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Radicalità, ascolto ed emergenza.

3. L’improvvisazione radicale

3.1 Bassesfere

A Bologna esiste un’attiva realtà musicale dedita all’improvvisazione, che fa capo ad un’associazione di musicisti denominata “Collettivo Bassesfere” (in cui milita anche Tristan Honsinger) che, pur non richiamandosi direttamente alla filosofia di Cage, si pone in linea di continuità anche con quel tipo di avanguardia. Il collettivo ha dei membri ufficiali, ma non è un gruppo musicale nel senso comune del termine. I concerti di Bassesfere possono prevedere di volta in volta organici radicalmente diversi, ricombinazioni dei musicisti della

cerchia, aperture a ospiti di varia provenienza o addirittura ensemble letteralmente improvvisati. Uno dei moduli utilizzati per organizzare le sessioni di improvvisazione è proprio quello di lavorare sulla creazione estemporanea di nuovi ensemble. Ad esempio, in occasione di una serata dedicata all’improvvisazione, prima del concerto, magari a tavola poco dopo la cena collettiva, si provvede a creare a tavolino una scaletta della serata, formando dei gruppi sulla base delle disponibilità e della voglia di sperimentare. Se per una fortunata coincidenza si sono presentati quattro violoncellisti, vale la pena di prevedere un set di soli violoncelli, magari con l’aggiunta di un quinto musicista elettronico che ricami sui suoni acustici. Se ci sono due batteristi, li si può mettere uno “contro” l’altro, eleggendo ad “arbitro” un sax, oppure una chitarra. I musicisti sono colori di una tavolozza e il momento della performance sarà l’effettivo atto di pittura (un action painting, beninteso). La parola d’ordine è “improvvisazione”, ma non si tratta di jazz, nemmeno di free jazz strettamente parlando. Non siamo nemmeno nei territori astratti di una musica aleatoria, ma piuttosto in un linguaggio libero, nato dalla prassi e dall’incontro di musicisti, senza un nome preciso e una sintassi normativa, a cui ci si può riferire semplicemente come musica improvvisata o, volendo, come improvvisazione radicale. Linguaggio aperto, ma non inconsistente, esso ha una propria storia e di una comunità di parlanti. Esistono esempi di riferimento e precedenti storici, che potremmo sintetizzare qui nella via europea alla ricerca sull’improvvisazione, che si rifà al jazz ma anche alla ricerca colta. Alcuni musicisti europei da affiancare a Bassesfere: Misha Mengelberg, Louis Sclavis, Han Bennink, Ernst Reijseger, Tristan Honsinger, Gianni Gebbia, Pierre Favre, ma certamente anche nomi d’oltreoceano come Lester Bowie, Tim Berne, e molti altri.

3.2 Il linguaggio dell’improvvisatore radicale

All’interno del circolo di musicisti che lo pratica, il linguaggio ha cominciato a mostrare le sue regolarità. Siron (2005, p. 748) individua anzi diversi stereotipi della performance collettiva: al primo posto pone la «zuppa interpretativa». Ognuno suona molto, non emerge nessuna decisione chiara, o semplicemente si procede precipitandosi dietro ad ogni iniziativa. Non appena qualcuno suona forte, tutti suonano forte; non appena qualcosa va veloce, tutti vanno veloce. Le performance prendono sistematicamente la forma di «montagne russe», un’alternanza di dinamiche, eccitazioni e depressioni, magari collegate dallo

«sfumato perpetuo», in cui ogni entrata ed uscita dei musicisti si fonde senza soluzione di continuità. È chiaro però che i contorni di questo linguaggio, nell’acquistare in nitidezza perdono in sapore. Nelle parole di Edoardo Marraffa, sassofonista storico di Bassesfere:

È prassi nella musica improvvisata incontrarsi e suonare senza conoscersi affatto, ed è evidente che negli ultimi anni si ormai costituito un linguaggio comune che facilita lo svolgersi di questa pratica. Il divertimento serio scatta però quando si stabilisce un’intesa portatrice di significati: la comunicazione può andare oltre e coinvolgere l’ascoltatore, la conoscenza si espande, entra in circolazione (Marraffa, catalogo del festival Angelica 2006).

Il linguaggio della musica improvvisata di cui parla Marraffa, quello adotatto da Bassesfere, è sicuramente atonale, o piuttosto pre-tonale, nel senso che la ricerca verte su un’espressione musicale che forzi lo strumento ad una produzione timbrica pre-musicale. Nell’atonalità si nega la tonalità utilizzando le sue stesse unità minime, le note, che vengono utilizzate senza però implicare il sistema di relazioni tonali (quindi non vengono usate per formare una scala o un accordo preciso). Fare musica non usando le note (aNOTAlità?) conduce ancora più a monte, ad un utilizzo espressivo di tutta la palette timbrica fornita dallo strumento musicale, ovvero la sua voce, prima ancora di sovrapporvi la griglia delle altezze. È lì che l’intuizione si pone con la forza dell’evidenza, della vitalità, dell’identificazione intima con il suono.

3.3 Partiture interiori (piccolo diario)

In occasione di uno di questi concerti basati sul “gioco” degli ensemble improvvisati mi trovo tra il pubblico. Un amico musicista, incluso nella lista dei partecipanti, si è già esibito in un primo set assieme a violoncello e percussioni, e più avanti nella serata, in un momento di pausa, mi avvisa che suonerà una seconda volta, in un set con due batteristi che attende con ansia e per il quale ha ottime aspettative. Arrivato il momento, il master of cerimony chiama effettivamente i due batteristi più il mio conoscente, invitando però, a sorpresa, anche un chitarrista ospite, meno usuale al circuito di Bassesfere, che ha però condiviso più volte il palco con musicisti del collettivo. Una volta iniziato il set, appare subito chiaro che il nuovo entrato è un membro di una tribù leggermente diversa, o almeno non è parlante autoctono della musica improvvisata. Nonostante il suo apporto sia indiscutibilmente improvvisato e in linea con lo stile della serata, è chiaro dall’impostazione della mano che è un chitarrista di

estrazione classica molto marcata, e infatti quando l’improvvisazione entra nel vivo, la “pre-notalità” fa posto a linee “suonate”. Si tratta di costruzioni atonali, certamente, ma in un certo senso trascrivibili. L’effetto è di sovrapposizione di due linguaggi, e non sempre la performance sembra equilibrata. Ma nonostante qualche divagazione, da un certo punto di vista l’inserimento è interessante. Movimenta, costituisce qualcosa di nuovo e, soprattutto, esibisce un processo di reciproco adattamento, che è una delle cose che si vuol vedere quando si va ad un concerto di musica improvvisata. Ciò sarà evidente in un successivo set, quando all’improvvisazione si aggiungerà un violoncellista (esperto di improvvisazione di lunga data), che si adatterà al vocabolario del nuovo venuto, contrattando un terreno comune, creano piccoli impasti atonali di sapore seriale.

Al termine della serata ho ancora la possibilità di parlare con il mio conoscente. È scontento del suo set. Mi dice: «Non capisco. Gli altri sono soddisfatti - ma come è possibile? Io stavo preparando i miei suoni per bene, quando mi giro e mi ritrovo Frank Zappa a fianco! Cosa c’entrava?».47 Ebbene, è difficile valutare

dal punto di vista estetico una performance improvvisata, e sarebbe sbagliato costituirla come prodotto (magari registrandola) e giudicarla in quanto brano musicale. Forse è vero che, da un certo punto di vista, il nuovo entrato ha causato imbarazzo e ha impedito ai musicisti di suonare secondo certi livelli di dimestichezza, per la mancanza di vocabolario comune. Ma ciò non costituisce necessariamente un problema. Forse l’aspetto incompatibile era un altro, insito nell’approccio del mio amico musicista: sull’onda dell’aspettativa per quel particolare set aveva già fatto delle previsioni, aveva immaginato come sarebbero potute andare le cose. Aveva già pensato che tipo di suoni sarebbero usciti, si era in definitiva costruito una piccola partitura interiore.