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Canzoni e mandolini: l’origine «popular» dell’italianità musicale

L’invenzione della «canzone italiana»

2. Canzone, italianità musicale e pubblico nazionale

2.1. Canzoni e mandolini: l’origine «popular» dell’italianità musicale

Naturalmente, si canta in italiano ed esistono canzoni italiane almeno da quando esiste la lingua italiana. Ma l’ovvietà è solo apparente, e non risolve il problema di stabilire da quando si possa parlare una «canzone (all’)italiana» le cui convenzioni siano condivise a livello nazionale. Non è neanche semplice decidere da quando si possa parlare di una comunità nazionale che si autopercepisca come tale (Patriarca 2010; Bollati 2011), vista la complessità dell’identità italiana, il ritardo nella diffusione di una lingua comune su tutto il territorio, e la peculiare storia politica della penisola. La stessa idea di «lingua italiana» è tutto fuorché monolitica. Al contrario, ha notato Marcello Sorce Keller, nel periodo in cui Metternich pronunciava la celebre frase «l’Italia è un’espressione geografica» – descrivendo di fatto il ritardo e la complessa formazione dell’identità di una «nazione» divisa politicamente in numerosi staterelli, e linguisticamente in svariati dialetti e ceppi linguistici – l’Italia era

però «un’espressione musicale» (Sorce Keller 2014, p. 19). Esisteva, cioè, una «musica italiana», in Italia e all’estero.

Gianni Borgna ha identificato in «Santa Lucia», scritta nel 1848 da Enrico Cossovich e Teodoro Cottrau, l’«inizio della storia della canzone italiana» (1992, p. 13), riconoscendo però come «prime vere canzoni italiane» (p. 80) alcuni brani degli anni dieci del novecento: «Fili d’oro» (1912) e «Come le rose» (1918), portate al successo da Gennaro Pasquariello, «Come pioveva» (1918) di Armando Gill,7 e «Cara piccina» (1918), cantata da Lilly Gay. Questi

brani sarebbero accomunati da un nuovo modo di usare l’italiano, «finalmente depurato dagli arcaicismi e dai moduli letterari, colloquiale, intriso di spirito quotidiano» (p. 82). La proposta di Borgna, che non tiene conto della musica, è interessante in una prospettiva di storia della lingua, ma non particolarmente risolutiva per i fini di questo capitolo. Né è risolutiva la periodizzazione proposta dall’italianista Lorenzo Coveri, che – identificato il punto di svolta della storia linguistica della canzone in «Nel blu dipinto di blu» di Modugno – parla per tutto il periodo precedente di un «linguaggio delle canzonette […] largamente imparentato con il linguaggio del melodramma» (1996, p. 15). La quasi totalità dei contributi critici sulla canzone italiana a cavallo della seconda guerra mondiale riguarda considerazioni di questo tipo sulla sua lingua (ad esempio: Lopez, Romeo & Timperi 1994). Ma la risposta alle questioni sull’«italianità» della canzone va evidentemente cercata al di fuori della sola storia della lingua.

In Italia la diffusione di un repertorio di canzoni d’intrattenimento nel contesto dell’industria del tempo libero è fenomeno più tardo rispetto ad altri paesi europei. È solo nel corso del primo trentennio del novecento che «la canzone italiana giunge a un’importante sintesi che porterà alla nascita di un repertorio nazionale di canzoni in dialetto e in italiano» (Agostini 2012, p. 276). Sarebbe errato affermare che un repertorio popular non esistesse prima: solo, questo non era identificato con una tradizione di «canzone italiana» nel senso odierno, e la situazione geopolitica della penisola, insieme al peso della tradizione partenopea anche al di fuori di Napoli, favorivano la frammentazione in tradizioni locali piuttosto che la costituzione di un genere «nazionale».

Ancora nel 1946, lo chansonnier Rodolfo De Angelis poteva parlare di «La leggenda del Piave» di E.A. Mario – canzone che più «italiana» non si può alle orecchie di oggi – non nei termini di una canzone «italiana», ma come brano che

[r]isolleva le sorti della canzone confezionata a Napoli che è in aspra lotta con i nuovi ritmi dei francesi, che preludono a quelli degli americani. (De Angelis 1946, p. 136)

Per un lungo periodo, insomma, la tradizione «nazionale» italiana di canzone per eccellenza, l’unica con una diffusione che superi i contesti regionali, è la canzone napoletana.

Già da tempo, comunque, il mercato delle edizioni garantiva una distribuzione capillare nel mondo di canzoni in italiano e in dialetto in forma di spartiti, fogli volanti, mandolini e copielle, a uso domestico o di formazioni professionali e amatoriali. Se un’identità «italiana» era attribuita alla canzone, è probabile che ciò sia avvenuto soprattutto al di fuori dei confini del Regno d’Italia, nello «sguardo dall’esterno» dei non italiani e delle moltissime comunità di emigranti, soprattutto nel continente americano.8 Musiche e

musicisti italiani concorrono fra l’altro alla nascita del tango in Argentina, del jazz negli Stati Uniti, e di molte altre tradizioni musicali in tutto il mondo. Ma che cosa circolava, in questo circuito globale delle musiche di intrattenimento, come «musica italiana»? La canzone napoletana, naturalmente; in misura minore, altre tradizioni regionali (la canzone fiorentina, ad esempio); e, naturalmente, il repertorio operistico.

Goffredo Plastino (2016) ha ben mostrato le dinamiche del successo internazionale della canzone napoletana persino prima dell’ottocento, anche grazie alle innovazioni di liuteria apportate al mandolino, che garantiscono allo strumento una incredibile diffusione globale prima come strumento da concerto, e poi domestico. La canzone napoletana arriva a toccare vette di popolarità inconcepibili oggi, con praticanti del mandolino attivi in tutto il mondo, e compagnie di musicisti (non solo napoletani, e non solo italiani) impegnati a diffonderla capillarmente. Il corredo ideologico, musicale e

iconografico (ad esempio, nelle cartoline o nei frontespizi degli spartiti) che ne supporta il successo globale insiste sovente su immagini di una «napoletanità» convenzionale, che spesso si sovrappone e si identifica, in realtà, con una «italianità»: il mandolino, il mare, il golfo di Napoli, immagini bucoliche di pastori musicisti, il vino, il cibo cominciano a riguardare l’identità «italiana» tutta, e non solo una sua componente regionale.

Discorso simile può valere per la diffusione del repertorio operistico. Come ha spiegato Marcello Sorce Keller, è nella seconda metà dell’ottocento che l’Italia raggiunge il picco nella propria auto-rappresentazione come «il paese della melodia» (Sorce Keller 2014, p. 23). Se questo fenomeno è stato messo in rapporto soprattutto con il successo internazionale dell’opera italiana, non è certo azzardato spiegarlo nel medesimo contesto economico e sociale che è alla base della «popular music revolution» descritta da Scott (2008; 2009). La stessa storia dell’opera italiana potrebbe essere riletta, e senza grandi forzature, come la storia di un repertorio popular diffuso e recepito in ambiente borghese e urbano. La centralità assunta da questo repertorio diviene allora uno dei simboli dell’identità culturale italiana. Un fatto che spiega, fra l’altro, perché la riscoperta dei materiali folklorici che caratterizza le cosiddette «scuole nazionali» europee non riguardi l’Italia, in cui la tradizione popolare-contadina rimane tutto sommato ignorata dalle pratiche colte.

L’idea di «italianità musicale», allora, era già ben codificata in Italia e all’estero quando compaiono le prime «canzoni italiane». Caratteri musicali e paramusicali «italiani» vengono riconosciuti a livello globale in parallelo allo sviluppo di tradizioni locali di musiche popular, nel contesto urbano delle grandi metropoli industrializzate e dei grandi scali portuali, nella seconda metà dell’ottocento. D’altra parte, la circolazione internazionale di arie d’opera (soprattutto in forma di riduzioni) e di canzoni napoletane è un aspetto decisivo nella costruzione di un repertorio di musiche d’intrattenimento condiviso a livello (quasi) globale. Se ancora non esiste, nella seconda metà dell’ottocento e nei primi decenni del novecento, una «canzone italiana» intesa come genere musicale, il legame fra l’«italianità» e l’idea di una musica «leggera» è però saldamente istituito da subito, non solo in Italia.