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Autarchia, pragmatismo e «italianità» della canzone

L’invenzione della «canzone italiana»

2. Canzone, italianità musicale e pubblico nazionale

2.3. Il Fascismo, la canzone, le musiche afroamericane

2.3.2. Autarchia, pragmatismo e «italianità» della canzone

L’Eiar, allora, osteggia e ostracizza musica e musicisti stranieri innanzitutto in quanto stranieri, e dall’entrata in guerra in poi in quanto nemici. Il caso del direttore d’orchestra inglese Claude Bampton, assunto nel 1935 e rapidamente licenziato anche per il peggioramento dei rapporti con la Gran Bretagna è esemplare (Mazzoletti 2004, p. 327-329). La programmazione della radio esclude in primo luogo la musica d’importazione, quella «di carattere negro» e «con ritornelli cantati in inglese» (p. 328), mentre la musica italiana di influenza afroamericana riesce, complice qualche escamotage dei musicisti e il pragmatismo dei dirigenti, a trovare comunque i suoi spazi. Lo stesso autore dell’editoriale sopra citato, nell’auspicare un miglioramento qualitativo della canzone italiana soprattutto per quanto riguarda il testo, è costretto a riconoscere che

la musica leggera che si produce in Italia non è sufficiente ad alimentare le ore di trasmissione ad essa dedicate, tanto che, volendo ricorrere solo limitatamente alla musica straniera, [l’Eiar] deve rimediare con frequenti ripetizioni delle stesse musiche. 13

Se prendiamo la propaganda per quello che è, troveremo come musiche di influenza afroamericana siano non solo ampiamente diffuse e ben metabolizzate all’interno dell’industria musicale italiana, ma addirittura necessarie al suo funzionamento. Nella pratica musicale si può riconoscere agevolmente una ricca compresenza di elementi «italiani» e «americani», ed è inesatto pensare che queste musiche circolassero solo perché tollerate dal regime, o per distrazione degli altrimenti solerti censori. Le influenze afroamericane non sono sommerse, o annidate negli interstizi sfuggiti alla censura, ma almeno per certi periodi la loro natura è spesso esplicitata. Solo così si spiegano certi riferimenti «ibridi» – come l’indicazione «stornello jazz», che compare su un 78 giri di «Fiorin fiorello» accanto alla dicitura «Prodotto italiano autarchico» (FIGURA 5.1).

FIGURA 5.1. Etichetta di «Fiorin fiorello», 1938 [circa].

Piuttosto, si tratta di rendere il jazz il «meno americano e negroide possibile», sostituendo «ai parossismi musicali alla Armstrong e alla Ellington […] interventi e improvvisazioni, appoggiati su un solo elemento base: la melodia», come scrive nel 1941 il popolare fascicolo periodico Canzoniere della radio, in un articolo dedicato al direttore inglese (ma naturalizzato italiano) Alberto Semprini.14 Ma, purché di produzione italiana, e indipendentemente dallo stile

– più tradizionalista o più moderno – la «musica leggera serviva il regime nel suo complesso» (Fabbri 2015a, p. 239), e le politiche di Eiar e MinCulPop sono orientate a un approccio nei suoi confronti il più pragmatico possibile.

Nel descrivere le modalità di azione del Ministero della Cultura Popolare, e in particolare del ministro Alessandro Pavolini (in carica dal 1939 al 1943), Nicola Tranfaglia ha parlato di «modalità proprie di una moderna dittatura di massa» (2005, p. xxvii), ricordando come il ministro della cultura popolare agisse in diretto rapporto con Mussolini, con cui aveva udienza quotidiana. Di pragmatismo si tratta, perché l’«attenzione a non esagerare, a non dare indicazioni che si rivelino inattendibili o controproducenti» (ibidem) è al centro del lavoro quotidiano del ministro e dei suoi collaboratori. Non sorprende che anche la canzone sia oggetto delle attenzioni del Ministero, con accostamenti tristemente grotteschi: ad esempio, che si chieda di tacere circa «la cittadinanza

14 Sergio Valeri, «Alberto Semprini», Canzoniere della radio, fascicolo 25, 1 dicembre

italiana delle Lescano»15 e su notizie simili fino alla fine della guerra, perché

questo genere di informazioni leggere «irrita i combattenti o determinate zone di opinione», poco dopo aver richiesto invece di «dare un certo rilievo alle liste dei caduti nelle incursioni aeree».16

Nel Rapporto ai giornalisti del 23 novembre 1941 il ministro aveva esposto i «provvedimenti ministeriali nel campo della musica leggera per il miglioramento della canzonetta», evidenziando come l’argomento non fosse da prendere alla leggera, «perché la canzonetta è un indice come un altro della mentalità di un popolo e la sua voce in certe occasioni è anche utile».17 Tuttavia

l’Eiar, ammetteva Pavolini, è costretta a trasmettere canzonette «perché i combattenti le richiedono», e se trasmettesse solo musica melodica «coloro che hanno un gusto un po’ pervertito della musica esclusivamente ritmica, o sincopata, praticamente andrebbero a sentire altre stazioni straniere».

In realtà – continua il ministro – a poco a poco è nata una

musica leggera nostra in cui una certa vena melodica è risorta

sullo sfondo ritmico che ha invaso il mondo compresa la Germania e il Giappone e quindi si tratta, insistendo, di avvicinarsi sempre di più a un tipo di musica nostra […].18

Ancora l’anno seguente, nel Rapporto ai giornalisti del 9 marzo 1942, Pavolini si sente in dovere di tornare sull’argomento, stimolato dalle polemiche che vede affiorare «specialmente nella terza pagina» dei giornali: il «desiderio delle masse e particolarmente dei combattenti» è quello di avere canzonette alla radio. Da ciò, le politiche culturali e l’Eiar hanno

poco a poco cercato di italianizzare il tipo della musica leggera corrente, quella di creazione italiana che ha ripreso la sua via di espansione e si diffonde un po’ dappertutto […]. Si è passato poi dalla musica sincopata dell’America a una musica con prevalente carattere ritmico in tutto il mondo. Su questo sfondo ritmico è rinata nella musica leggera italiana una vena melodica

che designa queste canzoni come italiane. Si è cercato anche a

15 Sandra, Giuditta e Caterinetta Leschan – il Trio Lescano – erano olandesi cattoliche

di madre ebrea.

16 Rapporto tenuto dall’Eccellenza Pavolini ai giornalisti, 17 giugno 1942. Citato in

Tranfaglia 2005, p. 266.

17 Rapporto tenuto dall’Eccellenza Pavolini ai giornalisti, 23 novembre 1941. Citato in

Tranfaglia 2005, pp. 202-203; si veda anche Piazzoni 2011.

poco a poco di modificare il modo di cantarle, la composizione delle orchestrine, ecc. Tutto questo però entro certi limiti

perché il pubblico non è chiuso in una stanza ed obbligato ad ascoltare quello che noi trasmettiamo.19

Insomma, il fine giustifica i mezzi, e Pavolini accetta esplicitamente la «contaminazione»: l’«italianità» della canzone – che secondo il ministro starebbe nella melodia opposta al ritmo, e non tanto nel contenuto delle canzoni (Piazzoni 2011, p. 33) – non può imporsi nei gusti dei «combattenti» senza assecondarli, senza appoggiarsi cioè al successo della musica afroamericana. Casomai, il pubblico deve essere educato, progressivamente, a qualcosa di più «nostro», e meno «pervertito»·

Molto più di qualunque palinsesto radiofonico o articolo di giornale, questi documenti ministeriali possono essere letti come un’incredibile fonte circa i gusti musicali degli italiani fra anni trenta e quaranta, e su come fosse interpretata la «canzone italiana». Quello che Pavolini descrive è però più che altro un auspicio, un tentativo di italianizzazione della canzone non destinato – per il momento – a lungo seguito: siamo nel 1942. Dopo il 25 luglio del 1943 il ministro scapperà in Germania, e la canzone non sarà in cima alla sua agenda. Nel periodo dell’occupazione tedesca, le politiche radiofoniche dell’Eiar sono sotto il diretto controllo nazista, e si assiste piuttosto a una «germanizzazione» del repertorio, anche di quello «italiano» (Malvano 2015, pp. 25 e sgg.).

Rimane da affrontare il tema del «carattere italiano» della canzone. Basta rileggere le fonti citate, e altre ancora che potrebbero essere riportate, per verificare come l’opposizione alle musiche afroamericane durante il regime, anche quando fondata su argomentazioni razziali, riguardi sempre e comunque il tema dell’identità nazionale. I commentatori, quando deprecano il «groviglio di ritmi» e il «tumulto assordante di rumore», o le «movenze grottesche e talvolta oscene dei selvaggi e degli scimpanzé» 20 lo fanno sempre in

contrapposizione a una «tradizione italiana». Di che tradizione si tratta? Non certo di quella della canzone. L’ascolto dei brani prodotti in Italia durante il

19 Rapporto tenuto dall’Eccellenza Pavolini ai giornalisti, 9 marzo 1942. Citato in

Tranfaglia 2005, p. 238. Corsivi miei.

Fascismo (o almeno, di buona parte di essi) può facilmente smentire l’idea che una «canzone italiana» fondata su una qualsivoglia «purezza etnica» esistesse, negli anni trenta, se non nei desideri del MinCulPop. Elementi di «italianità musicale» sono certo riconoscibili nel repertorio della «musica leggera» del ventennio, ma altrettanto lo sono elementi «altri», di derivazione soprattutto afroamericana.

Gli elementi «italiani» non si rifanno mai, comunque, a una tradizione codificata di canzone. Più generalmente, sono caratteri musicali che erano associati sì con uno stereotipo nazionale, prima fra tutti la melodia, ma non con la «canzone italiana». Esistevano cioè «canzoni italiane», e anche «all’italiana», ma non «la canzone italiana» come sarà intesa di lì a poco, con una sua tradizione e un suo canone. Queste considerazioni sono significative soprattutto se si considera come, nel dopoguerra, le politiche della Rai promuovano una valorizzazione della «canzone italiana» usando come termine di paragone un suo passato glorioso – passato che sembra assumere, allora, contorni decisamente immaginati, se non immaginari tout court.