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Calcoli impossibili e logica formulare.

3. L'arte del più debole

3.1 Una logica “altra”

Lo scacchista di fronte al cronometro è come il musicista di fronte alla griglia di accordi che scorre. E come negli scacchi, un computer non avrebbe problemi ad improvvisare alle più disparate velocità: gli sarebbe sufficiente applicare la sua strategia a monte. Dati gli accordi x, y e l’insieme (anche molto vasto) di variabili z, il computer dispone di tutti i presupposti per generare la melodia

improvvisata. Lo strano paradosso degli automi musicali improvvisanti, progettati dagli psicologi cognitivi e dagli ingegneri informatici si avverte già qui: l'improvvisazione concepita da un algoritmo deduttivo è già schiacciata su se stessa prima ancora di partire. È un appiattimento a-temporale, poiché è concepita, creata, vissuta (si può dire vissuta per un automa?) totalmente nello spazio. I brevi istanti che servono per calcolare un assolo alla Charlie Parker non devono trarre in inganno. Non si tratta di paragonare la velocità di pensiero di Parker rispetto a quella del calcolatore, perché le due attività sono diverse. Quella del calcolatore è letteralmente la velocità della luce. Nel momento in cui un microprocessore sufficientemente potente può abbracciare ed eseguire un intero algoritmo in un unico colpo di clock, un'improvvisazione in stile parkeriano sarebbe calcolabile in un unico istante, e da quel momento quell'assolo diverrebbe eseguibile a qualunque velocità, dall'inizio alla fine o anche, perché no, dalla fine all'inizio. Il paradosso non è solo estetico, ma logico: in tali improvvisazioni non vi è assolutamente nulla di imprevedibile, poiché tutto è già in nuce fin dall’inizio. La velocità del pensiero di Parker è qualcosa di diverso. È più lenta, e meno male: non può costitutivamente essere appiattita in un unico ideale colpo di clock. La tattica si sviluppa di mossa in mossa. Approfitta delle occasioni dalle quali dipende, vive senza una base da cui partire per espandere il proprio spazio e pianificare le sortite, non accumula i vantaggi, non tesaurizza i propri guadagni. Questa non appartenenza le permette mobilità, creatività soggetta all’alea del tempo e all’alea insita nel sistema. Infatti per cogliere al volo le possibilità che offre un istante, la tattica approfitta regolarmente, grazie a una continua vigilanza, delle falle che le contingenze particolari aprono nel sistema di riferimento (la grammatica musicale, o verbale), attraverso incursioni e azioni di sorpresa, che le consentono di agire là dove uno meno se lo aspetta. Dopo i controversi match tra Kasparov e il computer Big Blue, lo scacchista russo lamentò il fatto che i programmatori del computer avessero avuto accesso al sistema tra un match e l’altro. Essi si difesero affermando che non c’era stata nessuna irregolarità, semplicemente avevano attivato determinate opzioni del programma che potevano rispondere meglio ai tranelli di Kasparov. Il computer non era in grado di attivare da solo quelle funzioni? Adattarsi al tranello altrui: si tratta in questo caso di un atteggiamento propriamente tattico, non a caso demandato ai programmatori umani, non a caso tacciato poi di irregolarità. Il cluster di processori difettava di astuzia (la metis di Ulisse), i suoi programmatori no. Ma le astuzie spettano al

più debole per definizione, specialmente in guerra. Più una potenza si ingrandisce, meno può permettersi di mobilitare una parte dei suoi mezzi per un piano estemporaneo. De Certeau cita il classico trattato sulla guerra di Clausewitz: la strategia militare prevede di distribuire le forze senza arrischiarsi ad impiegarle nel «gioco di una mobilità ingannevole». L’astuzia muove invece in virtù della sua leggerezza e del suo non essere ancorata al territorio: è «un gioco di prestigio per mezzo di azioni, come il sofisma è un’illusione di idee» (De Certeau 1990, p.74). Attraverso procedimenti simili a quelli che Freud precisa a proposito del motto di spirito, essa combina elementi audacemente accostati per insinuare furtivamente qualcosa di diverso nel linguaggio di un luogo e per sorprendere il destinatario: sfumature, lampi, crepe e intuizioni folgoranti nelle pieghe di un sistema, che non deve per forza essere un fronte militare. Anzi, la storia testimonia il graduale (ma certo mai completo) passaggio dei meccanismi polemici dalla guerra combattuta all’azione diplomatica, ovvero da una «pragmatica della battaglia a una grammatica degli scambi cognitivi destinati a permettere una diminuzione degli scontri fisici, il cui punto d’arrivo […] è la trasformazione della polemica in senso stretto in una ricerca di equilibri di tipo contrattuale» (Landowski 1989, trad. it. p.227). Lo stratega quindi diviene «lui stesso semiologo» (ibidem), e viceversa.

Autore di un grande sistema «strategico», Aristotele già si interessava molto alle procedure di quei «nemici della verità» che erano i sofisti. Di questo avversario proteiforme, rapido, sorprendente, cita la massima di Gorgia: «rendere più forte il discorso più debole». Nella sua concisione, questa formula illumina il rapporto di forza che sta alla base di una creatività intellettuale tanto tenace quanto sottile, instancabile, mobilitata in vista di tutte le occasioni, disseminata sui terreni dell’ordine dominante, estranea alle regole che si dà e che impone la razionalità fondata sul diritto acquisito di un luogo proprio. Le figure e gli artifici della retorica: nulla di sorprendente tra le astuzie pratiche e gli artifici della retorica. In rapporto alle norme della sintassi e del senso proprio, ovvero alle definizione generale di un “proprio” distinto da ciò che non lo è, i buoni e i cattivi artifici della retorica giocano sul terreno che è stato così posto ai margini. Mentre la grammatica sorveglia la “proprietà” dei termini, gli artifici retorici (derive metaforiche, condensazioni ellittiche, miniaturizzazioni metonimiche) segnalano l’uso del linguaggio da parte dei locutori nelle situazioni particolari di conflitti linguistici rituali o effettivi. Derivano da una problematica dell’enunciazione. Dopo tutto, non sono che varianti, in una

semiotica generale delle tattiche. Indubbiamente, per elaborare questa semiotica bisognerebbe esaminare modi di pensare e agire diversi da quello che ha fondato l’articolazione di una ragione sulla delimitazione di un luogo proprio: dai sessantaquattro esagrammi dell’ I Ching cinesi o della metis greca, fino alla hila araba, altre “logiche” sono venute affermandosi (De Certeau 1990, p.76). E passando attraverso altre definizioni del concetto, cercheremo di identificare una “logica formulare” che si avvicina al comportamento tattico.

3.2 Ignoranza strategica

Anche Pierre Bourdieu, nei suoi grandi testi sulla logica pratica (Bourdieu 1972, 1977), fa riferimento alla strategia, seppure in accezione diversa e apparentemente contraria a quella di De Certeau. Egli designa come strategiche alcune condotte volte a interpretare e modulare a proprio vantaggio regole e ritualità legati ad una pratica sociale. Sia che si tratti della disposizione topografica della casa cabila, di una politica matrimoniale o di successione ereditaria, Bourdieu riscontra sempre un agire strategico volto ad aumentare il più possibile il vantaggio nella negoziazione, secondo una modalità d’azione che funziona a due livelli: quello, superficiale, delle norme e delle grammatiche culturali e quello, profondo, dell’interesse dell’attore in gioco. La strategia è l’attività di perseguire uno scopo particolare volgendo a proprio favore le regole, o infrangendole e compensando l’infrazione altrove, in sostanza senza mai corrompere la versione “ufficiale” della situazione, ciò che chiama situazione oggettivata. Per Bourdieu oggettivato è tutto ciò che è passato sotto il vaglio dello sguardo analitico ed è stato, si direbbe in semiotica, testualizzato. Planimetrie, alberi genealogici, scansioni da calendario sono produzioni oggettivate laddove il senso in esse depositato è effetto di uno sguardo a distanza neutrale e neutralizzante. Siamo di nuovo nel campo della rappresentazione panoptica, che livella e classifica laddove invece è possibile riscontrare una fervida e ininterrotta attività di organizzazione delle discontinuità. Da una parte ci sono quindi le pratiche oggettivate e dall’altra le pratiche costantemente imbevute di strategia. La strategia per ammogliare un ragazzo è l’equivalente, per Bourdieu, di «una mossa in una partita di carte». Dipende dalla «qualità del gioco» ovvero, ad un tempo, dalla distribuzione delle carte (avere buon gioco) e dal modo di giocare (essere un buon giocatore). La «mossa» mette in causa da una parte i postulati che condizionano uno spazio di gioco, dall’altra le regole che assegnano alla distribuzione un valore e al

giocatore delle possibilità, in definitiva un’abilità manovriera nelle congiunture diverse in cui il capitale iniziale viene speso.

Nelle partite sociali osservate da Bourdieu esistono sempre dei grandi principi impliciti (come ad esempio un principio di predominanza o gerarchia tra i sessi), che decidono l’andamento profondo del gioco, ma la cui assenza di definizione precisa crea ampi margini di tolleranza. Esistono anche regole esplicite (come ad esempio quelle molto complicate che soggiacciono al matrimonio con la cugina materna di primo grado), sempre però accompagnate da eccezioni o casi speciali che rendono il gioco una utilizzazione delle regole più che un adempimento delle stesse. L’utilizzazione avviene proprio attraverso la strategia, l’astuzia che permette di giocare tutte le possibilità offerte dall’ambiguità delle norme che rivestono il sistema culturale. Il piccolo numero di figli compensa un cattivo matrimonio; il mantenimento del cadetto celibe come «domestico senza stipendio» evita di dovergli pagare l’adot. La strategia non è applicare le regole, ma scegliere il repertorio delle loro operazioni. E alla base di questa disinvoltura nella trasgressione vi è un meccanismo di camuffamento e di copertura che onora il sistema. La strategia di Bourdieu è quindi una tattica nella misura in cui essa gioca nello spazio cartografato dal sistema sociale inserendosi negli interstizi del non definito. Nella sua opera di straforo la strategia-tattica di Bourdieu vive una dimensione non concettualizzata, si tratta della cosiddetta «intenzione oggettiva» insita in una pratica. La disposizione del sapere pratico non è una vera disposizione di pezzi sulla scacchiera attraverso mosse. L'habitus è all'origine della concatenazione di mosse che sono oggettivamente organizzate come strategie senza essere il prodotto di un'intenzione strategica.

Un primo scarto viene individuato da Bourdieu esaminando le condotte relative al sistema dell’onore. Per produrre le condotte d'onore che possono essere evocate dalle sfide dell'esistenza non è necessario possedere lo «schedario di rappresentazioni prefabbricate» (Jakobson 1963, p.25), ma è sufficiente detenere il principio di isotimia, secondo cui ogni uomo che si iscrive alla classe degli uomini d'onore si aspetta di ricevere una risposta coerente. La "comprensione" immediata presuppone un'operazione «inconscia» di decifrazione che è adeguata solo nel caso in cui la competenza che mette in gioco nella propria pratica costituisca una sola cosa con la competenza che mette in gioco l'altro agente decifrante. In altre parole il sistema dell’onore si basa su disposizioni ad agire (gli habitus, cfr. capitolo 5) che funzionano da

interpretazioni stabilite e stabilizzanti. Sorta di iceberg interpretativi di cui emerge solo la parte attivata dall’interazione avviata, gli habitus definiscono dei modus operandi che possono rimanere immersi in ogni stadio della catena. Ad esempio, fino a quando in una cultura il lavoro pedagogico non viene chiaramente istituito come pratica specifica e autonoma, l'essenziale del modus operandi che definisce la padronanza pratica si trasmette «nella pratica, allo stato pratico», senza accedere al livello del discorso. Ciò che è interessante in Bourdieu (e lontano dalla rappresentazioni prefabbricate di Jakobson) è che il sistema degli habitus, pur essendo basato su routine e poca o nessuna concettualizzazione, prevede in realtà un alto tasso di creatività.

«Nello stesso modo in cui alcuni afasici che hanno perso la capacità di evocare una parola la possono includere sbadatamente in una formula, così gli schemi acquisiti di pensiero e di espressione autorizzano l'invenzione senza intenzione dell'improvvisazione regolata che trova i propri punti d'appoggio in "formule belle e pronte".» (Bourdieu 1972, p.xx)

Un'arte è un complesso di modi di agire adattati a degli scopi speciali, che sono il prodotto sia di un'esperienza tradizionale trasmessa dall'educazione, sia dall'esperienza personale dell'individuo. Non si possono acquisire che mettendosi in rapporto con le cose sulle quali si deve esercitare l'azione ed operando personalmente. Senza dubbio può avvenire che l'arte sia illuminata dalla riflessione, ma la riflessione non è un elemento essenziale, perché questa arte può esistere senza di lei. Anzi non esiste una sola arte dove tutto sia riflessione (Durkheim, La sociologia e l'educazione, in Bourdieu 1977, p.250).