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Significazione e vocalità.

1. Signature sounds

Come per altre parti di questo libro, sondare l’esperienza della “libera improvvisazione” è molto utile per impostare una questione teorica, perché la radicalità a cui tale pratica si ispira permette per certi versi di sfrondare la problematica e di vederla nella sua configurazione più netta. L’improvvisazione cosiddetta “radicale” vorrebbe essere l’improvvisazione al massimo grado, ossia una pratica che, rifuggendo ogni pianificazione e accordo a priori, si fonda su un grado zero che significa massima ricettività e disponibilità all’ascolto. Non è possibile improvvisare se non in totale relazione con il suonare altrui. Bene, ma cosa si deve ascoltare esattamente quando si ascoltano degli improvvisatori radicali? È inutile provare a ricostruire note o metriche note, poiché, anche quando comparissero in forma esplicita, nulla vieta che vengano contraddette e abbandonate senza preavviso, lasciando l’ascoltatore privo di guida. È possibile lavorare allora in termini di oggetti sonori, concetto più ampio e in grado di abbracciare l’emissione sonora nel suo insieme, ma ciononostante un po’ troppo legato al suo milieu storico, ovvero alla tecnologia della riproduzione e, soprattutto alla separazione acusmatica tra fonte sonora e suono30. La

separazione tra soggetto e suono appare più che mai sospetta in jazz, se ne vedrà la ragione fondamentale proprio in questo capitolo. Uno stimolo fondamentale per impostare il problema si palesa nell’analisi di un seminario didattico intitolato “Improvvisazione per grandi ensemble”, da me frequentato a Bologna

nel dicembre 200631. Il seminario prevedeva l’iscrizione di un numero non

regolato di musicisti, senza suddivisione per gruppi orchestrali, ovvero non si cercava di riprodurre un qualche tipo di organico (ad esempio una big band con le classiche tre trombe, i tre sassofoni, un contrabbasso, una batteria..). L’insegnante era uno solo, il sassofonista californiano Scott Rosenberg, esperto di performance e nella direzione di ensemble di improvvisatori. Il primo giorno di seminario, l’eterogeneo gruppo di musicisti si radunò nell’aula deputata. Eravamo 25. Ci furono vari approcci relazionali, ci fu chi si presentò a tutti, chi solo al proprio vicino, chi si disinteressò della faccenda, per la maggior parte i partecipanti non si conoscevano personalmente, e ancor meno non avevano già suonato assieme. Rosenberg ad un certo punto chiese il silenzio, salutò, si presentò brevemente, chiese ai musicisti di disporsi a cerchio armati del loro strumento e, senz’altra istruzione, invitò a “suonare un pezzo”. Venticinque musicisti vicendevolmente estranei e con diverse aspettative e mire nei confronti del seminario, presero a suonare uno sopra l’altro. Tale primo approccio durò approssimativamente dieci minuti.

Al termine del pezzo Rosenberg (che aveva ascoltato con gli occhi chiusi), fece passare ancora un po’ di silenzio, e poi, molto laconicamente, annuì. La situazione era ancora davvero insolita: «com’era andata?». Impossibile saperlo davvero. Probabilmente c’era chi pensava che il pezzo prodotto fosse stato “inascoltabile e caotico”, ma era perfettamente possibile che qualcuno dei presenti lo avesse trovato “emozionante e ricco”, o anche semplicemente “comprensibile” quanto “incomprensibile”. A tal proposito sembrano calzanti i ragionamenti di Wittgenstein: se ognuno durante il pezzo ha cercato di seguire alcune sue regole private e se queste regole non sono state esplicitate, e nessuno è sicuro di quali regole sono prese in considerazione dall’altro, il risultato consiste in una sovrapposizione ermetica di linguaggi privati. L’insegnante disse allora «Molto bene. Adesso, a turno, vi prego di presentarvi agli altri dicendo il vostro nome assieme al vostro signature sound». Signature sound non è un termine del metalinguaggio musicale: è ovviamente di facile tradizione con “firma musicale”, ma è sostanzialmente una nozione non codificata. Innanzitutto, al contrario della firma autografa, che viene insegnata a scuola, nessun musicista è invitato a costruirsi un signature sound per usi burocratici o

31 L’analisi che segue è stata condotta con il supporto della videoregistrazione

relazionali. Cosa si deve mettere dentro a un signature sound? Quanto dev’essere lungo? C’era tra i musicisti qualcuno che si era già possedeva, essendoselo creato esplicitamente, un signature sound? Durante il giro di firme musicali risultò che il piccolo sigillo veniva interpretato in genere come un frammento variabile dalla frazione di secondo ai due-tre secondi. Ci fu chi utilizzò un’articolazione musicale (alcune note), ci fu chi si limitò a produrre uno o più timbri dal proprio strumento. Il primo, influente, signature sound fu di Rosenberg stesso, che disse «Scott, [#]», emettendo cioè subito dopo il proprio nome un armonico dal proprio sax, con la stessa durata con cui si pronuncia in genere una vocale recitando l’alfabeto. Dopo questo giro di firme, la stessa valutazione sul brano precedente cominciava ad essere più agevole, perché ci si poteva avventurare in inferenze più supportate. Forse il sassofonista che si era firmato con un urlo squarciante avrebbe preferito più violenza. Forse la clarinettista che aveva emesso due note acute e leggere avrebbe preferito un po’ più di humour. E per verificare queste ipotesi, dopo la presentazione delle firme, si suonò ancora tutti assieme, un altro “pezzo”, che questa volta durò di meno.

Al termine, di nuovo tutti gli occhi puntati sull’insegnante, il quale, annuisce ancora e chiede ai musicisti «che cosa pensino del pezzo appena suonato». Gli interventi generano un’appassionata discussione che palesa maggiormente le attitudini di ognuno, ma che non pare certo sufficiente a definire un’opinione comune sul pezzo eseguito. «Suonate allora, a turno, uno dopo l’altro, un pezzo solista, lungo circa tre minuti», dice Rosenberg. In effetti, come per la firma autografa, una firma musicale non può essere davvero rappresentativa, ci vorrebbe forse un equivalente dell’esame attento di un grafologo per estrarre informazioni utili sulla personalità. L’a solo invece è il momento dove le componenti di una identità musicale si dispiegano lungo la durata della performance. Al contrario del signature sound, l’assolo in musica è una pratica ben conosciuta. Genericamente associata ad espressioni di virtuosismo, la dimensione dell’a solo è caratterizzata anche da un corpus di pezzi scritti appositamente per strumento solista. Nel caso di un seminario sull’improvvisazione, era abbastanza evidente che non si richiedeva un assolo virtuosistico né tanto meno un’esecuzione di un brano di repertorio, per quanto rappresentativo. Tra l’altro è perfettamente possibile che un musicista professionista, anche di un certo livello, non si sia mai specificamente preparato ad esibirsi a solo. Un bassista, un trombettista, un pianista, ognuno di loro si

esercita a casa, da solo, e improvvisando in situazioni di gruppo può ritrovarsi a suonare letteralmente da solo, perché il resto del gruppo ha deciso di lasciarlo così, ma può non aver mai pensato di esibirsi a solo come scelta estetica. Si può amare la chitarra senza per questo preparare un repertorio solistico, e questo è vero soprattutto per chi non studia musica classica32. Ma qualunque fosse

l’intimità che ognuno avesse con la pratica dell’a solo, ciascuno poi dovette mettere da parte ogni eventuale perplessità e prodursi senz’altro nel proprio contributo. Al termine del lungo giro di soli (che a volte superarono il limite dei tre minuti: la facoltà di “sentire” il tempo cronometrico mentre si suona non è cosa da tutti), l’insegnante chiese un ulteriore pezzo d’assieme, con il quale si sarebbe chiusa la prima parte del seminario. Il pezzo uscì: difficile qui ricorrere a dati fondati o misurazioni scientifiche, la cosa interessante fu che, terminata la lezione, tutti i musicisti intervistati concordarono nel definire l’ultimo brano, quello suonato dopo gli a solo, come il più «comprensibile», il più «organico», il più «musicale». Arduo ovviamente dire “bello” o “brutto”, ma qui non interessa più: quello che importa è provare a mettere in relazione questo artificio didattico con la questione della voce dell’improvvisatore, poiché ora pare possibile iniziare a rispondere alle domande poste sopra. Che cosa si ascolta di un improvvisatore radicale? Per cominciare, la voce.