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1.1 «Una maschia sicurezza»

2. Avere sempre l’ultima parola

2.1 L’improv theatre

Il campo dell’improvvisazione teatrale è uno degli ambiti in cui è possibile isolare ed osservare con maggior profitto la dinamica interattiva dell’emergenza del senso. Gli studi in materia (o praticamente, la “scoperta” di tale ambito) si devono a Keith Sawyer, sociologo da tempo interessato alla performance (Sawyer 2001 e 2003). Fatto interessante per la presente trattazione, dalle analisi di Sawyer appare con maggiore chiarezza come nell’improvvisazione questi meccanismi di emergenza siano assolutamente integrati con una serie di principi di ordine etico ed estetico (cfr. anche Duranti e Burrell, capitolo 6). D’altronde la nitidezza con cui il processo di emergenza viene alla luce fa dichiaratamente parte del progetto artistico dell’improv theatre, il quale, in un certo senso, non mette in scena nient’altro che questo.

Il setting tipico di tali performance è rimasto relativamente stabile a partire dalle sue origini, a Chicago, negli anni ’50. L’improv theatre spesso si fa in locali notturni, in stile night o cabaret, con un piccolo palco e clienti seduti ai tavolini. Il palco è scarno, privo di scenografie, ma soprattutto privo di quinte e sipario. Spesso non è prevista alcuna forma di backstage: gli attori che non stanno recitando si mettono semplicemente in parte alla scena, rimanendo comunque visibili al pubblico. Gli attori non indossano costumi, in genere sono abbigliati in maniera neutra, ordinaria, e non coordinata. Infine, non vi sono oggetti di scena, con l’unica eccezione di una o più sedie. Insomma si tratta di un quasi totale annullamento delle figure del contesto. Semioticamente parlando, abbiamo degli attori che si costruiscono ruoli senza appoggiarsi a alcun tipo di figurativizzazione visibile, se non la propria mimica, lasciando tutti i dettagli alla mera costruzione verbale. Vi è però un operatore importante che funge da paratesto molto potente: la luce di scena. In assenza di quinte e sipario, l’accensione e lo spegnimento delle luci è l’unico modo per delimitare spazialmente e temporalmente la svolgersi dell’improv. Questo semplice potere “conchiudente”, pur rimanendo fuori dalla rappresentazione, conferisce all’operatore delle luci un ruolo tra i più cruciali e impegnativi nella compagnia. Il suo dovere è sostanzialmente quello di immergersi nel flusso improvvisativo, e saper riconoscere e selezionare di primo acchito l’ultima battuta dello sketch. Seguendo la scena improvvisata con la massima attenzione, egli ha il compito di reagire prontamente quando emerge la battuta giusta, e di renderla seduta

stante l’ultima, proprio attraverso l’operazione dello spegnimento delle luci, che chiude la scena, sanziona la linea finale e dà il via all’eventuale applauso del pubblico. La decisione è importante e drammatica. Gli attori sul palco non sanno, non possono sapere, quando le luci verranno spente, anche se hanno sempre una vaga idea pregressa di quale dovrà essere la lunghezza totale della scena, e il loro compito è continuare a recitare fino al taglio registico. Imparare a capire quando una scena è finita, oppure a farla finire al giusto momento, equivale davvero ad imparare ad essere un buon improvvisatore: non a caso molto spesso l’operatore alle luci è lo stesso regista della compagnia.

Un buon regista ha la capacità di fiutare molto prima del pubblico l’approssimarsi del momento finale. Gli impercettibili indizi su cui si basa assomigliano a quelli che notò già Harvey Sacks nei suoi seminali studi sull’analisi della conversazione: quando la conversazione sta per terminare e si stanno avvicinando i commiati, si verifica un generale cambiamento di prosodia e di prossemica. Similmente, nell’improv theatre, quando il plot ha raggiunto un certo punto di equilibrio, ovvero quando sono stati introdotti diversi elementi utili e nessun attore si sente di effettuare sostanziali modifiche al frame, prosodia e registro cambiano. Inoltre il plot comincia a ripetersi, o peggio, eventuali nuove aggiunte minacciano di complicarlo inutilmente. Ecco allora che il regista deve risolvere tutto prima dello sfilacciamento, materialmente “creando” la battuta finale. Anche qui è cruciale il problema di un senso estetico terminativo («come stabilire il miglior finale di un pezzo?»), con la complicazione dell’intrinseca irreversibilità della performance («quello poteva essere un gran finale!»). A questo proposito, nel teatro d’improvvisazione il regista può seguire diversi orientamenti, anche quello più pratico di aggrapparsi alla più ovvia battutaccia in grado di strappare l’applauso. Ma anche nell’improvvisazione teatrale vi è una deontologia che ripudia il finale facile (Sawyer 2003, p. 27), e si può dare il caso di un regista che preferisca non premiare l’attore che tenta di arrogarsi l’ultima linea ad effetto. Anche nel caso dell’esempio da “I Lunedì del Lazzaretto”, il sassofonista citato, seppur probabilmente con le migliori intenzioni (cercava di conchiudere il pezzo nella maniera più chiara, a beneficio di tutti), stava in ogni caso arrogandosi l’ultima battuta. Il lato interessante è che sul palco dell’improvvisazione musicale non esiste la figura di un regista/tecnico luci che si ponga come istanza superiore: il direttore occulto si situa ad un livello più alto pur senza essere una persona vera e propria. Si tratta di vera e propria struttura di costrizioni nata per emergenza.

2.2 Teorie dell’emergenza e disposizione a sapere

Così come una nozione di emergenza ha attraversato e informato molte parti di questo studio, teorie sull’emergenza sono apparse lungo tutto il ventesimo secolo, e sono state molto influenti in una grande varietà di discipline, dalla filosofia alla biologia, dalla psicologia alla sociologia. Genericamente, il punto di partenza emergentista si può riassumere con la constatazione che, in alcuni sistemi, strutture di alto livello, complesse e indipendenti, emergano dall’organizzazione e dall’interazione di parti più semplici, di livello basso (Sawyer 2001, p. 212). Dal punto di vista sociologico, l’emergentismo ritiene che in questi sistemi complessi esistano prima di tutto gli elementi in interazione, i quali fondano localmente dei sistemi di regole che fungono da istanze normative astratte. Per tale ragione, tale tendenza si colloca al centro dello snodo micro- macro, ovvero la relazione tra l’individuo - le azioni individuali, le interpretazioni e le rappresentazioni soggettive - e il livello macro - ovvero il livello delle istituzioni, delle classi sociali ed economiche. L’emergentismo sostiene che le uniche entità reali sono gli individui partecipanti, tuttavia contemporaneamente riscontra che alcune collettività sono sistemi dinamici la cui analisi non può essere ridotta ai singoli componenti. Una forma molto semplice di emergenza è illustrata dall’esempio dello stormo di uccelli. La forma a “V” di uno stormo di uccelli non è pianificata centralmente, ma emerge dalle decisioni locali compiute da ogni singolo uccello dello stormo. La “V” è un fenomeno di alto livello, che emerge dalle azioni a “livello basso” degli individuali uccelli. Similmente la struttura drammatica di un brano improvvisato è una struttura di alto livello che emerge dal basso livello, momento per momento, ad ogni decisione conversazionale degli attori. La grande differenza tra lo stormo di uccelli e gli improvvisatori è che essi sono in grado di riconoscere la forma a “V” che stanno formando (Sawyer 2oo1, p. 212), ovvero l’entità analiticamente distinta emersa dall’azione collettiva viene riconosciuta e finisce per avere un potere causante sulle azioni individuali. È la cosiddetta downward causation.

L’emergenza si pone agli antipodi di ogni riflessione fondata sullo script. E se la sceneggiatura è un piano, ovvero una strategia, l’emergenza si colloca al di fuori del piano, nell’ambito della tattica. Ecco quindi che il sapere a disposizione dell’improvvisatore, più che una paradossale tabula rasa, deve essere sostanzialmente una disposizione all’emergenza. Volendo portare fino in fondo il gioco di parole del titolo di questo volume, il sapere a disposizione, molto

socraticamente, non è che una disposizione a conoscere, ovvero l’apertura al nuovo e all’inatteso, anche quando non è perfettamente inquadrabile. Non si tratta del potere restrittivo di una langue (la cogenza di un modello), quanto del ventaglio di possibilità coerenti di un frame emergente.