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Radicalità, ascolto ed emergenza.

2. L’ascolto attivo

2.1 Cage e l'ascolto

Sui recenti sviluppi della tecnologia musicale e sui modi della sua fruizione cominciano a moltiplicarsi i commenti allarmati, se non addirittura apocalittici. A suon di "piccole" rivoluzioni, dalla filodiffusione all'ipod passando per il walkman e le suonerie "polifoniche", la musica è diventata colonna sonora quotidiana, diffusa quando non invasiva. Piccoli o grandi altoparlanti si annidano in qualunque oggettino multimediale o in qualunque anfratto di un luogo pubblico, ristorante o centro commerciale. L’orecchio umano, organo passivo che non può semplicemente “voltarsi dall’altra parte”, riceve volente o nolente tutti questi stimoli e ne viene trasformato46. Ma da molti anni, ad

esempio da prima che la tecnologia del giradischi veramente si mostrasse nelle sue potenzialità, John Cage aveva avvertito i pericoli e i vicoli ciechi per l'orecchio musicale contemporaneo, svilito a organo di un ascolto passivo, ininterrotto e inconsapevole. E le modalità con cui portava avanti questa critica erano quelle di un'artista perfettamente consapevole della possibilità di un ascolto “altro”, un ascolto suscettibile di essere stimolato, risvegliato, non solo compianto. Convinto che la responsabilità di tale critica fosse propria dell’artista, Cage portava avanti una dialettica costruita con le forme del paradosso, della provocazione, dell'atteggiamento anarchico, costantemente interessato a sperimentare con le nuove tecnologie per metterle in discussione, mostrarne potenzialità e devianze, avendo pur sempre in mente il modello di un

46 Nel libro Musica (2003) il musicologo Nicholas Cook riflette su quali trasformazioni tale

diffusione operi sul modo che abbiamo di intendere i generi, i ruoli e i luoghi deputati alla musica.

musicista “curativo”. Sulle sue opere, a partire dalla celeberrima 4'33'' (1952) si è detto molto, la "provocazione" di tale pezzo (costituito di "solo" silenzio) è ricchissima di rimandi: è un discorso meta-musicale, un discorso che punta il dito su luoghi, funzioni e gerarchie del sistema musicale occidentale, ma anche che, come molte altre opere di Cage, implica una riflessione su come ascoltiamo e cosa crediamo di ascoltare. L'ascolto attivo proposto da Cage in 4’33’’ è un ascolto che non ha timore di rivolgersi ad altro quando la sorgente stereotipata (il pianoforte, posto sul palcoscenico, con il coperchio aperto, una partitura sul leggio e pianista seduto sullo sgabello) incredibilmente tace. Quello auspicato da Cage è un ascolto che può abbandonarsi alle impreviste intrusioni dei rumori provenienti dalle finestre della sala da concerto (magari di canti di uccelli), dei cigolii delle sedie, dei fruscii o gli starnuti degli spettatori. È un ascolto non filtrato che può accettare il rovesciamento dei ruoli autore/fruitore, nell’ambito di una performance dove forse è il pianista l'orecchio meglio posizionato per ricevere il concerto dell'orchestra di spettatori bisbiglianti.

2.2 Esperimenti sul caso

Il nome di Cage rimane legato anche a rivoluzionari esperimenti con l'alea: musiche scritte con i dadi, con procedure stocastiche, partiture a fogli "mobili". Sulle prime, tali esperimenti lasciarono ovviamente interdetti i "veri compositori", il cui ruolo veniva così negato, e perciò l’alea venne rifiutata e ascritta al reame opposto, quello degli improvvisatori. Ma anche qui, a ben guardare, le differenze sono profonde, e gli improvvisatori dell’epoca (ad esempio i jazzisti) avevano ben poco da spartire con queste elucubrazioni. Dopotutto, l’improvvisazione jazz, così legata all'esercizio, alla padronanza di un idioma, alla conoscenza di una tradizione, è davvero lontana dal concetto di alea pura. L'improvvisatore sa esattamente quello che sta facendo, non sta affatto tirando i dadi. L’imprevedibile è connaturato nella pratica, ma può benissimo essere scongiurato, o relegato a mera tigre di carta. Esiste quindi il rischio che egli sia fin troppo sicuro nella propria routine professionale. Se dovesse reagire ad un tiro di dadi veramente sovversivo sarebbe in grado di essere creativo? Privato della sua familiare griglia di accordi e della classica forma tema-assoli- tema sarebbe ancora così sicuro di sé? Ecco allora che l'improvvisazione proposta da Cage è ancora una volta uno stimolo all'ascolto attivo. Il caso garantisce una fruizione lontana dall'abitudine di cercare un oggetto d'attenzione conosciuto, quell’habitus plasmato dall'ascolto passivo della

ripetizione quotidiana, che rode l’autonomia nel decidere cos'è e cosa non è musica. Il caso, così insolente nel sostituirsi all'attività artistica del compositore o dell'improvvisatore, ha il merito di metterne allo scoperto i condizionamenti culturali, che bloccano la curiosità verso il nuovo, che incoraggiano l'ascolto rassicurante del già udito, o quello autogratificante del già suonato. L'improvvisazione non è certo al riparo dal pericolo di percorrere strade abusate, anzi, proprio per il bisogno di ridurre i rischi, di limitare la posta in gioco, l'improvvisazione può benissimo risultare molto meno avventurosa di un pezzo precomposto, riveduto e corretto, ma scritto con spirito di ricerca. Il lavoro di Cage mette in luce l'esigenza di ritornare ad un ascolto davvero intersoggettivo:

Chi si pone davanti ad un altro individuo - o a un collettivo di individui - nel tentativo di accedere ad una via comunicativa fortemente compromessa, e lo fa usando come strumento l'articolazione dei suoni in strutture musicali (in senso lato), dovrebbe, in linea di principio deontologico, saper partire da una sorta di grado zero del linguaggio musicale, deprivandosi delle proprie predilezioni e competenze musicali per disporsi all'ascolto silenzioso ed attivo, e, d'altra parte, approntarsi all'improvvisa (re)azione al minimo segno di articolazione sonora proposta; sapersi, quindi, aprire all'altro da sé, alle forme comunicative che gli sono più congeniali, e soprattutto al nuovo che sorge dall'incontro di differenti sensibilità (Lugo 2006, p. 3).

In Cage ciò avviene forzando il musicista in ruoli che, pur permettendo una libertà decisionale, lo costringono in parti che gli impediscano di fare ricorso alle proprie abitudini. E per infrangere il primo dei pregiudizi, raccomanda il violoncellista Tristan Honsinger, egli dovrà cercare «a tutti i costi di non voler fare bella musica».