanti che possono essere anche fisici: per Peirce l’interpretante di un

incrementa la forza dei mutamenti stessi, costituendo quindi un meccanismo di rinforzo basato sull’efficacia. Esistono per Peirce abiti che si formano senza ripetizione (come apprendere il significato di una parola straniera), simili in questo alle conoscenze che Aristotele riserva all’anima razionale, ma a volte sono necessari altri mezzi per intensificare l'abito: esso si consolida attraverso la reiterazione di un comportamento di un medesimo genere nel quadro di una medesima combinazione di percezione e pensiero. Ma essenziale per la vera e propria instaurazione di un abito è una volontà (boulesis nell’Etica Nicomachea), «genere di sforzo che può essere assimilato a un imperativo rivolto al proprio io futuro […] suppongo che gli psicologi lo chiamerebbero un atto di autosuggestione» (ibidem).

Nella frase posta ad apertura di questo capitolo Peirce vuole evidenziare però come un abito non sia mai una disposizione puramente fisica. Per l’improvvisato equilibrista «la difficoltà consiste nel fatto che gli manca un concetto unitario della serie di sforzi coordinati che l'esercizio richiede. Eseguendo le diverse fasi del movimento, e intanto osservando attentamente il tipo di sforzo richiesto in ciascuna fase, in pochi minuti egli afferrerà l'idea e sarà quindi capace di eseguire i movimenti con assoluta facilità. Ma la prova che i suoi maestri non sono stati affatto gli sforzi muscolari, bensì soltanto gli sforzi dell'immaginazione, è che, seppure egli non compie i movimenti effettivi, ma soltanto li immagina vividamente, acquisirà tuttavia la stessa abilità con quel po' di pratica aggiuntiva richiesta dalla difficoltà di immaginare tutti gli sforzi che dovranno essere fatti in un movimento che non si è effettivamente eseguito» (CP 5.479). Peirce, che qui è estremo nel portare l’esempio di un’immaginazione vivida che si sostituisce in toto all’attuazione pratica, sottolinea come la modificazione della coscienza (non solo della routine corporea) sia necessaria per la semiosi, dato che nella coscienza si colloca l’interpretante logico, ovvero il significato. L’interpretante logico finale però non è un fatto esclusivamente mentale: esso costituisce un abito che inerisce sì al nostro “mondo interno”, ma anche alle nostre relazioni con il “mondo esterno”, con le “faccende umane”. Soprattutto in tale senso il termine venne colto da Marcel Mauss, a inizio secolo. Il sociologo-antropologo lamentava l’ambiguità e l’eterogeneità di una categoria residuale dell’etnologia, la categoria “Vari”. Annotazioni come il fatto che i Polinesiani nuotino in maniera molto diversa dagli Europei, che i soldati inglesi marcino in maniera molto diversa dai francesi finivano in una categoria mista, separata dalle “Tecniche” (che presupponevano un qualche strumento), “Riti”,

eccetera. La categoria “vari”, constatava l’antropologo, era in realtà una categoria di «habitus» corporei: più che semplici abitudini, ma propriamente hexeis aristoteliche. Non abitudini metafisiche, ma abiti che variano non solo con gli individui ma anche con il variare della società, delle educazioni, delle convenienze e delle mode, del prestigio. «Bisogna scorgere la presenza delle tecniche e l’opera della ragione pratica collettiva e individuale, là dove si vedono di solito solo l’anima e le sue facoltà di ripetizione» (Mauss 1950, trad. it. p. 389). Il nodo stava nel fatto che tutte le pratiche sotto l’etichetta “vari” erano le tecniche del corpo, tecniche non per forza legate ad uno strumento, ma non per questo slegate da una cultura e da una data modalità di trasmissione. Se la cultura si manifesta come tradizione, il percorso di stabilizzazione dell’habitus avviene tramite l’efficacia26. La tecnica del corpo è un atto tradizionale efficace.

Non esiste tecnica se non c’è tradizione, non esiste stabilizzazione se non c’è efficacia. Ma «l'adattamento costante ad uno scopo fisico, meccanico, chimico (quando beviamo, per esempio), viene perseguito attraverso una serie di atti collegati non semplicemente dall'individuo, ma da tutta la sua educazione, da tutta la società di cui fa parte, nel posto che egli vi occupa» (ivi, trad. it. p. 393).

2.3 La buona pratica jazzistica: get beyond numbers

Mark Levine, nel suo famoso corso di teoria Jazz (Levine 1995), riassume pragmaticamente i problemi di incorporazione, suddividendo il sapere dell’improvvisatore in quattro grandi aree. Infatti, a pari importanza dell’aspetto sonoro (“C7alt”27 suona così e così) e teorico (“C7alt” è il settimo

modo della scala di re bemolle minore melodica), vi sono quello visivo (“C7alt” appare così e così) e quello tattile (“C7alt” si sente così - «feels like this»). Quando il grande solista pensa alla prossima nota da suonare, nota non ancora

26 A proposito del ruolo degli abiti nell’apprendimento, Mauss nota che un bambino

imita atti che hanno avuto esito positivo e che ha visto compiere da persone con cui ha confidenza e che esercitano un'autorità su di lui. In questa nozione di prestigio della persona che compie l'atto ordinato, autorizzato, sperimentato, in rapporto all'individuo che la imita, si riscontra l'elemento sociale. Nell'atto di imitazione che segue troviamo l'elemento psicologico e quello biologico.

27 Dicitura anglosassone per rappresentare un accordo. “C” sta per il nostro “Do”, “7” è

la tensione dell’accordo, in questo caso la settima di dominante e “alt” rappresenta tutte le altre alterazioni e tensioni, in questo caso, la seconda bemolle, la seconda diesis, la quinta bemolle, la sesta bemolle.

realizzata è lungi dal rappresentarsela mentalmente («devo suonare un C7, però alterato, quindi la semplice scala misolidia non va bene, allora costruisco una scala di re bemolle…»), al contrario egli ha incorporato questo ragionamento già negli anni dell’apprendistato. Nella sua maturità artistica sa come le cose devono apparire alla vista e che tipo di sensazione devono dare alle mani. Esercitandosi, un’impronta visiva delle note che si stanno suonando si proietta sugli occhi, e un’impronta tattile si deposita nelle dita, nelle mani e nella braccia. La “memoria” di un brano musicale è quindi scomposta in diverse aree, più o meno consce, secondo una logica di economia. Proprio come diceva Parker, «impara le scale - poi dimenticale», Levine conclude: «theory is about numbers, and you want to get beyond the numbers».