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Un modello pragmatico dei generi musical

2. I generi nell’epoca della cultura di massa

2.1. Nuove funzioni di genere

Secondo Charles Hamm, la maggior parte delle riflessioni musicologiche sul genere musicale si fondano sull’assunto implicito che il compositore e l’ascoltatore condividano con il critico la medesima conoscenza tecnica del genere in questione e delle sue implicazioni sociali e storiche (Hamm 1994, p. 144). A ben vedere, lo stesso vale per molte teorie «classiche» del genere

letterario. Hamm non commenta sulla veridicità o meno di questo assunto, ma afferma che non sarebbe un modello applicabile alla popular music. In effetti, se osserviamo per un istante la quantità e l’eterogeneità dei generi che organizzano il campo della popular music, siamo costretti ad ammettere che sotto l’etichetta «genere» sono raccolte categorie che hanno significato diverso per diverse persone, e che non è possibile trattare il concetto di genere in maniera monolitica, unicamente come concetto critico «interno» al campo musicale o letterario.

L’«assunto implicito» enunciato da Hamm riguarda unicamente la funzione più tipicamente associata ai generi nell’ambito della critica: «mettere a disposizione dei modelli per la creazione delle opere d’arte» e «un linguaggio per spiegarle al pubblico» (Altman 2004a, p. 266). La funzione più classica dei generi, cioè, si esaurisce semioticamente all’interno del triangolo autore (o compositore) – critico – pubblico. È un modello pre-moderno, in un certo senso, che si rispecchia in una lettura statica della società in cui i processi di comunicazione artistica avvengono all’interno di un gruppo sociale organico, una singola comunità che condivide valori e significati. Di fatto, una élite.

Con la «rottura delle strutture sociali, economiche e politiche sottese al sistema neoclassico» (Altman 2004a, p. 267) le funzioni di generi però cambiano. A partire dall’ottocento, gli sviluppi delle tecnologie di stampa permettono la diffusione di contenuti ad un vasto strato di popolazione (la penny press, ma anche le partiture, i fogli volanti con i testi delle canzoni…). Con il processo di industrializzazione che si avvia intorno al 1875 ha inizio la prima «rivoluzione industriale» nel settore delle comunicazioni (Ortoleva 1997, p. 76). I mercati pubblicitari esplodono, nuove tecnologie (il fonografo, il grammofono, la fotografia) vengono messe a disposizione di privati che beneficiano anche di nuovi spazi e risorse per il proprio tempo libero, dal cinema, al nickelodeon, fino ai pianoforti economici (Hamm 1990) e – più tardi – al disco. Nella società moderna al «pubblico» si sostituiscono più «pubblici», diversificati in base agli interessi, allo strato sociale, al livello culturale. Sono pubblici potenzialmente transnazionali, non vincolati alla compresenza nel medesimo spazio fisico. Anche la funzione dei generi, allora, si modifica: da categoria critica e artistica, essi diventano etichette necessarie per definire e «unire» i singoli pubblici. L’industria può ora creare e sfruttare nuovi generi. I

pubblici contribuiscono a crearne i significati e a determinarne le fortune o le disgrazie.

È in questo contesto storico e produttivo che si assiste a un «ritorno alla ribalta del genere non più come norma poetica [ma come] parola chiave in grado di rispondere alle nuove esigenze che la nascente industria culturale porta con sé» (Griffagnini 2004, p. 3). Nell’organizzazione della popular culture l’uso delle «categorie di genere» diviene «in apparenza inevitabile» (Frith 1996, p. 75). Le nuove funzioni dei generi si sviluppano dunque in concomitanza storica con la nascita di nuove forme di comunicazione, rispondendo a nuove esigenze di standardizzazione della produzione, e di targettizzazione di fasce specifiche di pubblico, al punto che il genere diventa l’«elemento cardine dell’industria culturale» (Griffagnini 2004, p. 3).

È interessante notare come l’origine della popular music come «terzo tipo di musica», nella definizione di Derek Scott (2008; 2009) – ovvero la sintesi di «categorie separate per la musica classica (o seria), per la musica folk (o tradizionale) e per la musica popular (o di intrattenimento)» (Scott 2009, p. 4) – si spieghi nell’ambito di questa rivoluzione dei consumi. Lo «stile popular» (van der Merwe 1989) nasce appunto nel contesto delle metropoli moderne, come conseguenza della moltiplicazione e della diversificazione dei pubblici permessa dalla nascente industria culturale. Appare allora chiara la centralità dei generi nella nascita di una «popular music» nell’occidente industrializzato dell’ottocento: il momento storico in cui mutano le funzioni di genere è anche quello in cui si rende necessario distinguere fra una musica «seria» e una «d’intrattenimento», e in cui le due tradizioni si separano (ibidem). Se, da un lato, i generi continuano ad assolvere la loro funzione critica e normativa più classica, dall’altro le necessità di organizzare le pratiche musicali «popolari» afferma nuove etichette con nuove funzioni d’uso, il cui significato è ora negoziato fra molteplici attori: i produttori (nel caso della musica: autori, compositori, arrangiatori, musicisti…), i critici, i pubblici e l’industria. Si spiega così storicamente quella «priorità metodologica» (Moore 2001, p. 433) che il tema dei generi ha nello studio della popular music.

La specificità del sistema dei generi introdotto a partire dall’ottocento riguarda allora la loro funzione all’interno del sistema di mercato e dell’industria culturale. Questo non deve però indurre a considerare unicamente

la funzione «industriale» dei generi. Se pure i «vocabolari e le classificazioni [della popular music] sono regolati per lo più dall’industria musicale e dalle riviste in una relazione dialettica con le comunità locali» (Holt 2003, p. 81), il funzionamento del sistema dei generi, i significati simbolici collegati a essi, la loro esistenza sociale, il ruolo che giocano nell’organizzazione delle pratiche musicali, prescindono da criteri meramente industriali. L’accento sul sistema industriale, sui suoi vincoli e i suoi criteri commerciali, deve piuttosto essere contestualizzato, come ha suggerito Negus, in una visione più ampia che consideri la cultura come un «intero sistema di vita» («a whole way of life», sulla scia di Raymond Williams): è cioè la «cultura che produce un’industria» (Negus 1999, p. 15), e non viceversa. Più che in istituzioni o autorità regolatrici di qualche tipo in grado di imporre le proprie classificazioni (come è il caso nella musica eurocolta: scuole, enti, teorici…), se c’è un principio regolatore nella formazione diacronica dei generi della popular music, questo deve risiedere nelle complesse mediazioni in atto all’interno del sistema stesso.