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Radicalità, ascolto ed emergenza.

1. Idiomatici e radical

1.1 Regole e anti-regole

L’improvvisazione richiede un sapere, un vocabolario di formule, una grammatica di regole che reggano e guidino le azioni degli improvvisatori, e ogni cultura improvvisativa ha la sua peculiare grammatica, la sua particolare lingua. Di qui stili specifici di improvvisazione, legati a specifici contesti storici e sociali. Per questi tipi di improvvisazione Derek Bailey, chitarrista e musicologo, riserva il nome di improvvisazione idiomatica, ossia che rispetta la struttura di un idioma (Bailey 1993). Uno stile idiomatico non include solo una grammatica musicale in senso stretto (l’approccio all’armonia, alla forma) ma anche informazioni relative ai frame musicali (quali sono i luoghi deputati, i ruoli, le gerarchie, le modalità di interazione). Per un improvvisatore idiomatico, una buona parte dell’apprendimento consiste nell’acquisire la competenza di questi codici, secondo modalità che vanno ben oltre la mera “conoscenza” teorica e che prevedono una necessaria incorporazione delle tecniche, la formazione di habitus secondo una spartizione economica del sapere tra sfera acustica, visiva, tattile. Nel jazz classico, la padronanza delle trame armoniche dei brani, in sé non particolarmente complesse, necessita in realtà di numerosi anni di esercizio

(cfr. capitolo 5 sull’incorporazione). Ma l’applicazione delle regole è lungi dall’essere sistematica: anche gli idiomi improvvisativi più rigidi non impongono una grammatica unificata e formalizzata. E in tale ambiguità, il continuo andirivieni tra un linguaggio comunitario e un linguaggio privato (non solo ammesso, ma incoraggiato) rende impossibile parlare di “correttezza” o “scorrettezza”. Per quanto riguarda la costruzione di un assolo di jazz, per esempio, si può fare affidamento su alcuni principi generali, ma diventa impossibile individuare il punto preciso di un eventuale errore; l’apprezzamento rimane qualitativo e globale (Siron 2005). Esistono però casi di improvvisazione in apparente assenza di regole: la performance viene costruita senza alcuna consegna preliminare, e nessun accordo viene preso prima dell’esecuzione. Si tratta di ciò che Bailey chiama improvvisazione libera. Come nota Jacques Siron (2005, p. 745), questa definizione contiene implicitamente un paradosso: proviamo ad improvvisare “qualunque cosa” e immediatamente si pone la domanda “qualunque cosa in relazione a che cosa?”. E così l’improvvisazione libera, poiché la libertà non può esistere se non in relazione a un contesto, segue spesso le modalità di una programmatica negazione di un sistema già noto, costituendosi con un paradigma di anti-regole («non fare questo», «non fare quello») che sono pur sempre una grammatica. In un simile linguaggio, possiamo apprezzare la freschezza, la riscoperta, la rivolta contro le strutture obsolete, ma non possiamo fare a meno di constatare l’esistenza di principi costruttivi. Questo è il caso, grosso modo, del free jazz degli anni sessanta- settanta: genere nato in seno e in opposizione al jazz, il free è un genere di rottura, che implica un’estetica al negativo: «nessun» tempo, «nessuna» tonalità, «nessuna» gerarchia tra i musicisti. Ma sul finire degli anni settanta, in Europa, questa tendenza si fonde alle tradizioni più diverse, che poco hanno a che fare con il jazz (musica contemporanea, elettroacustica, performance, happening…), dando vita ad ensemble di improvvisatori misti, ognuno dotato di influssi musicali (ed extramusicali) precisi, che nella somma complicano notevolmente il paradigma. Esiste pur sempre un frame generale (una performance, un luogo deputato, un pubblico) ma un set di anti-regole non è più possibile, perché non esiste un “bersaglio” definito. Le regole allora non possono che prendere forma durante il processo creativo. Esse appaiono e scompaiono, vengono confermate o negate mano a mano che l’esecuzione procede. Talvolta quest’attitudine viene anche chiamata improvvisazione radicale.

1.2 Il grado zero

Radicale è una musica non ancora fiorita nello stile, presa alle origini, che cerca la profondità e l'essenza prima di diventare genere. L'improvvisazione radicale assomiglia molto al grado zero della scrittura descritto da Roland Barthes (1953), il livello neutro che media tra lingua e letteratura, tra lingua e stile. Tra lingua, che ci contiene tutti come un «area d’azione, definizione e attesa di un possibile» (ivi, trad. it. p. 9) e letteratura, che determina ruoli, aspettative, stili storicizzati, esiste un grado di scrittura puramente strumentale, ancora troppo liscio perché attecchiscano i clichè. Una realtà formale che ha le caratteristiche del termine neutro preso in mezzo ad un'opposizione paradigmatica, un neutro che non è né al di qua né al di là, non residuale ma profondamente alternativo perché sventa il paradigma, e azzera le usuali condizioni del senso. Come la radicalità in musica, la scrittura a grado zero è sforzo di liberazione da un linguaggio risaputo, una creazione «affrancata da ogni schiavitù a un ordine manifesto», una voce che «si pone in mezzo alle grida e ai giudizi» (ivi, trad. it. p. 55-56). E il neutro in musica mostra come compositori “puri” e improvvisatori “virtuosi” stiano dalla stessa parte, perché pur collocandosi ora da un lato ora dall'altro del paradigma, non fanno altro che continuare a riaffermarlo, mantenendo inalterate le posizioni. Di qui l’esigenza del radicale. Tale sviamento (déjoue) dal paradigma rimane però paradossale perché in un certo senso esso a sua volta sembrerebbe porsi in antitesi a qualcosa, insomma costituire esso stesso un paradigma; ma si pone al riparo da tale solidificazione finché affrontato come epoché, come radicale sospensione dell’ordinamento vigente. La scrittura basica che Barthes individua ad esempio in Camus, si spoglia di eleganza e ornamentazione e corrisponde per lo più al «modo di esistere di un silenzio». Raggiunge lo stato di equazione pura dove «la problematica umana è scoperta e rivelata senza colori» (p. 56-57). Ma come per l’abito di Peirce, deliberatamente formato ma sempre «autoanalizzantesi», tale equilibrio deve continuare a ridiscutere i propri presupposti, a rimanere fluttuante, pena il ricadere in automatismi e forme irrigidite proprio là dove si cercava l'indeterminazione: gli artisti radicali non sono certo immuni dall’affezionarsi alla propria forma, per diventare «epigoni della loro primitiva creazione» (p. 57) e trasformare la loro zona neutra nel polo di un paradigma. E allora, anche in musica, abbiamo bisogno di variazione continua, di alea, di ascolto attivo, infine di un silenzio che, a sorpresa, eluda ogni aspettativa. Ovvero di John Cage.

«Figura 1. Trascrizione del silenzio che precede la registrazione di Kind of Blue dell’orchestra del trombettista jazz Miles Davis, 2 marzo 1959 (rimasterizzato in dolby XTT Megabass Superpro®)» (da Siron 2005).