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1 “It's an old big band riff”

2. Un vocabolario per improvvisare

2.2 Il livello semiotico della formula

Nel momento in cui ricorre al repertorio formulare, l’improvvisatore si colloca ad un livello ibrido, dove le unità del discorso presentano una complessità superiore a quella delle note e degli intervalli, ma non arriva all’articolazione delle frasi complete.

La nota, intesa come emissione sonora vocale o strumentale dotata di frequenza stabile (es. il la centrale a 440Hz), viene spesso presa come unità minima del linguaggio musicale. Sotto certi rispetti, il paragone linguistico con l’alfabeto, può funzionare, poiché come i fonemi di una lingua, le note vengono selezionate dalla cultura segmentando un continuum acustico, allo scopo comporre un paradigma di suoni. Essi diventano le unità minime a-significanti tramite le quali costruire unità significanti di livello superiore. Ma se per le lingue naturali vi sono lettere (unità minime fonetiche) che formano parole (unità minime semantiche), in musica non esiste una vera e propria doppia articolazione, poiché non esiste un corrispondente delle parole.

Certamente le note costituiscono le unità minime della scrittura pentagrammatica, linguaggio descrittivo che assegna ad una data nota una rappresentazione grafica sullo spartito. In quanto linguaggio descrittivo esso è intrinsecamente incompleto, e in genere è l’interprete della partitura a riempire i buchi (più o meno consciamente). Ad ogni modo, se può essere vero che una nota intesa semplicemente come altezza e durata (le due dimensioni descritte dalla partitura) costituisca un’unità a-significante, è innegabile che la stessa unica nota, suonata o cantata da uno strumento (per esempio un sax), possa comunicare molto di più. Questo perché nella nota “performata”, oltre alla frequenza e alla durata corretta, l’esecutore attiva una serie di altre proprietà “soprasegmentali”, come il vibrato, l’inviluppo, l’espressione, con le quali è effettivamente possibile costruire un discorso musicale.

Come considerare queste proprietà aggiunte dall’interprete? Infatti mentre per una lingua naturale è possibile decidere di prescindere dalla performance e discutere della lingua limitandosi all’enunciato trascritto, per la musica ciò risulta molto meno plausibile, perché non esiste una musica “muta” (nonostante

ci sia chi dichiari di trarre piacere dalla lettura del pentagramma senza il bisogno dell’intervento dei musicisti). Nella definizione di “formula” ho incluso anche il termine “effetti sonori” proprio per evitare di implicare solo le note come unità minime descritte dal pentagramma. Tramite le note è difficile descrivere il linguaggio dei percussionisti e dei batteristi (è necessario un linguaggio ad hoc), o gli effetti percussivi o non intonati che anche gli altri strumenti sono in grado di produrre. Gli stessi ritmi tipici del jazz, ad esempio lo swing, pongono resistenza se costretti all’interno del sistema delle durate occidentali, a matrice binaria. E, in ultima analisi, le note non raccolgono ciò che i musicisti jazz ricercano in assoluto: il suono. Prendiamo un musicista dal timbro inconfondibile, Miles Davis, e chiediamoci cosa rimarrebbe di un suo assolo se per un momento si provasse a fare astrazione dal suo personale suono.

Ad un gradino successivo, il concetto di “intervallo” consente un diverso approccio. La maggior parte delle persone non è in grado di riconoscere, in contesto asettico, una precisa frequenza musicale, ovvero ben poche persone sono in grado di dire "questo è un la", alla stessa maniera in cui direbbero "questo è un triangolo” o “questo è un blu scuro" (l'abilità di riconoscere e nominare le note musicali si chiama "orecchio assoluto"). Al contrario quasi la totalità delle persone è sensibile ed è in grado di reagire correttamente agli intervalli musicali permessi da una data scala musicale (questa abilità si chiama "orecchio relativo"). Un intervallo è la differenza di altezza tra due suoni, e all'interno di una scala musicale esso può venire espresso in gradi della scala. Si parla di intervallo sia quando le note vengono suonate nello stesso momento (accordi) sia in successione (melodia). Noi occidentali percepiamo una differenza significativa tra un intervallo di un tono e mezzo (la-do) e un intervallo di due toni (la-do#). E se l'ascoltatore medio percepisce e reagisce correttamente a dati intervalli, ogni buon musicista è anche in grado di riconoscere e di nominare gli intervalli che sente (la-do: "una terza minore"; la- do#: "una terza maggiore", chi ha orecchio assoluto direbbe “una terza minore composta da la e do”). Vi è quindi una selezione nel materiale fonico negli intervalli musicali permessi in una data cultura. Nella nostra cultura esistono anche associazioni segniche abbastanza consolidate. Ad esempio, l'intervallo di terza minore è molto spesso associato ad un certo universo timico (disforia, melanconia, tristezza), mentre l'intervallo di terza maggiore alla timia opposta (euforia, gioia, stabilità), per cui è possibile individuare delle funzioni segniche in cui un dato intervallo si pone come figura dell'espressione di un contenuto

emotivo. Ma questo tipo di rinvio non poggia, nella nostra cultura come in tutte le altre, su basi solide. A parte alcuni particolari usi, in musica non esistono associazioni stabili come nel caso del linguaggio verbale. Una terza maggiore non rinvia sempre e nella stessa maniera a certi contenuti emotivi. Non esistono inventari come il dizionario di una lingua, dove ad ogni significante viene fatto corrispondere il significato (o significati).

Il concetto di "frase" ha il pregio di essere sufficientemente astratto da potersi applicare intuitivamente a qualsiasi genere musicale, anche se in realtà, per stabilire esattamente la pertinenza del termine, è necessario ridefinirlo in base allo stile musicale che si analizza. Nella terminologia classica in analogia con il discorso verbale si usa il termine “periodo”, che indica, secondo la Garzantina della musica, “un segmento del discorso musicale avente senso compiuto, cioè concluso da una cadenza e formato da un insieme di unità sintattiche subordinate dette frasi (in genere due: antecedente e conseguente, ciascuna di lunghezza variabile tra due e otto battute)”. È difficile applicare simili definizioni al di fuori del contesto in cui sono nate. In jazz il concetto di cadenza ha un uso e un significato diverso, né soprattutto esistono unità sintattiche simmetriche (antecedente e conseguente), per cui per “frase” al momento intenderemo qualsiasi gruppo di note isolabile dalle altre, in virtù delle cesure create dalle pause o da palesi cambi di registro.

Alla luce di queste considerazioni, l’inventariazione e la “discretizzazione” delle formule si dimostra un compito molto più semplice: esiste, costitutivamente, un paradigma, un inventario, in sostanza uno pseudo- dizionario condiviso (un oggetto quanto mai raro, in musica). Certamente le formule musicali possono mescolarsi, fondersi, morire e nascere con una facilità impensabile per le parole di una lingua, ma di una formula si possono comunque dire cose molto più specifiche che per una frase musicale. Ad esempio una formula ha una sorta di "etimologia", ovvero una provenienza linguistica più o meno certificabile. Spesso si sa chi (o quale gruppo) l'ha introdotta e in quali contesti viene in genere utilizzata, ma anche la formula oramai consunta e di attribuzione incerta può ancora risuonare di vaghi richiami dal passato.

I pattern del sassofonista Charlie Parker costituiscono un esempio della parabola di nascita, consolidamento e (in certi casi) deterioramento dell’idea originaria. Il periodo creativo di Parker si può collocare all’incirca nella seconda metà degli anni ’40. Le principali innovazioni del bebop (l’ampliamento

dell’armonia, la rivoluzione dell’approccio ritmico) sono tutte riscontrabili a fine decennio nel vocabolario personale dell’artista. La lezione del suo linguaggio si fa già sentire dai primi anni ‘50, quando l’impatto del bebop è ormai fortissimo sui giovani musicisti, che ansiosi di impossessarsi di questa nuova musica, prendono a citare le sue frasi musicali. Uno dei primi didatti del bebop, il pianista Lennie Tristano alla fine degli anni’50, basava il suo metodo sulla trascrizione degli assoli di Parker, e quello si può già considerare il momento di istituzionalizzazione del vocabolario (a quell’epoca, nessun musicista poteva dirsi veramente immune dall’influenza di Parker). Ai giorni nostri, dopo che sono usciti libri che inventariano i principali lick di Parker, e dopo che il suo linguaggio è stato teorizzato con la creazione di “scale bebop”, “grammatiche bebop”, conoscere le formule parkeriane rimane un atto obbligato, che però, portato agli estremi, può addirittura scivolare in un rigido fondamentalismo da “ipse dixit”, contrario allo spirito fondamentalmente innovatore del jazz.