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Qualcosa che rifugge ogni spiegazione

Calcoli impossibili e logica formulare.

1. Qualcosa che rifugge ogni spiegazione

Nel precedente capitolo, all’interno dell’excursus sulle interazioni strategiche, il filo rosso dell’improvvisazione era sottesa ad ogni osservazione. L’immagine degli scacchisti è una metafora preparatoria per una rappresentazione dell’improvvisatore secondo un’insolita prospettiva. Descrivendo due giocatori di scacchi alla prese con un severo cronometro da gara e tempi ristretti fino al paradosso, avevamo sancito l’impossibilità di una gestione strategica: là dove il tempo per pensare la propria mossa fosse così breve da ridursi al tempo fisiologico che la mano impiega per afferrare e spostare il pezzo, gli scacchi- lampo diventano qualcosa di diverso, più spettacolo che vera sfida. Ma se sostituiamo agli scacchisti due musicisti nelle stesse condizioni, stiamo immaginando dei suonatori-giocatori (players, o jouers) che, iniziando una frase, decidono dove condurla nel tempo stesso in cui la mano la suona: niente di strano, si tratta realisticamente del caso dell’improvvisazione, in cui la lotta con il tempo è davvero prassi. Di più: si lotta per adattarsi al bruto scorrere del tempo, ma è proprio sulla frangia di questo scorrere che si verificano i più interessanti colpi di genio.

Il fatto è che l’improvvisazione non è in sé un agire paradossale. Esiste tutta una serie di attività quotidiane comuni che potrebbero essere definite improvvisazioni, e che si basano su processi decisionali sotto stretti vincoli temporali. Utilizzando l’improvvisazione come categoria interpretativa di fenomeni non musicali, Davide Sparti ne individua la presenza sullo sfondo di innumerevoli azioni quotidiane, azioni che essenzialmente volgiamo al mantenimento della normalità (o dell’ordine cognitivo), per riparare ai tanti

imprevisti dell’agire nel mondo. Si improvvisa per “salvare la faccia” quando ci si dimentica un nome, ma a anche quando si trasforma un comune bar in un centro direzionale per organizzare dei soccorsi all’indomani di un cataclisma, o quando si deve prendere una decisione di equipe senza conoscere i membri della squadra (Sparti 2005, pp. 214-216). Se si colloca il gesto improvvisato all’interno di una pratica fortemente strategica, e si enfatizza il calcolo di un numero notevole di variabili, esso appare miracoloso. Se lo si colloca all’interno di una routine e se ne mostra il grado di fluidità, esso appare del tutto naturale. Si tratta quindi di uscire da un paradigma di attori orientati, impegnati in interazioni risolvibili logicamente. Il sillogismo è uno schema pericoloso: solo chi si trova nella tranquilla posizione di stratega può permettersi di dedurre i vari casi a partire dalle regolarità a monte. E solo chi ha la possibilità di vedere reiterarsi un fenomeno abbastanza a lungo può risalire per induzione ad un caso generale. Nell’assenza di un luogo proprio, nell’ignoranza dello schema in cui si è calati, l’unica cosa da fare e agire per ipotesi: interpretiamo il nuovo evento alla luce di una legge non ancora data, non ancora fondata; formuliamo tale legge sulla scorta di un’associazione non immediatamente argomentabile. È il lato creativo dell’ipotesi, il ragionamento per abduzione (Peirce), in cui interviene l’analogia, la proiezione, la saggezza. È un’operazione proiettiva che però non necessariamente poi viene a scontrarsi con “la realtà delle cose”, ma che semmai può avere esiti più o meno felici. Le proiezioni ipotetiche dei soggetti dell’improvvisazione vengono accolte e convalidate attraverso l’interazione, ed attraverso di essa si consolidano e si pongono come sfondo delle mosse successive. È solo così che possiamo ricomporre di volta in volta la novità all’interno di un sistema, che dev’essere ad un tempo coerente e provvisorio, stabile e rinnovabile.

Se non è ancora chiaro il sistema di riferimento, nel momento del gesto improvvisato non si può parlare ancora un programma vero e proprio. Il caso limite evidenziato da Sparti (2005, p. 220) è il costante esercizio di improvvisazione nel definire la propria identità di essere umani, ovvero la costante ricomposizione di una diversità di esperienze di vita in una biografia apparentemente unitaria. Se la nostra identità è in realtà un programma- palinsesto, in costante rinnovamento e ricerca di coerenza, la vita è costante improvvisazione? A tal proposito, nerissima è l’osservazione di Vladimir Jankelevitch: poiché nessun uomo possiede un habitus relativo al morire, «la morte è dunque improvvisazione per eccellenza; e giacché morire è al contempo

cominciare a terminare, cominciare terminando, finire cominciando, morire è per definizione stessa improvvisare» (Jankelevitch 1955, trad. it. p. 253). Ma secondo Jankelevitch non è di tragicità e morte che ci parla l’improvvisazione; al contrario «il preludio non ci comunicherebbe l’esaltazione dionisiaca del suo rubato se non fosse, come una mattina di primavera, possibilità di tutte le cose» (ibidem).

Non sono insomma dei suicidi questi giocatori sul sottile fronte della durata temporale, sono più probabilmente poeti dell’irreversibilità. Negli scacchi reali, il semplice fatto di toccare un proprio pezzo obbliga il giocatore a usarlo nella propria mossa, e non sono concessi ripensamenti. La possibilità di poter rifare la stessa mossa al contrario al turno successivo è ovviamente una reversibilità illusoria, poiché le mosse dell’avversario nel frattempo hanno mutato gli equilibri (o le relazioni della struttura). Il tema dell’irreversibilità emerge in maniera molto significativa in un celebre testo del pianista Bill Evans, quello che il musicista scrive per le note di copertina del disco di Miles Davis Kind of Blue (1958). Nell note Evans descrive una forma d’arte visiva giapponese38, in

cui «l’artista è forzato ad essere spontaneo», poiché la pratica consiste nel dipingere su di una tela particolarmente sottile e ben tesa: la conformazione del pennello e della tela fa sì che ogni movimento «innaturale o interrotto» finisca per rompere irrimediabilmente il disegno (o, peggio, forare la tela, soprattutto nel caso si cerchi di tornare indietro per correggere). Ecco quindi che gli artisti di questa pratica devono sottostare ad una speciale disciplina, che Evans sintetizza nella capacità di «esprimere se stessi in comunicazione con le proprie mani in una maniera così diretta da escludere un’attività decisionale». Il disegno prodotto non possiede la stessa complessità di un dipinto tradizionale (come composizione o come dettaglio), ma «si dice che chi sa vedere troverà, catturato all’interno dell’opera, qualcosa che rifugge ogni spiegazione»39.

38 Probabilmente Evans si riferisce alla pittura Suibokuga, praticata in Giappone dal

quattordicesimo secolo e proveniente dal buddismo zen cinese.

39 «There is a Japanese visual art in which the artist is forced to be spontaneous. He

must paint on a thin stretched parchment with a special brush and black water paint in such a way that an unnatural or interrupted stroke will destroy the line or break through the parchment. Erasures or changes are impossible. These artists must practice a particular discipline, that of allowing the idea to express itself in communication with their hands in such a direct way that deliberation cannot interfere.

Non a caso il testo di Evans viene citato spesso nella letteratura sul jazz: esso contiene davvero tanti nuclei dell’attività di improvvisare. L’impossibilità di tornare indietro (rapporto col tempo). La particolare disciplina ed esercizio (rapporto mente-corpo). La spontaneità. E infine l’indicibilità, che in questo capitolo proveremo a mettere in relazione con il verso del tempo. Più avanti Evans definisce in pochi tratti che tipo di modello di riferimento stia alla base di Kind of Blue:

As the painter needs his framework of parchment, the improvising musical group needs its framework in time. Miles Davis presents here frameworks which are exquisite in their simplicity and yet contain all that is necessary to stimulate performance with sure reference to the primary conception.

Non si tratta di una cornice attorno a una tela, non si tratta nemmeno di una cornice nello spazio: Evans sente che, come nel Suibokuga, la cornice di Davis si situa soprattutto nel tempo. Sono strutture tematiche che conchiudono l’improvvisazione come parentesi leggere, evanescenti. La prescrizione non è rigida, al contrario, nella sua semplicità essa non contiene altro che il necessario per poter stimolare l’azione in riferimento alla concezione originaria. Ma qui ciò che interessa è lo snodo, molto complesso, che si situa dietro l’apparente semplicità di una “struttura temporale”. Si può parlare di una struttura temporale come struttura sincronica? La si può percorrere in tutte le direzioni, avanti e indietro, come una struttura spaziale?

2. Occasioni

La nozione di «cornice temporale» è leggermente fuorviante. Nel senso comune, una cornice temporale è un segmento “dall’istante x all’istante y”, ad esempio la cornice ricavata in un palinsesto entro cui inserire un programma radiofonico. Anche una “struttura”, termine del metalinguaggio musicale, ma anche pesantemente connotato dal punto di vista filosofico, sarebbe un po’ troppo schematica. Da De Certeau possiamo cogliere ed esaminare il termine “traiettoria”. La calligrafia giapponese, più che figure, traccia traiettorie. La

The resulting pictures lack the complex composition and textures of ordinary painting, but it is said that those who see will find something captured that escapes explanation».

traiettoria indica infatti un movimento temporale nello spazio, l’unità di una successione diacronica di punti percorsi, un vettore orientato e non la figura che questi punti formano in un luogo che si presume sincronico. Certamente anche questa «rappresentazione» può essere ingannevole, proprio perché la traiettoria, in un modo o nell’altro, si disegna, e il movimento si trova così ridotto a una linea abbracciabile dall’occhio e leggibile in un istante. Ecco quindi che solo chi «sa vedere» può oltrepassare la mera proiezione sul piano, per accedere al dispiegarsi del gesto. Insomma, per quanto utile sia, ogni forma di planimetria trasforma la struttura temporale in una sequenza spaziale di punti. Si sostituisce così un grafico a un’operazione (Miles Davis stesso lo intuiva, e cercava di evadere il più possibile l’esigenza di istruzioni precise e di spartiti). Un segno reversibile, che si legge nei due sensi, una volta proiettato su una carta, prende il posto di una pratica indissociabile da momenti singolari e da “occasioni” e, come tale, dunque irreversibile (non si risale nel tempo, non si ritorna sulle occasioni mancate). «Abbiamo perciò una traccia anziché degli atti; una reliquia in luogo di comportamenti, che è soltanto il loro resto, il segno del loro svanire. Questa proiezione postula la possibilità di scambiare l’uno (questo tracciato) con l’altro (un comportamento legato con delle occasioni). È un “qui pro quo”, tipico delle riduzioni che deve effettuare una gestione funzionalista dello spazio per essere efficace. Bisogna ricorrere ad un altro modello» (De Certeau 1990, trad. it. p. 71). Come si è visto, le strategie sono sequenze di azioni che, grazie al postulato di un luogo del potere (il possesso di uno spazio proprio), elaborano dei luoghi teorici (sistemi e discorsi totalizzanti) capaci di articolare un insieme di luoghi fisici in cui le forze vengono ripartite. Privilegiano dunque i rapporti spaziali e si sforzano di ricondurvi i rapporti temporali attraverso l’attribuzione analitica di un luogo proprio a ciascun elemento particolare e mediante l’organizzazione combinatoria dei movimenti specifici. Le tattiche sono procedure che valgono grazie alla pertinenza che conferiscono al tempo, ma più specificamente all’occasione, alle circostanze che l’istante preciso di un intervallo trasforma in situazioni favorevole, alla rapidità dei movimenti che modificano l’organizzazione dello spazio, ai rapporti fra momenti successivi di una “mossa”, alle intersezioni possibili di durate e ritmi eterogenei (ivi, p.75).