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Storytelling e scrittura jazzistica.

4. Dita che raccontano

4.2 Quando il tessuto si strappa

Come abbiamo visto sopra, è facile per critici e musicologi cadere nel tranello per le arti performative di collocarsi troppo avanti col livello di analisi, finendo per omettere proprio le pratiche incarnate che hanno generato la musica di cui si intende offrire un resoconto. Quello di Sudnow invece è un modo di raccontare il jazz davvero inusitato, forse davvero uno dei pochi che non reifichi il jazz come “prodotto” di un’attività di un genio, di una collettività, o come somma di un corpus discografico. Il resoconto di Sudnow è soprattutto un resoconto di un’esperienza. Innanzitutto perché ci parla di quello che si sedimenta in relazione a uno stimolo cui siamo esposti. Poi, esperienza nel senso di un’enciclopedia di competenze apprese. Infine, esperienza nell’accezione di un vissuto che segna, al punto che incide sulla definizione di se stessi. La metodologia con cui Sudnow lavora è conseguenza della sua doppia veste di interprete e interpretato. Egli cerca di cogliere il corpo nel corso dei movimenti che fa (p.64) e si avvale della possibilità di interrompersi per tematizzare questo o quell’aspetto dell’improvvisare, compiendo così un’operazione ibrida, che però arriva molto vicino a delineare quel nodo

49 La cosa interessante è che Sudnow, che è bianco e accademico, pur parlanto piuttosto

estesamente di improvvisazione, non parla praticamente mai di storytelling, proprio perché forse per lui la dimensione della narrazione si colloca ad un altro livello.

centrale di tante discipline filosofiche o meno, ovvero in quale modo soggetti incarnati siano in grado di ordinare lo svolgersi dell’esperienza nella durata temporale.50

Per rendere conto dello svolgersi del tempo e di come il musicista organizza questa durata, l’impostazione fenomenologica dell’autore lo porta spendere lunghi brani tentando di osservarsi nel corso delle singole microscopiche tappe dell’apprendimento. Il problema principale è quello di testualizzare uno svolgimento temporale, ovvero di descriverci una temporalità vissuta pur attraverso il débrayage della scrittura. Prendiamo un compositore e uno scrittore. Nel loro studiolo, scrivono, entrambi scindendo il testo dall’istanza dell’enunciazione, e dispongono di tutto il tempo e organizzazione che desiderano. Non vi è nulla di attraente in sé nel vedere il compositore o lo scrittore al lavoro, nel vederne la pratica in atto (anche se abbiamo dei tentativi di spettacolarizzazione posteriori al cinema). Per un pittore è diverso: la pratica della pittura può più facilmente diventare spettacolare. L’action painting di Pollock merita di essere vista, ma anche lo stile di Picasso (nel bel film Le Mystère Picasso del 1956) vale la pena di essere colto nello suo divenire, perché permette di apprezzare le riscritture e le ricoperture che il genio picassiano opera sulle tele. Ora se il dripping di Pollock è un gesto somatico da ricostruire, è molto interessante che Sudnow finisca proprio per cercare di lasciare una traccia del proprio corpo quando tenta una narrazione dell’esperienza il più possibile vicina al fluire della durata. Come si ricorderà, il testo è un rewritten account: era troppo difficile, per cui nel 2001 Sudnow lo ha riedito accorciandolo e alleggerendolo. Ma non era troppo difficile per un abuso terminologico o concettuale, no, al contrario lo era perché erano le sue fenomenologie ad essere pesanti, tentativi disperati di registrare il più possibile di quello che accade con la velocità del tempo vissuto. La “telecronaca” di un gesto musicale potrebbe essere una forma di racconto già pesante da descrivere dall’esterno:

Dopo un arpeggio diminuito di quattro note, il nostro musicista si lancia in un

turnaround cromatico, per poi ricominciare con una melodia per gradi congiunti,

50 Anche se rimane da stabilire cosa comporti questo radunarsi in un’unica figura di

due istanze in genere separate: otteniamo una mirabile eliminazione di alcuni filtri oppure un disordine introspettivo che complica ulteriormente le cose?

al termine della quale cambia registro tramite un rapido arpeggio per intervalli di quarta…

Ma la pratica di tematizzare la propria attività “dall’interno” mostra come il semplice movimento di suonare un accordo sulla tastiera richieda a sua volta un livello di cronaca quasi microscopico:

over the course of my first days, much time was spent doing initial grabbing, trying to get a hold on chords properly, going back and looking at them as named notes, grabbing again, repositioning the hand to get into a chord with a comfortable hold so it could be grasped as whole; finding ways of sinking into a chord that didn’t involve the sounding of neighboring tones; arching the hand appropriately so the fingers came down with a correct spacing and trajectory relative to the shape of the chording hand; balancing the different intensities of press so as not to lose balance, the edges of neighboring notes not extraneous spot to be avoided but edges whose tactile appreciation became a part of a natural hold on a settled-into chord; arching the hand and arraying its finger with the sort of proportional spread that, when the chord was grasped, let the finger not only come into the right spots but with equal intensity, so its tones sounded simultaneously, and not clumsily serialized. (Sudnow 2001, p.13)

La descrizione corre dietro ai dettagli al continuo presentarsi di nuove micro- attività, e il periodare diviene paratattico, prolisso. Non è possibile né fruttuoso sostenere un simile registro per tutta la durata di un libro. E infatti sono altrettanto interessanti i momenti in cui Sudnow quasi esasperato dall’onere descrittivo, di abbandona a pratiche “parolibere”:

noinoinoinoinoinoinoinoinoinoinoin

L’inedita strategia testuale, a mio avviso, rappresenta bene il tentativo di sincronizzare il tempo vissuto con quello editoriale. Sudnow sembra quasi sfogarsi quando spiega che l’atto di scrivere «noinoinoin…» lo pone in relazione alla tastiera del computer nella stessa maniera in cui egli si relazionava con i tasti del pianoforte all’inizio del suo apprendistato. «Noinoinon…» (o sdfkjghbsk, per me che scrivo in questo momento) sembra essere un deittico verso il corpo di chi scrive e il suo momento “performativo” alla tastiera del computer. Nell’argomentazione di Sudnow, tali deittici lavorano in parallelo

anche ad altre più comuni convenzioni tipografiche. Ad esempio, per segnare il rallentamento del tempo, ricorre alla spaziatura tra i caratteri:

ex pe cial ly

L’irruzione della durata dello scrivere (o dello scrivere come durata) è un estremo tentativo di rendere conto dell’esperienza nel suo svolgersi, con dei risultati che giustificano il giudizio diffuso su Ways of the hand, che si tratti di un saggio poetico. È poetico nella misura in cui Sudnow, nel tentativo di rendere conto di un’esperienza somatica che è innazitutto di durata, lascia affiorare il ritmo del corpo, il vocale secondo Cavarero, la chora semiotica secondo Kristeva, il pre-simbolico che la prosa nasconde e che il verso recupera. Ed è uno strappo al tessuto che fornisce uno scorcio sulla pratica tessitrice. L’esempio più eclatante in cui il registro fenomenologico si fa (suo malgrado?) davvero scrittura jazzistica è un passo in cui lo slancio descrittivo non trova migliore strada che divenire meta-descrizione.

I reached step by step, rather than the way one move right through the production of a sentence like the one I am now typing, were you able to see it, very quickly, moving straight ahead as I proceed, finding myself in difficulties but knowing at the pace I am now moving, however little is being said well, however ramblings things are going...(I lost it). (p.89)

Noi non siamo in grado di vederlo mentre digita queste parole, e allora l’autore non può far altro che mostrarci la traccia della sua performance lasciando depositare sul testo un’improvvisazione letteraria, goffa e inconcludente proprio come le improvvisazioni dei musicisti dilettanti. E questo flusso di pensiero debordante e ingarbugliato è molto simile al blah blah blah che il bassista Buster Williams vorrebbe correggere nei suoi trafelati interlocutori (cfr. sopra). Come uno strumento musicale, anche la tastiera di un computer richiede una certa tecnica esecutiva, e se non siamo troppo occupati ad organizzare i contenuti, è possibile utilizzarla per costruire un andamento ritmico elementare, sulla scorta dei tempi imposti dai movimenti delle dita:

The book, the book, the book book book The book, the book, the book book book

Ma è molto difficile fare quello che illustrava Sudnow, ovvero di concepire e digitare la frase nello stesso momento, senza interrompersi, magari persino leggendo a voce alta (non vale pensare di crearsi un piccolo schema da seguire perché esso varrebbe come partitura): si tratta dell’apprendimento di una tecnica del corpo per nulla banale, che richiederebbe sostanzialmente una professionalità apposita. In una recente intervista di argomento musicale (Spaziante 2006), Eco solleva il problema di questo tipo di coordinazione a proposito della propria esperienza di suonatore dilettante. Eco sostiene che ci sono due musicisti che gli è «impossibile» eseguire a memoria: Bach e Weill.

La loro caratteristica è che mentre con tutti gli altri se hai un buon istinto ed orecchio sai dove vanno a finire le dita, con quei due le dita dovrebbero sempre finire nel punto in cui non te l’aspetti. […] Con Weill vanno sempre a finire in un altro punto, per cui tu cominci e poi ti blocchi. E lo stesso accade con Bach se non lo studi a memoria. [La stessa cosa] succede con le ultime parole del Commendatore nel Don Giovanni. Nessuno sa cantare a memoria le ultime parole del Commendatore a meno che non sia un professionista che l’ha fatto per quarant’anni, perché “le dita” vanno a finire sempre in un posto sbagliato.

Alla stessa maniera, commenta Sudnow:

Doing such typing and trying to continue without undue pausing, exploring improvisation in this terrain, it often happened that I’d come to place where I couldn’t reach farther ahead. My movements weren’t broadly aimed forward, lacked ways of going on in certain malleable, improvisationally flexible, accentually targeted thrusts. And at such times I simultaneously found myself sensing that I couldn’t find what to say next. (p.79)

E allora così torniamo allo storytelling. Il musicista è un po’ come lo scrittore con la macchina da scrivere. Deve imparare a fare questa cosa difficilissima che Sudnow ci mostra nel suo testo: deve imparare a intermediare tra il ritmo del proprio corpo, il ritmo imposto dall’interfaccia e il ritmo dell’invenzione.51

Colto, durante ogni storia improvvisata, dall’impulso dell’invenzione, il narratore musicale qui descritto è desideroso e impaziente di scoprire dove andrà a finire la storia alla stessa maniera del pubblico, secondo un modello di

51 L’atto del parlare in sé è già una tecnica del corpo, e si potrebbe sostenere che

vocalizzazione e performance interfacciata (ad esempio attraverso la tastiera alfanumerica) si possano idealmente accostare nella loro dimensione di tecniche.

storytelling vivente e non programmato. E lì sta il bello. «Dove andiamo?», «Non lo so, ma dobbiamo andare». Forse Jack Keruac, con i suoi rulli da telex si poteva permettere per davvero una narrazione di tipo jazzistico, avendo scoperto un’intermediazione tra il ritmo della propria invenzione e la macchina da scrivere. Sarebbe stato davvero bello vederlo all’opera, e non bello nel senso di interessante culturalmente, ma bello nel senso di spettacolare, perché, in quella pratica, Keruac poteva costituirsi come performer, come un Pollock, un Picasso, oppure un jazzista. E forse, come David Sudnow, a quel punto della sua carriera poteva davvero vedere le sue dita pensare per lui.