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1.1 «Una maschia sicurezza»

1.2 Una conclusione unilaterale

Sul particolare momento della chiusa di un pezzo improvvisato si possono citare molti esempi. Jacques Siron denuncia innanzitutto il fenomeno della «zuppa improvvisata», ovvero il brano collettivo in cui ognuno suona molto, alternando pieni e vuoti senza ragione e senza interazione, con il risultato di una brodaglia sonora opaca e confusa, in cui «non emerge nessuna decisione chiara» (Siron 2005, p. 748). Peggio ancora quando la «zuppa» diviene zuppa

interminabile. «Tutto sembra cominciare bene. Le idee scaturiscono. Poi l’energia si abbassa, ma il pezzo continua. I cicli narrativi non si chiudono mai; esiste sempre qualcuno che aggiunge un ultimo commento; niente si impone affinché il ritorno al silenzio divenga una necessità» (ibidem).

Nella raccolta di materiali registrati per questa ricerca, mi sembra significativo riportare l’esempio di un palese mancato finale (a rischio di «zuppa interminabile») occorso in un concerto di musicisti improvvisatori durante i “Lunedì del Lazzaretto”, a Bologna nell’autunno 2006. La serata, interamente dedicata all’improvvisazione, prevedeva la alternarsi di diversi musicisti (similmente a ciò che si è visto nel capitolo 9), più un match finale con tutti gli ospiti ad affollare il palco, nei panni di un improvising ensemble. Nel match in questione, la compagine radunata prevedeva musicisti di diverse estrazioni: membri storici del collettivo Bassesfere, affiliati più giovani, più qualche ospite di passaggio.

Annunciato dunque il brano collettivo, una volta che i musicisti si sono sistemati, il pezzo ha inizio con qualche colpo di batteria. Dopo circa cinque minuti di improvvisazione free, uno dei musicisti “giovani”, un sassofonista, prende a citare il tema di un brano di Monk (chi altri?), Well, you needn’t. Come si è visto poco sopra, Monk gode di una certa popolarità nell’ambiente, e infatti nei successivi secondi molti dei musicisti sul palco decidono di seguire la citazione e inseriscono a loro volta nell’improvvisazione frammenti di Well, you needn’t (sovrapponendosi senza però assestarsi tutti sullo stesso tempo, o sulla stessa tonalità). L’effetto dell’emersione del tema di Well you needn’t è quello di un collante, di un ancoraggio temporaneo che permette agli ascoltatori, e ai musicisti, di stabilire un principio d’ordine e di conseguenza una minima sintassi tra caos e ordine, e il brano ne giova. Il problema relativo al mancato finale sorge nel momento in cui il musicista che aveva per primo proposto la citazione, comincia ad ritagliarsi una parte decisamente più direttiva. Aumenta il proprio volume sonoro per essere sentito da tutti, ed esegue il tema per intero. Arrivato alle note conclusive del tema, rallenta l’esecuzione come consuetudine per un finale (alcuni musicisti lo seguono nel rallentato, altri no), dopodiché si lascia andare ad un breve assolo libero con funzione di cadenza (tipico di molti tipi finale, tra cui quello del concerto classico) per poi andare ad assestarsi sulla nota finale del pezzo. Dopo aver suonato quest’ultima nota con un’enfasi sforzata, a dir poco assertiva, il musicista visibilmente si rilassa, si siede, e comincia addirittura smontare il proprio sassofono. Attorno a lui gli altri

musicisti rimangono sospesi in una sonorità anodina, apparentemente destinata a spegnersi gradualmente come una lunga eco dell’esplosione conclusiva. O almento, i molteplici clichè convocati dal sassofonista, assolutamente comprensibili per chiunque, farebbero pensare a questo tipo di dinamica. Quello che accade è invece che il finale viene apertamente ignorato da molti dei musicisti sul palco. I processi periferici non si spengono, anzi lentamente prendono corpo, e il pezzo continua, abbandonando Well you needn’t e proseguendo per altre vie. Dopo alcuni secondi di attesa, il musicista è costretto a rimontare il proprio sassofono per reintegrarsi nel brano.

Che cosa è successo? Si è trattato di un momento decisamente interessante, ma tutto sommato negativo per l’improvvisazione. La proposta di un partecipante all’interazione è stata rifiutata esplicitamente dal collettivo, con almeno due effetti estetici: in primis un momento di palese disorganicità di intenti, e in seconda battuta la necessità di un lungo e faticoso tempo di ricostruzione perché il pezzo poi potesse effettivamente andare a concludersi. Per distanziarsi dal mancato finale e costruire un'altra parabola tensiva, l’ensemble ha impiegato diversi minuti, con il risultato che il brano nel suo insieme è durato quasi tre quarti d’ora (invece di venti minuti). Da un certo punto di vista, si potrebbe pensare che il disguido sia stato dovuto alla scarsa lungimiranza dell’ensemble, poiché accogliendo la proposta del sassofonista, si sarebbe sicuramente ottenuto un risultato meno problematico (il pezzo sarebbe finito in maniera unilaterale - ma almeno sarebbe finito). Ma l’improvvisazione ha le sue regole. Innanzitutto non va trascurato l’aspetto gerarchico: il “giovane” che prende le redini per portare a conclusione un pezzo in cui stanno suonando anche gli “anziani” forse pecca di ambizione e può essere proprio per questo bacchettato. Difficile dirlo senza un opportuno studio antropologico; vero è che il gruppo radunato al Lazzaretto (tra cui molti membri del collettivo di Bassesfere) non è un gruppo particolarmente legato a dinamiche di potere di questo tipo, anzi al contrario, spesso lavora proprio per denunciare fenomeni clientelari nel business musicale. Si può supporre quindi che sia più l’aspetto etico/estetico ad essere in ballo. L’improvvisazione esige la contrattazione e ripudia gli interventi unilaterali. L’intervento esplicitamente direttivo è unilaterale perché non dà alternative, e l’assenza di alternative espone il gruppo ad una seria impasse. La legge è quella dell’emergenza, e a tale legge non si deve sfuggire, anche per quanto riguarda i finali dei brani. È quindi quasi un aspetto grammaticale a prevalere.