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Calcoli impossibili e logica formulare.

3. Irreversibilità e durata

3.2 La curva aggraziata

Tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento la stessa fisica di stampo galileiano ha qualche difficoltà. C’è il caso della termodinamica: con lo studio dei fenomeni legati alla trasmissione di calore si constata nei passaggi di stato dei corpi un intrinseco grado di disordine. Si scopre che, abbassando il livello termico di un sistema, non si riottiene la stessa quantità di lavoro impiegata per riscaldarlo, poiché una parte dell’energia termica si “degrada” e non si ritrasforma in lavoro. La termodinamica fa riaffiorare insomma una temporalità in cui ogni istante è eterogeneo rispetto al precedente e la serie non può essere invertita. Ma ovviamente il colpo più duro alla nozione stabilita di tempo viene inferto dalle teorie sulla relatività. Gli esperimenti di inizio secolo sulla velocità

41 Naturalmente vi fu chi si oppose a tale concezione, come gli empiristi, che ribadirono

il carattere psicologico della temporalità e quindi il valore di pura astrazione o finzione intellettuale del tempo fisico. Successivamente la mediazione kantiana stabilizzò temporaneamente la questione, ma il tempo era già diventato terreno di misurazione più che di riflessione.

42 «Accingendomi a cantare una canzone che mi è nota, prima dell'inizio la mia attesa si

protende verso l'intera canzone; dopo l'inizio, con i brani che vado consegnando al passato si tende anche la mia memoria. L'energia vitale dell'azione è distesa verso la memoria, per ciò che dissi, e verso l'attesa, per ciò che dirò: presente è però la mia attenzione, per la quale il futuro si traduce in passato. Via via che si compie questa azione, di tanto si abbrevia l'attesa e si prolunga la memoria, finché tutta l'attesa si esaurisce, quando l'azione è finita e passata interamente nella memoria. Ciò che avviene per la canzone intera, avviene anche per ciascuna delle sue particelle, per ciascuna delle sue sillabe, come pure per un'azione più lunga, di cui la canzone non fosse che una particella; per l'intera vita dell'uomo, di cui sono parti tutte le azioni dell'uomo; e infine per l'intera storia dei figli degli uomini, di cui sono parti tutte le vite degli uomini.» (Confessioni XI, 38; trad.it. Carlo Carena).

della luce portano alla consapevolezza della non-unicità della serie temporale, ovvero che non esiste un tempo unico e universale per tutti gli eventi fisici.

Ma prima dell’affermarsi teoria della relatività, fu Henri Bergson43 il critico

più accanito del tempo “spazializzato” della fisica, a cui oppose una concreta esperienza qualitativa e metafisica irriducibile a misure esterne. E coerentemente, il suo strumento di indagine preferito fu l'intuizione, che permetteva di indagare la vita della coscienza senza scomporla in «atomi psichici», come accade invece utilizzando la facoltà analitica dell'intelligenza. «Chiamiamo intuizione la simpatia che ci trasporta all'interno di un oggetto per coincidere con quello che esso ha di unico». Il metodo dell'intuizione si applica anche al concetto di tempo. Se da Aristotele in poi esso veniva identificato come una successione spaziale di istanti distinti, somma di un insieme qualitativamente omogeneo di quantità definite, il tempo intuito da Bergson, invece, si dà alla coscienza come un continuum all'interno del quale convivono come in un misto differenti elementi qualitativi. Si tratta quindi di cogliere due ordini di realtà temporale, l'estensione e la durata. Il tempo esteso, "tempo dell'orologio", è quello derivato dalle equazioni della fisica e della meccanica. In esse i rapporti di tempo definiscono in realtà situazioni successive nello spazio: come nell'orologio il tempo è una posizione delle lancette sul quadrante dell'orologio. Nell’altra concezione di tempo vi è invece una componente irriducibile alla successione, il tempo vissuto. Per la vita della coscienza il tempo non è un rapporto numerico quantitativo dove la natura qualitativa dei termini non presenta importanza, come avviene nelle equazioni della meccanica. Esiste quindi tutto un ordine di realtà che sfugge alla coscienza di tipo matematico poiché dura nel tempo. Ebbene, la rilevanza del problema del tempo nello studio della performance balza all’attenzione quando Bergson si concentra sul sentimento della grazia del movimento corporeo. Definita inizialmente come percezione di una certa disinvoltura e spontaneità nel movimento, essa assume una diversa profondità nel momento in cui si constata che i movimenti più aggraziati sono quelli «che si predispongono l'un l'altro», movimenti che si lasciano prevedere, ovvero in cui è possibile ravvedere, indicati e preformati negli atteggiamenti presenti, gli atteggiamenti futuri. Al contrario, se i movimenti bruschi sono privi di grazia, ciò è dovuto al fatto che ognuno di essi «basta a se stesso e non annuncia quelli che stanno per seguirlo». La linea

costitutivamente curva della grazia cambia sì direzione ad ogni istante ma questa nuova direzione è già indicata in quella che la precedeva: la dimensione in cui esiste la grazia è quella di un tempo vissuto.

Qui, la percezione di un muoversi spontaneo si fonde allora con il piacere di arrestare in qualche modo la marcia del tempo, e di tenere il futuro nel presente. Un terzo elemento interviene allora allorché i movimenti aggraziati obbediscono a un ritmo e sono accompagnati dalla musica. In tal caso il ritmo e la misura, permettendoci di prevedere ancor meglio i movimenti dell'artista, ci fanno credere di esserne i padroni. Siccome indoviniamo l'atteggiamento cha sta per assumere, quando l'assume effettivamente sembra quasi che ci stia obbedendo; la regolarità del ritmo fa sì che tra lui e noi si stabilisca una sorta di comunicazione. [...] Nel sentimento dell'aggraziato entrerà allora una specie di simpatia fisica. (Bergson 1889, trad. it. p .11)

Nella filosofia bergsoniana, nel nucleo del pensiero sugli «stati di coscienza», questa simpatia fisica va oltre la metafora: in presenza di uno più piaceri concepiti dall’intelligenza, afferma Bergson, il nostro corpo si orienta spontaneamente, come per una azione riflessa, verso uno di essi. Così, nell’immaginare un acuto cantato, e provando ad analizzare con attenzione quale sia la nostra idea di una nota più o meno alta, si finisce per pensare allo sforzo più o meno grande che il muscolo tensore delle vostre corde vocali dovrebbe fare per riprodurre a sua volta la nota. Ma al di là della componente somatica del pensiero del primo Bergson, certo interessante per una teoria delle passioni (pensiamo alle sue definizioni di collera), importante è sottolineare come per il filosofo francese il nostro sentire ritmico non abbia in realtà molto a che fare con il contare. La definizione di ritmo come «scansione temporale discreta» non deve trarre in inganno. Come si vedrà più avanti con Sartre, i suoni del sassofono ci giungono in modo successivo, ma tratteniamo ciascuna di queste sensazioni successive per organizzarla insieme alle altre in un gruppo che ricordi un'aria o un ritmo noto: e in questo caso non si contano i suoni, ma se ne raccogliere un'impressione per così dire qualitativa. Nel caso ci si proponga esplicitamente di contarli, sarà necessario allora dissociarli, e in questa dissociazione si instaura un ambito omogeneo in cui i suoni, svuotati della loro qualità, vuoti in un certo senso, lasciano tracce sempre uguali del loro passaggio (Bergson 1889, trad. it. p. 58). Impossibile, per Bergson, studiare le sensazioni

sulla base di questo conteggiare discreto. Ecco quindi il ricorso alla musica come esempio principe per illustrare la vita degli stati di coscienza. Le sensazioni si aggiungono dinamicamente le une alle altre, organizzandosi tra loro come le note di una melodia, una successione di cambiamenti qualitativi che si fondono, si penetrano, senza contorni precisi, senza alcuna tendenza a esteriorizzarsi gli uni rispetto agli altri. I suoni si compongono tra loro, e non agiscono grazie alla loro quantità come tale, ma grazie alla qualità che la loro quantità presenta, cioè all'organizzazione ritmica del loro insieme. Per valutare retrospettivamente il numero di colpi di piatto suonati dal batterista (poniamo quattro), la mia immaginazione deve battere di nuovo un colpo, poi due, poi tre, e finché non è giunta proprio al numero quattro, la sensibilità, consultata, ha risposto che l'effetto totale differiva qualitativamente (ivi, p. 79).