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Storytelling e scrittura jazzistica.

3. Storytelling e narrazione

A seguito di queste considerazioni, prenderemo in considerazione due esempi che gettano luce su una maniera peculiare di raccontare nel jazz e, in maniera simile, di raccontare il jazz. Il primo esempio riguarda la metafora, di largo uso nei discorsi dei jazzisti sul jazz, chiamata storytelling. Non c’è musicista jazz che, dopo aver illustrato più o meno dettagliatamente le regole grammaticali e i repertori formulari necessari a produrre enunciati corretti in lingua jazz, non aggiunga che il vero fascino dell’improvvisazione dipenderà poi dalla effettiva capacità di raccontare una storia. Ora, se volessimo portare a fondo questa metafora, esistono approcci musicologici molto vicini allo schema narratologico, praticabili in certi repertori più che in altri. Ad un livello superficiale, sappiamo che è possibile dare una lettura di una sonata di Beethoven secondo un percorso narrativo completo di soggetto che si relaziona a un opponente o un aiutante. Questo approccio è certamente incoraggiato dalla struttura formale del testo- sonata (dove la presenza di un tema musicale denominato soggetto e un tema musicale denominato controsoggetto è prevista e formalmente regolata, anche nello sviluppo), ma è molto difficile generalizzare simili risultati che peraltro implicano un intrinseco e sviante antropomorfismo. Seguendo l’approccio di Eero Tarasti si può andare invece più a fondo determinando ad esempio come certe figure musicali del brano siano rivestimenti di attanti modalizzati secondo tensioni che provengono da una lettura della struttura armonica soggiacente. In questa prospettiva, l’apporto di analisi come quella shenkeriana (Tarasti 2001) è fondamentale. Tale teoria utilizza l’analisi armonica per individuare nel testo musicale, in una maniera molto simile al metodo greimasiano, una struttura profonda costituita da un’opposizione armonica binaria molto semplice, che nella musica occidentale contrappone l’accordo di tonica a quello di dominante. Lo spostamento dalla tonica (la stabilità) alla dominante (l’instabilità) genera una tensione volta al ritorno alla tonalità di partenza, la cui risoluzione è il presupposto per poter parlare di un programma narrativo minimo. È possibile considerare il movimento della tonalità e le tensioni che ne derivano come movimenti di disgiunzione e ricongiunzione di un oggetto di valore: prima che il pezzo finisca bisogna tornare in possesso della tonica. Questo tipo di approccio è molto legato, ad una particolare forma e genere musicali, e risulta subordinato ad un processo di ritaglio e di segmentazione che, se può essere favorito dalla particolare struttura (e modalità di esistenza testuale) di una sonata, risulta

molto più difficile altrove. È sicuramente sempre possibile metterlo in pratica, anche in repertori non tonali come la musica concreta, ma il rischio (al di là del rischio antropomorfizzante insito anche nel “modalizzare” una figura musicale) è in certi casi di travisare completamente l’ottica. Il modello puro di percorso narrativo, legato ad un’imprescindibile concezione finalistica, rischia di farci considerare come “incompleti” tutti i percorsi in cui questo soggetto in trasformazione non sembra arrivare da nessuna parte. Nella storia del jazz ci fu chi, sicuramente con le migliori intenzioni, gridò al miracolo quando riuscì a reperire nelle registrazioni delle performance del sassofonista jazz Sonny Rollins delle tracce di costruzioni tematiche simili a quelle classiche (ovvero si potevano distinguere due temi e un loro sviluppo) e stabilì che «finalmente il jazz aveva raggiunto la sua maturità» perché si esprimeva con la compiutezza della musica classica. Salvo poi essere smentito dall’evoluzione del jazz post Sonny Rollins (o dall’evoluzione di Sonny Rollins stesso), dalla raggiunta consapevolezza di un intrinseco etnocentrismo racchiuso in tali affermazioni, ma soprattutto dall’idea che il punto di vista così testualista non è quello corretto, o comunque il bello non sta tutto lì. L’impressione allora è che quando i jazzisti usano la metafora dello storytelling non hanno in mente un grande romanzo o un grande racconto, ma forse più probabilmente qualcosa di simile a un ministrel show, quella forma di spettacolo ambulante che gli artisti neri degli Stati Uniti recitavano a uso e consumo dei bianchi nell’ottocento, in cui assieme al commento musicale, che avrà poi un ruolo fondante per la nascita del linguaggio jazzistico, era prevista anche la performance (e l’improvvisazione) di un racconto che assomigliava molto, per modalità e forma, a quello del cantore epico o della commedia dell’arte, e assai poco a un modello letterario (vedremo più avanti che forse possiamo trovare un parallelo letterario volgendoci verso quella che nella seconda metà del ventesimo secolo è stata chiamata non a caso scrittura jazzistica). Andando a leggere come in effetti i musicisti di jazz tentino di tradurre in istruzioni il senso contenuto nella metafora dello storytelling, si scopre che le istruzioni più concrete sono di tipo metrico o retorico:

«If someone who is very excited about something that just happened comes running to me saying “Buster, blah-blah-blah-blah” the first thing I am going to say is, “Look, wait a minute. Calm down and start from the beginning”. TherÈs the beginning, therÈs the middle, and then therÈs the end. To accomplish this, the use of space is very important – sparseness and simplicity – maybe playing just short, meaningful phrases at first and building up the solo from there» (Buster Williams).

«You can leave some spaces in the music. You’re not going to start off a solo double timing. You start off just playing very simply and, as much as possibile, with lyrical ideas. And as the intensity builds, if it does, your ideas can become a little more complicated. Then can become longer. The way I look at it is that you’re going to start down so that you have somewhere to go. It can build to different point in different parts of the solo. It’s hills and valleys» (Kenny Barron – dalle interviste sullo storytelling presenti in Berliner 1991).

In effetti lo studio della narratività ha evidenziato che una narrazione in genere è contraddistinta da una progressione temporale coerente di eventi, la fabula, che può essere riordinata a fini retorici. Anche in tale riordinamento, la narrazione compiuta possiede un chiaro inizio, un centro e una conclusione (vedi il commento di Buster William). Ma quest’idea di narrazione derivata da un’idea esemplare di narrazione, legata al mondo letterario, si scontra con le performance disordinate, aperte che pervadono la nostra quotidianità conversazionale. Questo tipo di storytelling, come evidenziato da Elinor Ochs e Lisa Capps (2001), è costruito effettivamente come una narrazione di una progressione temporale di eventi, ma porta in sé costitutivamente il carattere di un work in progress, di una performance contenente esitazioni, pensieri non conclusi, interruzioni e anche contraddizioni. Se la capacità di fornire narrazioni logicamente consistenti di eventi è per la psicologia un indice di competenza comunicativa corretta, lo storytelling quotidiano mostra in realtà una pratica frammentaria e inconsistente proprio perché in progress. Ma tale apertura è funzionale ad un determinato uso della narrazione, ovvero quando essa, nella quotidianità delle nostre conversazioni, costituisce il mezzo per rianimare l’esperienza passata e non ancora perfettamente risolta. Secondo Ochs e Capps, nella living narrative il contenuto e l’ordine della disposizione sono soggetti a discussione e riscoperta, e sono convocati per dare senso all’esperienza attuale, che li recupera in una certa prospettiva secondo una concezione del tempo di tipo fenomenologico, in cui il passato è disponibile per poter dare significato al presente. Nei termini di Elinor Ochs e Lisa Capps, i jazzisti cercano di dare istruzioni per trasformare un raccontatore inesperto e retoricamente debole in un performer più consapevole. Ma tale consapevolezza non porta questo nuovo raccontatore alla rigidità insita nell’attore professionista specializzato in monologhi. Al contrario, uno sguardo comparativo mostra che, in sostanza, nel jazz, si vengono a formare raccontatori del quotidiano, grandi rianimatori di un passato mai veramente chiuso. Nella versione jazzistica del concetto di

narrazione è connaturata un’idea di intersoggettività del fare musicale. La metafora dello storytelling è collegata ai rimandi intertestuali (o per meglio dire inter perfomativi) ampiamente utilizzati tra i jazzisti: inflessioni, personalità, voci, diteggiatura, posture altrui, che passano dalla testa di un artista, che le ha assorbite per tutta una vita, alla performance musicale. L’affiorare delle connessioni che abitano il pezzo informa e approfondisce ogni storia che viene raccontata. In un certo senso, ogni assolo è come una storia dentro una storia, un sottotesto autobiografico che soggiace a tutto ciò che viene suonato, come si è visto a proposito di voce, voci e identità (capitolo 6). In questa narratività non programmata, in questa disponibilità in progress a ridiscutere i contenuti e il loro ordine, a quale livello si colloca la capacità retorica predicata dai jazzisti- storyteller: potremmo ipotizzare che l’abilità di raccontare qualcosa in jazz è forse prima di tutto una forma di integrazione tra il ritmo dell’invenzione con quello del corpo che suona?