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3.4 «Mutua sintonia» e semiotica: appunt

Espelliamo l’idea del flusso di coscienza, davvero troppo mentalistica per essere maneggiata. Riflettiamo però su questo «noi in mutua sintonia». Esso ha avuto, comprensibilmente, molto seguito nella sociologia e nell’interazionismo simbolico statunitense, e se ne avvertono tracce anche nella visione sociosemiotica di Landowski quando si scopre che due attanti in possesso di due programmi strategici apparentemente in competizione si rivelano in realtà complementari per formare un gioco condotto da un attante duale (Landowski 1989, cfr. il capitolo precedente). Qui vorrei provare ad accostare, ancora in forma di appunto, questo schema alla problematica dell’enunciazione. L’istanza dell’enunciazione, definita come dispositivo mediatore tra lingua e discorso, nel linguaggio verbale si appoggia alle categorie della persona, dello spazio e del tempo. Per Greimas, un benché minimo débrayage (o anche una traccia residua di débrayage al netto di un movimento di débrayage ed embrayage non simmetrico) è la condizione perche si dia significazione. Le categorie grammaticali presupposte alla gestione e alla disgiunzione dall’io-qui-ora, gli shifters di Jakobson, sono veri e propri veicoli per sfuggire dall’ineffabile. Difficile riscontrare categorie simili in musica, ma il sospetto è di poter cercare all’interno del presente vivido di Schutz. Sappiamo che l’istanza dell’enunciazione proietta fuori di sé certi termini legati alla sua struttura di base. Ma un carattere processuale e orientato difficilmente non può basarsi su articolazioni discontinue come quelle della temporalità prevista dal débrayage canonico. Ecco quindi che la differenza, lo scarto, deve essere cercato nel “non ancora differito”, nell’ “appena accennato”, nell’approssimazione, ovvero in una temporalità aspettuale.45 Se la temporalità grammaticale verte su demarcazioni

(anteriorità, posteriorità), la temporalità musicale verte su aspetti orientati. È necessario constatare come il versus dell’enunciazione sia anch’esso uno shifter, pertanto il débrayage temporale non proietta un non-ora come tempo “oggettivo”, ma come tempo aspettuale. Nella categoria linguistica dell’aspetto è insita una sorta di tensione che si può associare ai movimenti proiettivi della coscienza fenomenologica. Nell’incoatività vi è tutta la protenzione di un

45 Similmente, in Eco, «processo di interpretazione del mondo che, specie nel caso di

oggetti inediti e sconosciuti (come l’ornitornico alla fine del Settecento), assume una forma “aurorale”, fatta di tentativi e di ripulse, la quale è già semiosi in atto» (Eco 1997, p. XI).

processo legato al presente vivido, nella duratività la ritenzione, nella percettività la riproduzione (o l’anticipazione). Il «noi» di Schutz pone il problema della coesecuzione, quindi della coenunciazione. Così anche Piana (1991, p.161): supponiamo che un oratore che stiamo ascoltando si interrompa bruscamente in un punto qualsiasi della frase che sta pronunciando, preso alla sprovvista da un’amnesia che gli impedisce l’accesso alla parola di cui ha bisogno. Per i suo ascoltatori il problema potrebbe non porsi, dal momento che essi hanno attentamente seguito (e coeseguito) il suo argomentare, e potranno oltrepassare il momento d’impasse ipotizzando, sulla base delle parole precedenti, un'area di altre parole possibili «o anche, addirittura, verso una parola assolutamente determinata che potrà infine essere generosamente suggerita all'oratore in imbarazzo».

4. L’indicibile è dicibile dicendolo?

Nella citazione di Bill Evans posta all’inizio del capitolo è contenuta una metafora fondamentale ma foriera di rischiose associazioni. È possibile infatti paragonare un brano musicale ad un disegno che, in luogo di essere mostrato tutt’intero e in un colpo solo, viene parzialmente scoperto diventando visibile a poco a poco. Cosicché dovremmo dire non tanto che il senso dei dettagli si va chiarendo man mano che il disegno viene messo allo scoperto, ma che un’effettiva chiarezza sulle connessioni può essere raggiunta solo quando il disegno ci appare nella sua integrità, quando dunque il brano è giunto al suo termine. La temporalità sarebbe allora veramente una circostanza accessoria che deve essere trascesa, un modo di rivelarsi della struttura, di una totalità che è in se stessa intemporale. Ma nell’arte calligrafica commentata da Evans, questa totalità rivelata in sé sarebbe deludente, ovvero semplicemente perderebbe il confronto in quanto a dettaglio, ricchezza, complessità rispetto ad un dipinto tradizionale. Ma nell’esperienza dell’’ascolto non può trovare nessun appiglio l’immagine del brano musicale come disegno che viene di passo in passo messo allo scoperto. In nessun modo possiamo affermare che, in un punto qualunque del decorso di un brano musicale, qualcosa si manifesti e qualcos’altro ci venga tenuto nascosto. In quelle formulazioni si eleva la singolare pretesa che quando il brano c’è, sia a esso inerente un’essenziale mancanza di chiarezza, mentre l’evidenza sarebbe raggiunta soltanto quando esso ha semplicemente cessato di esserci: come se solo allora il brano ci stesse realmente davanti e ogni sua parte fosse colta nella sua autentica relazione con

l’intero (cfr. Piana 1991). «Chi sa vedere» il contenuto catturato nell’arte calligrafica, così come nell’improvvisazione, rivolge la sua attenzione ad un’articolazione diversa.

Tormentato per tutta la durata del romanzo dal dilemma di esistere, il protagonista della Nausea di Sartre trova nel jazz, e più precisamente in una vecchia registrazione su disco della canzone Some of these days, uno spiraglio di salvezza, verso l’essere. Lo spiraglio è proprio quello verso un altro tempo.

Per ora suona soltanto il jazz, non v’è melodia, solo note, una miriade di piccole scosse. Non hanno sosta, un ordine inflessibile le fa nascere e le distrugge, senza mai lasciar loro l’agio di riprendersi, di esistere per se stesse. Corrono, s’inseguono passando, mi colpiscono con un urto secco, e s’annullano. Mi piacerebbe trattenerle, ma so che se arrivassi ad afferrane una, tra le dita non mi resterebbe che un suono volgare e languido. Devo accettare la loro morte; devo perfino volerla: conosco poche impressioni più aspre e più forti (p.36)

La seconda volta lo spiraglio di salvezza per Roquentin si palesa tramite una musica non di godimento, ma di dura redenzione:

Quattro note di sassofono. Vanno e vengono e sembra che dicano «Bisogna fare come noi, soffrire a tempo». Ebbene sì! Naturalmente vorrei ben soffrire a questo modo, a tempo, senza indulgenza, senza pietà per me stesso, con un’arida purezza. (p.233)

L’ottica sartriana, decadente, virata di angoscioso individualismo, non deve trarre in inganno. Non è il soffrire la chiave di lettura ma l’a tempo. Sebbene separata da decine di anni e chilometri di distanza, l’esecuzione del sassofono è un’articolazione che risuona in Roquentin, rieseguita passo dopo passo e mentre si compie. Si instaura così una dimensione temporale comune ad entrambi, che non è altro che una forma derivata del presente vivido condiviso di Schutz, di un'autentica relazione faccia a faccia (ivi, p.106). «Mai sono potuto ritornare indietro, così come un disco non può girare a rovescio», dirà il protagonista sartriano, in un momento di soddisfatta presa di coscienza del proprio essere. Il versus della prosa in realtà è reversibile, si può ritornare su quello che si è scritto. L’irreversibilità della musica apparentemente demolisce l’analisi. Ma in

fondo l’ineffabilità, lapalissianamente diventa effabile una volta che la si coenuncia, anche a distanza di tempo e di luogo, anche secondo diverse sostanze espressive, seguendo una durata reale, articolata e orientata.

9. Il Grado zero.