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Significazione e vocalità.

5. La voce non inganna

In questa prospettiva fonetica prima ancora che fonologica, la voce non inganna. Le sue inflessioni, il suo timbro, le sue pause e i suoi silenzi ci parlano del suo possessore e ci permettono di riconoscerlo e conoscerne le intenzioni, cioè di riconoscere il senso di un discorso là dove la parola scritta deve arrestarsi al solo significato. Ma se la voce non inganna, allora apparentemente non è segno, poiché, secondo la classica nozione di rinvio, è segno ogni cosa che possa essere assunta come sostituto significante di qualcos’altro. Se la semiotica è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire, la voce esce dal limite inferiore. Poiché «se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto non può essere usato per dire nulla» (Eco 1975, p. 17). Tale paradosso è solo apparente. Innanzitutto la voce può ingannare, poiché è pur vero che le tecniche del corpo che permettono il controllo della voce sono cose che non si improvvisano, ma chi per professione fa l’attore si può dire che sia sempre in grado di mentire, anche

e soprattutto per mezzo della prosodia. E dall’altra parte, un’epistemologia verofunzionale come quella ventilata da Eco (o vero o falso - tertium non datur) non risulterebbe molto produttiva per la semiotica contemporanea, dati gli innumerevoli casi di indecidibilità nei diversi campi d’applicazione (e il programma di Eco vale allora come un understatement sorprendente e ironico). Detto questo, esercitarsi su paradossi e sviluppi del tema “voce e verità” in ambito jazzistico non è atteggiamento peregrino. I musicisti jazz usano frequentemente la metafora della voce per riferirsi alla presenza dell’intera personalità musicale. 37 E molto spesso la questione è se tale voce sia autentica

(true) o meno, secondo una prospettiva che è contemporaneamente morale ed estetica. Il vero jazzista è colui che ha trovato la propria voce, e che di conseguenza condensa in sé onestà intellettuale e originalità artistica. L’autenticità di una voce è oggetto di valutazione (e ammirazione, se è il caso) da parte della comunità, ma che si tratti soprattutto di una maturazione individuale lo illustra molto bene un commento raccolto da Duranti e Burrell (2005, p.26), a partire da un seminario con il contrabbassista Robert Miranda. Discutendo di improvvisazione, Miranda spiega gli aspetti della ricerca della «giusta» nota, quel tassello che serve per completare il discorso in atto. Prima o poi, tale nota tanto inseguita dovrà manifestarsi in qualche forma, pena l’impasse.

It might come out. Sounding. Co-rrect. An- and- and people might say “WOW!” you know, but- it w- it’s a lie. It’s a lie! Because that’s not what I heard. What I heard was [plays open G string on the double bass]. And so I have to be humble enough to play [plays G again] in spite of everything that I know or wanna play. That’s not what I heard. So I have to be honest as an improviser and just play what I hear. And that’s the best way for me to help the group.

La correttezza di una nota all’interno del sistema grammaticale vigente non è garanzia che essa sia autentica. La possibilità di mentire sta nel sostituire «quello che si sente» (un hearing interno) con ciò che «si conosce» (la gamma di cliché, di citazioni) o addirittura con ciò che «si vuole suonare» (intendendo una volontà non mediata dalle esigenze del brano e degli altri musicisti, secondo

37 Va precisiato che vi è un utilizzo tecnico del termine voce per indicare una singola

una finalità non cooperativa). La garanzia di un contributo autentico viene da un contegno che è stato definito di «perfezionismo morale», un impegno ad agire e parlare sempre presenti a se stessi, combinato ad un’insoddisfazione costantemente tesa al miglioramento del presente (Day 2000, p.99; Duranti e Burrell 2005). Acquisire una voce è quindi perdere un ego, nel senso deteriore del termine, e contemporaneamente assestarsi su un habitus venato di saggezza.

I kinda feel like that when you improvise, and when you are playing jazz music, you’re uh- you’re really completely…open. You’re kind of, uh, letting yourself be very very open to the other musicians. As well as to the audience but especially to the musicians. ‘cause you’re trying to create something. And so you’re sort of opening up your heart, soul, ... and, with that. I think. Comes a danger. Because a person who has- ... let’s say... a huge ego, ... who wants maybe to show off, ... or doesn’t have the what I would call “the purest of intentions”, I think that affects the music tremendously and in a negative way (Tom Ranier in Duranti e Burrell, 2005, p.27).

La «più pura delle intenzioni», che assomiglia molto alla «logica pratica» proposta da Bourdieu, è la garanzia di avere raggiunto un suono signature, ovvero di poter dare un contributo che è contemporaneamente personale e collaborativo, che è «linguaggio privato» ma che si dispone ad essere interpretato nella via più semplice ed immediata. È un atto di enunciazione singolarmente autobiografico e imbevuto di cultura, la cui possibilità di esistenza si fonda sul percorso esistenziale, unico e irripetibile. È atto di enunciazione che proietta il più possibile dentro di sé, piuttosto che fuori di sé, le categorie linguistiche su cui si struttura. Il signature sound funziona come e più del pronome “io” nell’unire virtualità della lingua ad atto di parola.