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Storytelling e scrittura jazzistica.

1. Organizzare l’invenzione

1.1 La disposizione delle tessere

Analizzando il sistema dei repertori formulari per l’improvvisazione, si è potuto osservare in funzione un meccanismo sintattico ibrido: servendosi di cliché, il musicista si colloca al di sopra del livello morfologico e si esime dal ricorrere alle unità minime (singole note o effetti sonori) per costruire le proprie frasi. La formula, al contempo, vive al di sotto del livello della frase ma, integrata nei vincoli armonici e metrici, impone affordances specifiche su come la frase vada completata. Come osservato, nel jazz non vi è vera regolamentazione sulla lunghezza delle frasi, ed è possibile immaginarne la costruzione pensando ad un’area vuota di un puzzle in cui si comincino a disporre a piacimento le tessere. Il puzzle può essere composto da tessere molto grandi, ad esempio pochi grandi pezzi che contengono già elementi figurativi del disegno del puzzle – che potrebbero corrispondere a quattro cliché musicali già molto elaborati e quasi-frasali. O viceversa da pezzi molto piccoli, ovvero formule molto brevi, che possono idealmente tendere alla dimensione puntiforme delle unità minime. Le maniglie e le cavità degli altri pezzi sono le zone di aggancio di successivi pezzi, e la particolarità del puzzle jazzistico è che è possibile fermarsi nella concatenazione in qualunque momento, possibilmente quando è emerso un qualche disegno. Pensiamo a John Coltrane che “vomita” a velocità pazzesca centinaia di pattern in un brano come Countdown (1959): la concatenazione è ineccepibile, ma non pare mai esservi un pattern conclusivo, e

il puzzle potrebbe estendersi angosciosamente all’infinito, se non intervenisse alla fine il tema vero e proprio del pezzo (un grande pattern pre-composto, in un certo senso) a risolvere la tensione e chiudere la deriva combinatoria come fosse una cornice calata dall’alto. Oppure pensiamo a un momento melodico di Keith Jarrett (ad esempio nella prima parte del Koln Concert), in cui alcuni minuti di improvvisazione pressoché statica vengono in un solo momento conchiusi all’interno di un disegno sorprendente, grazie ad un ultimo decisivo intervento, che fornisce l’ultimo segmento della figura, la tessera che contiene il dettaglio somatico che conferisce fisionomia al ritratto. Come ci si può aspettare, un puzzle con tessere davvero molto grandi non è molto divertente (soprattutto se si è costretti a giocarlo più di una volta), mentre un puzzle da veri esperti con tessere piccolissime può portare ad una frammentarietà irrisolta. E non ci si può nemmeno abbandonare ad un ipotetico puzzle con tessere tutte uguali: come avverte il sassofonista Harold Ousley, è possibile usare una formula (crip) per trentadue battute di seguito, ma non si può certo dire che questo sia una forma particolarmente complessa di organizzazione. In generale, i musicisti che ricorrono molto ai pattern hanno certamente la garanzia di non rischiare di interrompere il flusso, di non “sbagliare” nota, ma possono avere seri problemi ad affrontare un’organizzazione del discorso che trascenda una paratassi di tante singole frasi ad effetto – ovvero tanti puzzle lasciati a metà. E se c’è un pezzo del puzzle che può legare questi frammenti, quell’ultimo pezzo da disporre può essere davvero complicato da trovare, o magari lo si è addirittura perso. Insomma, non solo la metafora del puzzle non tiene più quando si tratta di voler descrivere l’organizzazione per grandi unità, ma lo stesso procedimento formulare può rendere difficile un’invenzione musicale di ampio respiro. Non è un caso allora che la nuova metafora a cui si fa ricorso per questa dimensione (questa volta si tratta di una metafora ampiamente utilizzata nel circuito jazz) sia quella dello storytelling.

1.2 Narrazione vocalizzata

In semiotica, soprattutto secondo la scuola greimasiana, un principio generalizzato di narratività è condizione di ogni tipo di discorso, sia che esso presenti o meno le forme figurative del racconto. Secondo il semiologo della musica Eero Tarasti (2004, p.283), si può parlare di narratività quando abbiamo «un oggetto o uno stato di cose che si trasforma in qualcos’altro attraverso un processo che richiede un certo lasso di tempo», e pertanto è

possibile parlare in questi termini di narratività anche in musica. Torneremo sul legame tra narratologia e musica più avanti; qui è importante fare una precisazione: poiché non va dimenticato il carattere intrinseco di performance proprio del discorso musicale è bene non cedere alla tentazione di prendere “narrazione” e “narratività” per buoni e passare ad esaminare la loro traduzione in termini musicali. In questa sede, anzi, sarà il caso di cercare molti aspetti generalmente non inclusi nel concetto di narrazione testualizzata. Essa, nella sua dimensione vocalizzata e performata partecipa di alcune proprietà peculiari di altri tipi di performance, tra cui quelle musicali, e l’interesse sta nel vedere se alcuni di questi tratti in comune possono entrare a far parte di inedite “strategie testuali” al di fuori dei codici narratologici classici. Ma in quest’ottica è già il concetto di testo a porci dei problemi. Parlando di dimensione live, si entra in contatto con quella che da più parti viene chiamata “semiotica dell’oralità”, che non è ancora una disciplina ma un insieme di campi d’applicazione che si aprono quando vogliamo volgere uno sguardo semiotico ad un’enunciazione vocalizzata, sincretica, intersoggettiva. Di tali problemi ha dato una sintesi recente Patrizia Violi, parlando di arti del dire (Violi 2006), ma ancor prima il tema della voce è stato riproposto all’agenda filosofica da Adriana Cavarero nel il suo A più voci. Filosofia dell’espressione vocale (2003). La nozione di narrazione, così come la conosciamo, è costruita soprattutto su pratiche e codici legati alla scrittura. Per “narrativa” infatti intendiamo l'insieme delle opere di carattere narrativo, i “grandi narratori” sono scrittori, e le “grandi narrazioni” sono grandi anche in virtù del supporto testuale, che permette di trascendere la capacità mnemonica, la tenuta fisica, la performance contingente di un singolo artista. Tuttavia la narrazione ha una sua dimensione performata. È la dimensione dei cantori di epica, ma anche del reading, del teatro, del testo sincretico, o semplicemente quella del racconto nella conversazione quotidiana. La dimensione esecutiva della musica improvvisata, partecipa di questi problemi, che potremmo anche decidere di non considerare propri della narrazione in senso classico, ma che indubbiamente soggiacciono ad un’esperienza più complessa per il fruitore, che viene coinvolto in molteplici strategie legate al corpo, al ritmo, all’estesia. Se l’esperienza è più complessa per il fruitore lo è anche per l’analista.