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Mappa 4. La posizione di Xinzhucun, tra le città di Judian e Ludian (si veda il sito: Google Maps).

2. Impostazione teorica della ricerca

2.1 Approccio ecologico-relazionale

In altre parole, l’oggetto dell’antropologia culturale non è una tela già filata che le persone indossano come un vestito (o un paio di occhiali), ma l’attività di “tessitura” stessa, per mezzo della quale gli esseri umani intrecciano le proprie esistenze all’ordito della loro nicchia ecologica (Grasseni e Ronzon 2016: 29).

L’antropologia è una scienza nata in Occidente. Il pensiero occidentale è stato lungamente informato a quello di stampo illuminista, quello derivante da Descartes e Spinoza, tipico delle cosiddette scienze dure. Questo presupponeva una concezione dell’uomo come separato alla natura ed in opposizione ad essa per raggiungere i propri fini (in primo luogo, la sussistenza); lo dipingeva in una posizione che gli consentiva di osservare il mondo, che egli presupponeva staccato da sé, in modo oggettivo, ossia da soggetto nei confronti di un oggetto passivo. Ingold afferma:

Western ontology, as we have seen, denies this, asserting that meaning does not lie in the relational contexts of the perceiver’s involvement in the world, but is rather laid over the world by the mind. Humans alone, it is said, are capable of representing an external reality in this way, organizing the data of experience according to their diverse cultural schemata» (Ingold 2000: 51)

Si imponevano sul mondo delle visioni che in realtà erano create a priori nella mente degli osservatori, come afferma Patrick Pérez: «Look at the earth as a mirror of culturally built representations» (Pérez 2012: 85). In antropologia si è lungamente cercato di dare conto a certi fenomeni, come ad esempio l’esistenza di certe azioni date per scontate (il camminare, ad esempio) come universali umani, le cui componenti biologica e sociale sembravano intrinsecamente intrecciate. Per spiegare la connessione tra questi due aspetti, la cui separazione non era messa in discussione, si è necessariamente ricorsi, sullo stampo degli studi sull’apprendimento del linguaggio, alla presenza di un terzo fattore: la mente, ossia una serie di ingranaggi (o dispositivi) trasmessi per via genetica e conformati appositamente per decodificare i segnali provenienti dal mondo ed introiettare il “programma” in cui consisterebbe la cultura specifica di un posto (incluso il linguaggio, il modo di

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camminare, ecc.). Ingold fa riferimento a questa come la “tesi della complementarità” (dal momento che presuppone la compresenza di questi tre elementi distinti per spiegare la vita umana), via della quale già Marcel Mauss (1936: 389 cit. in Ingold 2016: 51) ebbe un’intuizione e che perseguirono diversi studiosi di antropologia cognitiva come Roy D’Andrade. Questa teoria, che per anni è rimasta in auge, era dovuta ai contributi di diverse scienze, come la biologia evolutiva, le scienze cognitive in psicologia e la teoria culturalista in antropologia. Il comune errore di questa “ortodossia bio-psico- culturale” (Ingold 2016: 58-59), a parere di Ingold, era quello di dare per scontata la separazione, sulla stregua della forma di pensiero dicotomizzante tipica della società occidentale, di sostanze da una parte e forme dall’altra, ovvero di patrimonio genetico, meccanismi di apprendimento e “culturgens” o “modelli culturali” (“pacchetti”, “tratti” o “geni” di informazioni culturali preesistenti) (Ingold 2016: 58,71,97) da una parte, e forme organiche, capacità di pensiero e comportamenti dall’altra (Csordas 1990: 7).

A seguito di studi antropologici condotti, tra gli altri contesti, in uno svariato numero di popolazioni di cacciatori-raccoglitori, e delle ricche diatribe emerse negli anni in diversi campi del sapere umano (incluse le cosiddette “scienze dure” e la filosofia), si è iniziato a contestare la validità dei presupposti teorici su cui si fondano tali teorie, basate sull’unicità della coscienza umana e sulla disincarnazione dell’essere umano dal suo contesto di vita (Ingold 2000: 40-60). Sulla base degli studi di discipline come la biologia dello sviluppo, la psicologia ecologica, e la teoria antropologica delle pratiche, si è sviluppato un punto di vista molto differente (Ingold 2016: 59-79). Dati fondati largamente sull’osservazione empirica hanno mostrato che: lo sviluppo anatomico dipende dall’ambiente fisico di crescita e dallo stile di vita; la struttura di pensiero delle persone, le capacità di comprendere e rappresentarsi il mondo, avvengono a seguito di un processo guidato dalle persone già “acculturate” e che si basa proprio sulle caratteristiche di un unico contesto di vita; ogni cosa che si apprende, non viene tramessa, ma riappresa da ogni nuovo membro di una comunità nell’immersione corporale continuativa e nell’esercizio pratico e frequente all’interno dello spazio abitativo condiviso (Ingold 2016: 62-76). A seguito di queste osservazioni, il modello fondato sulla complementarità di una base biologica incompleta, alla quale sarebbe sovrapposto uno strato immateriale di nozioni, riempiti dalle quali gli individui sarebbero socializzati secondo una determinata cultura e restringerebbero il campo di infinite potenzialità che il patrimonio genetico avrebbe garantito loro, non funziona (Ingold 2016: 72, 76-79). Diviene necessario assumere un modello che presupponga un concetto diverso di uomo. Il suo essere un organismo biologico comprende in sé modalità di percezione del mondo e di comportamento, dal momento che egli non è altro che uno degli infiniti nodi relazionali di cui è costituito l’ecosistema del particolare ambiente in cui è immerso, e questo è interamente costituito da materia. Infatti:

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Le forme organiche vengono poste e mantenute in essere a causa del perpetuo interscambio con i loro rispettivi ambienti, non a dispetto di esso. […] Ciò che è dato inizialmente è un continuo campo generativo all’interno del quale le forme emergono come entità discernibili e distinte. Ma poiché un “ambiente” può solo essere riconosciuto in relazione a un organismo di cui esso è ambiente, […] il processo di formazione dell’organismo è anche il processo d formazione del suo ambiente (Ingold 2016: 91).

In altre parole l’eleggere l’uomo come oggetto di studio di discipline come l’antropologia, deriva dal fatto che si stia attuando una finzione concettuale, che semplifica il reale al fine di spiegare alcune delle relazioni, per noi particolarmente significative, che avvengono in questi complessi sistemi fittamente intrecciati; in realtà, non vi è nessun confine netto tra le persone e il mondo, che, essendo noi tutti umani, percepiamo spontaneamente come “esterno” ma del quale siamo parte. Questo tipo di ragionamento è improntato sulla formulazione datane da Martin Heidegger, secondo la quale, sulla base di un mondo costituito da relazioni di cui nessuna è prevalente sulle altre, prendere in analisi una cosa significa “raggruppare” il mondo attraverso essa, ossia considerare il mondo dando la preferenza alle relazioni che la riguardano. Infatti, come afferma Arnar Árnason: «A thing is present through its relations and associations in the world rather than as a neutral or free-floating entity: the bridge is a bridge because it affords passage from one bank to another» (Árnason et al. 2012: 3)). Inoltre, a seguito di queste considerazioni sulla natura del legame tra uomo, cultura e ambiente, diventa necessario adottare un paradigma epistemologico come quello di cui si diceva sopra, secondo il quale non sia possibile fare distinzioni tra l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione, dal momento che entrambi sono parte di un insieme ambientale maggiore che li comprende. Pertanto il frutto di una ricerca scientifica mostrerà contemporaneamente l’oggetto dell’osservazione e rivelerà la soggettività dell’osservante.

Come si è visto, l’approccio ecologico-relazionale intende spiegare la vita degli esseri umani integrando il suo aspetto sociale all’interno di quello biologico, ricomponendo i poli erroneamente separati di organismo e persona (Ligi 2003: 129). La selezione naturale non opera sui singoli individui o specie, ma sull’intero ecosistema di cui essi sono parte. L’organismo vivente in questo contesto sarebbe un «Nodo in un campo morfogenetico, all’interno del quale ciascuna parte prende forma in relazione continua con tutte le altre parti, in modo tale che la forma della parte inflette (enfold) al suo interno l’intero sistema delle relazioni che l’hanno resa ciò che è» (Grasseni e Ronzon 2016: 11). Il

campo morfogenetico è un dominio spaziale in cui lo stato di ogni parte è determinata dallo stato delle

parti vicine, in modo che ciascuna e il loro insieme abbiano una specifica struttura relazionale (Grasseni e Ronzon 2016: 30): si tratta della proprietà di auto-organizzazione della vita (Ingold 2016: 91). Dal momento che ad evolvere e svilupparsi è l’intero sistema costituito da un fitto intreccio

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relazionale, possiamo parlare dello sviluppo e dell’adattamento della specie umana in modo separato dal sistema nel quale essa è imbricata solo compiendo una finzione concettuale. Per mostrare quanto questi concetti siano estranei meramente alla mentalità occidentale, Ingold pone l’esempio della parola “vita” in uso presso i Cree dell’America settentrionale: primaatisiiwin, ovvero “continua nascita”. Inoltre, in questo gruppo etnico, non vi è differenza di termini per esprimere i concetti di “organismo” e “persona”, o quelli di “essere una persona” e “essere vivi”. L’attenzione non è concentrata su singoli individui ma su un ecosistema che evolve (Ingold 2000: 51-58). Quello dell’adattamento sarebbe un processo inevitabile innescato dalla conformazione biologica dell’essere umano, sprovvisto, al contrario di tutte le altre specie animali, degli equipaggiamenti fisici ed istintuali necessari ad affrontare la vita nel contesto ecologico dove egli è nato. Come afferma Ingold, «I geni non prescrivono comportamenti specifici, bensì sottendono la straordinaria plasticità fenotipica della specie, che si manifesta nella grande diversità di strategie di vita, fornendo un insieme generalizzato di preferenze che fanno propendere gli individui per l’adozione di strategie che ne esaltano la capacità produttiva» (Ingold 2016: 96). Secondo l’opinione di Clifford Geertz, dunque, la cultura sarebbe il suo strumento per compensare alla propria incompletezza biologica; strumento che, a giudicare dalle capacità che l’uomo ha sviluppato di vivere in qualsiasi tipo di condizione ambientale e climatica, si è dimostrato un grandissimo vantaggio (Geertz 1998). Come afferma Gianluca Ligi, l’uomo non sarebbe dunque fondamentalmente dotato di una mente in quanto macchina preformata geneticamente nella quale vengono inseriti dati da elaborare, ma di un cervello, integrato nel contesto ecosistemico di cui, in quanto organismo, egli è parte, e dotato di una fortissima capacità adattiva in risposta ai cambiamenti degli equilibri complessivi (Ligi 2003: 282).

Il pensiero relazionale, così come è esposto da Ingold, prevede una concezione di cultura non super-organica né sovra-biologica: essa non è qualcosa di astratto che si aggiunge agli organismi biologici, ma è «Una misura della differenza tra di loro» (Ingold 2016: 77). Il suo punto di vista si può riassumere in questo modo:

Significa trattare gli organismi non come entità discrete, predefinite, ma come luoghi di crescita e di sviluppo all’interno di un continuo campo di relazioni. È un campo che si dispiega (unfolds) nelle storie di vita degli organismi e che essi introflettono (enfold) (attraverso processi di incorporazione28

o in-menta-mento) nelle loro specifiche morfologie, capacità di movimento, di coscienza e di risonanza. […] noi stessi non siamo più capaci di guardarlo dal fuori [il processo evolutivo] di quanto non lo siano altre creature di altro tipo, e che, come loro, partecipiamo di un tutto. Di una continua vita organica (Ingold 2016: 79).

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L’analisi di ogni aspetto dei modi di vita umani è, in questa prospettiva, basata sulle interazioni tra una società e l’ecosistema in cui è insediata; si tratta di un rapporto di interdipendenza non deterministica (Ligi 2003: 123) di umani e ambiente dovuta ad una lunga compresenza e al reciproco adattamento. Le relazioni sociali, al contrario, sarebbero un subset di quelle ecologiche: i domini di “persona”, “società” e “cultura” coinciderebbero in realtà con quello di “natura”. L’antropologia ecologica, dunque, prende come punto di partenza il coinvolgimento percettivo delle persone con le componenti del proprio ambiente, esclusivamente dato il quale esse possono lanciarsi in fantasie speculative su come possa essere fatto il mondo; è solo perché esse vivono in un ambiente che possono pensare, e che si può parlare di cultura (Ingold 2000: 60).

Riassumendo, gli esseri umani non sono scindibili dall’ambiente in cui vivono o dalle modalità di percezione e dalle strutture di ragionamento convogliate dalla propria comunità. Ingold sostiene che le capacità tecniche e il modo di comportarsi degli uomini non sono una mera sequenza di movimenti di determinati individui, ma un prodotto del tutt’uno che costituisce l’ambiente e gli organismi che lo abitano (Ingold 2016: 150). Nelle discipline sociologiche tradizionalmente si tendeva a dare l’ambiente come un dato fisso e a sé stante, le culture come delle sorte di pacchetti inerti e passivi di simboli e significati dall’essenza e provenienza ignota che si sarebbero sovrapposti al patrimonio genetico delle persone, e i saperi come rappresentazioni del mondo discendenti dalla sola conformazione di questo. I saperi, al contrario, secondo l’approccio che utilizzerò in questa trattazione, sarebbero il risultato del «Simultaneo emergere di mente e mondo nella storia dello sviluppo dell’organismo all’interno del proprio ambiente di vita» (Ingold 2016: 25). La cultura è un prodotto dell’inserimento degli organismi umani in un determinato ecosistema.