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2.1 Il modello “referente”

Si può allora già individuare una categoria analitica pertinente per lo studio del fenomeno: la natura del modello che l’improvvisatore usa come punto di partenza. Si è detto che nel caso della musica colta occidentale il modello è così restrittivo da rendere ogni elaborazione su di esso un’attività secondaria, poiché prima vengono le proprietà dell’opera contenute nella partitura e poi, in seconda battuta, le proprietà legate alla performance. Al contrario, nel caso di altre tradizioni musicali – ho citato il free jazz, ma tale pratica è comune nei repertori tradizionali indiani, persiani, africani – durante la performance, il musicista compie scelte più libere (e allo stesso tempo più impegnative), che rendono ogni esecuzione un evento a sé, diverso ad ogni successiva occorrenza. In questi casi le proprietà del materiale di partenza rimangono in secondo piano, mentre è la qualità della performance del musicista a valere maggiormente. Si può quindi distinguere da una parte un modello “restrittivo” (o “cogente”) e dall’altra parte un modello “aperto” (o “lasco”). Nel primo caso si parla per lo più di esecuzione, nel secondo si parla di variazione, invenzione, improvvisazione. L’attività del musicista in questo secondo caso è meno vincolata, poiché sono ammessi vari gradi di distacco dal modello, ma non per questo irresponsabile, poiché più ci si distacca dalla guida, più ci si carica sulle spalle una responsabilità. La perdita di ogni riferimento spesso vuol dire far precipitare la performance nel caos.

Come catalogare i vari tipi di modello? È possibile descrivere localmente i modelli (rapporto partitura/esecuzione nella musica colta occidentale, rapporto canone/performance nella musica popolare...), ed è un’operazione che può dare risultati interessanti (vedi ad es. Lortat-Jacob sull’improvvisazione nella musica sarda, 1984 e 1987), ma comporta il rischio di perdersi ad un livello troppo micro: i modelli sono estremamente eterogenei. Ad esempio Jeff Pressing definisce così il “referente” per l’improvvisazione:

schema formale soggiacente o immagine guida specifica per un dato brano musicale, utilizzato dall’improvvisatore per facilitare la generazione e la revisione dell’attività improvvisata […]. Il referente può consistere, ad esempio, in un tema musicale, un motivo, uno stato d’animo, un’immagine, un’emozione, una struttura nello spazio e nel tempo, uno schema visivo, un

processo fisico, una storia, una qualità, un tipo di movimento, una poesia, una situazione sociale, un animale – virtualmente qualsiasi immagine coerente che fornisca all’improvvisatore un senso di coerenza e continuità (Pressing 1984 p.346).

Il “referente” proposto da Pressing è il modello di cui abbiamo parlato finora, un materiale stabile di partenza che viene poi ripetuto, trasformato, variato e sviluppato. Anche per Pressing, una maggiore articolazione del referente comporta una maggiore cogenza, che porta alla diminuzione del tasso di improvvisazione.

2.2 Il modello “concettuale”

Il concetto di modello viene utilizzato anche dall’etnomusicologo Bruno Nettl, in un articolo seminale per quanto riguarda gli studi sull’improvvisazione (Nettl 1974). Il tentativo di Nettl è quello di riproporre un’analisi comparativa delle pratiche improvvisative per una definizione del fenomeno (che, all’epoca, era in sostanza ferma al Improvisation in der Musik di Ernst Ferand, 1928).

Il primo mito che Nettl si preoccupa di sfatare è quello della dicotomia improvvisazione/composizione come fatti opposti - l’una naturale e l’altra artificiale, l’una primitiva e l’altra sofisticata - una dicotomia che si fonda anche su una presupposta supremazia artistica occidentale. Associata a questa cognizione vi è quella che vede l’improvvisazione finire dove comincia la notazione. Ma sono sufficienti alcuni esempi tratti da altre culture per rivelare l’inconsistenza di queste assunzioni, viziate da etnocentrismo. Ad esempio, Nettl riporta che tra gli Indiani d’America vi è l’uso che gli sciamani si ritirino in periodi di meditazione per ottenere, tramite visioni mistiche, nuove canzoni per la tribù. Tali canzoni, composte di getto in condizioni “estatiche” (il referente qui sarebbe letteralmente un sogno), risultano comunque essere in linea con la tradizione, e dopo essere trascritte, vengono di solito imparate dal resto della tribù, che conserva anche i dati su chi ha composto il brano e in quali condizioni. Si potrebbe discutere a lungo se etichettare tale pratica come improvvisazione o composizione. E optando per una delle due, ci si troverebbe sempre a forzare il concetto, perché si tratta di nozioni nate attorno a pratiche diverse.

E quando anche fossero pratiche molto simili, non va dimenticato che ogni cultura opera sulla propria musica una diversa concettualizzazione. Un

musicista persiano, interrogato su diverse performance dello stesso brano dastgah in cui ha improvvisato, riferirebbe senza esitazioni di aver suonato in maniera identica. Messo a confronto con le effettive differenze esistenti nelle sue diverse performance (“qui hai suonato questa nota, qui quest’altra”), egli negherebbe significatività di tali variazioni, poiché è l’essenza del dastgah ad essere identica in tutte le esecuzioni, e ciò è sufficiente per dire di aver suonato “la stessa cosa”. Ciò che è interessante è il significato che le culture assegnano al termine che sta per “esecuzione”: se per l’occidente ciò che viene eseguito è sostanzialmente una sequenza di note, per il musicista persiano l’entità da eseguire è un’ unità teorica, ossia una serie di scale e modi armonici, detta raga. Da una parte il modello è una sonata ben numerata e identificata, dall’altra è un raga (Nettl 1974, p. 8).

Ciò ci dovrebbe portare a riflettere sul fatto che potrebbe essere più interessante considerare l’opposizione dei due termini come un continuum, ai cui estremi si situino composizione veloce (ossia composizione nel corso della performance) e composizione lenta (composizione diluita a piacere nel tempo). Gli esempi tratti dall’etnomusicologia dimostrano che le diverse culture, più che polarizzarsi attorno ad uno solo dei due fenomeni, si collocano in un punto del continuum.

Ogni cultura, sia che conferisca maggiore importanza alla composizione lenta, sia che la conferisca alla composizione veloce (l’improvvisazione), possiede un modello, definito da Nettl come l’insieme di regole di produzione degli enunciati musicali. Nel caso della composizione lenta, tale modello è più “denso”, più dettagliato nel guidare punto a punto la costruzione dell’enunciato. Nel caso della composizione veloce, esso è “poroso”, serve come punto di partenza per compiere le scelte necessarie ed è più flessibile alle esigenze dell’interprete. D’altro canto, cercando di estrarre la lista d’istruzioni fornite all’interprete dal modello, si può notare come le diverse culture abbiano diverse “densità” di obblighi. Ad esempio, nel caso dell’interpretazione di tipo occidentale, all’interprete è fornito un modello molto comprensivo, che indurrà l’interprete a eseguire versioni sempre molto simili dello stesso brano. Al contrario, nel caso dell’esecuzione di tipo orientale, il modello è più allentato, e fornisce indicazioni più generali lasciando all’interprete la facoltà di compiere alcune scelte.

Un’interessante distinzione è quella sull’udibilità del modello. Più il modello è astratto - cioè fornisce istruzioni solo su rapporti armonici o su scale - più esso

è inudibile, poiché una scala, pur potendo essere esplicitata suonandone in successione le note, rimane come unità concettuale sullo sfondo di altre scelte melodiche. Al contrario, più il modello è concreto - come ad esempio nel caso della successione armonica di uno standard jazz o di un tema da sottoporre a variazione - più esso rimane acusticamente udibile.

Nel caso della performance di musica occidentale, esiste un modello esplicitato visibile, la partitura, nel senso che si presenta come un oggetto concreto esplicitamente investito di funzioni di guida. Esso è affiancato da una grammatica implicita e invisibile, che concerne le regole per una “buona interpretazione”. Tali regole, astratte e generali, sono anche semplicemente implicate, ma non sistematizzate. Infatti, nel sistema didattico occidentale la “buona interpretazione” appare legata ad una certa aura di ineffabilità. Ad esempio si può dare il caso di un’interpretazione “corretta” (cioè rispondente alle indicazioni fornite dalla partitura), ma non “espressiva” (cioè presumibilmente manchevole di un adeguato uso delle dinamiche e dei tempi), o, viceversa, di un’interpretazione espressiva ma tecnicamente scorretta. Logicamente la buona interpretazione viene dalla compresenza dei due parametri.