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Nuovi documenti per una nuova storia della musica

questioni metodologiche e font

2. I generi come strumento di storia

2.2. Nella pratica: i generi come fonte e documento

2.2.1. Nuovi documenti per una nuova storia della musica

Questo modello è efficace, in effetti, anche per razionalizzare il corpus delle fonti a disposizione dello storico della musica. Le fonti vanno intese in senso nuovo, «dinamicamente», come suggerito da Topolski: esse, cioè, sono «create […] non in senso ontologico, ma epistemologico dal soggetto del conoscere nel corso del processo conoscitivo» (De Luna 2004, p. 110; Topolksi 1997). I discorsi sulla musica, cioè, hanno un’utilità nel processo conoscitivo in funzione delle domande che vengono poste dallo storico, domande «diverse» in quanto adeguate al progetto di ricerca, all’insegna dell’empirismo (Topolski 1997, p. 52), sul modello, cioè, delle intuizioni di Jacques Le Goff, racchiuse nello slogan «all’inizio non c’è il documento, ma il problema» (De Luna 2004, p. 110). Il lavoro dello storico è allora valutabile in rapporto alla «solidità con cui ogni scelta è ancorata al criterio della congruenza fonte-oggetto, e alla trasparenza (e dunque alla continua verificabilità) di queste scelte» (Peroni 2005, p. 89).

Questo approccio permette anche di superare alcuni limiti che sono imputabili alle fonti abitualmente a disposizione dello storico della musica (e dello storico della popular music in particolare). In una recente riflessione, Franco Fabbri (2013) ha sostenuto la difficoltà di documentare, attraverso le fonti, quelle pratiche musicali talmente «normali» da non essere ritenute degne di documentazione da parte dei contemporanei. Insomma, «su quali prove empiriche si può fare affidamento» per scrivere una storia quotidiana delle pratiche musicali? «Di quali fonti (giornali, riviste, trasmissioni, audiovisivi, fonogrammi, eccetera) ci si può fidare?». Come si può, soprattutto, ricostruire «il senso comune, o l’ideologia di un certo periodo, genere o scena», lavorando sui documenti storici? (p. 3). Per una lunga fase, una delle poche fonti disponibili sulla popular music è rappresentata dalle riviste per giovani che – come è intuibile – sono fonti poco affidabili per molti aspetti: documentano solo

una parte dell’offerta musicale, omettendo quei musicisti più politicamente impegnati, scomodi, o semplicemente lontani dal gusto dei lettori; operano selezioni sulla base del potere economico delle case discografiche o degli editori; insistono su elementi di gossip, e così via: una storia della popular music basata unicamente sulle riviste musicali è una storia distorta e parziale. Una storia – per esempio – della ricezione della canzone d’autore sulle pagine di Sorrisi e canzoni è un’opera sicuramente utile e auspicabile, ma altrettanto ovviamente non è la «storia della canzone d’autore», così come la storia del rock italiano non è la storia della ricezione di questa musica su, poniamo, le pagine dell’Unità. Tutto sta, allora, nelle domande che a queste fonti, in apparenza vaghe, incomplete o addirittura inattendibili, vengono poste: con Bloch, il documento non sta «in principio» della ricerca storica, ma è subordinato alla «mente pensante» dello storico (Bloch [1950] 2009). E dunque, in questa prospettiva – sulla linea anche di Lucien Febvre e di altri «maestri della riflessione storiografica» – «tutto è documento, o […], almeno, tutto può diventarlo per lo storico sagace» (D’Orsi 2002, p. 61).

L’insistenza sull’importanza dei «discorsi sulla musica», allo stesso tempo, non deve allontanare dal centro della ricerca la «musica» – anche perché, banalmente, i discorsi sulla musica significano solo in rapporto a altre pratiche musicali. Una musicologia «senza musica», per quanto paradossale possa sembrare, è stata riconosciuta in molti degli approcci culturologici alla popular music.1 I materiali musicali, al contrario devono essere oggetto di

analisi a fini storiografici. Tutto sta nel trattare questi materiali, ancora, «dinamicamente» in quanto fonti di storia, e non come oggetto in sé o fine ultimo della ricerca. L’analisi, cioè, ha ragione di esistere solo nella misura in cui serve a scoprire qualcosa che non si sa, a confermare una tesi storiografica, e non a validare l’oggetto, o ad avvalorare gli strumenti interpretativi del ricercatore. Dal punto di vista dello storico, l’analisi musicale ha cioè senso in relazione al suo contesto storico e culturale, è documento. Il modello di analisi proposto e sviluppato da Philip Tagg (2012, et al.), che si basa sul «confronto interoggettivo» fra materiali musicali, spiegati a loro volta in relazione a «campi

1 Il gruppo di studio internazionale di recente fondazione, promosso da Philip Tagg, ben

mostra tanto la paradossalità di queste posizioni, quanto l’urgenza di superarle, fin dal nome: Network for the Inclusion of Music in Music Studies (NIMiMS).

paramusicali di connotazione», è perfettamente compatibile con questo progetto.

I materiali musicali devono anche essere analizzati in rapporto ai discorsi sincronici su di essi (quindi, in una prospettiva di «ricezione»). Inoltre, in casi più specifici – che meritano attenzione particolare – le stesse canzoni possono contenere informazioni utili allo storico dei generi. Molti brani sono di fatto «meta-canzoni», canzoni che parlano di canzone, e rappresentano una incredibile fonte per ricostruire le ideologie e i significati musicali (CAPITOLO

1.3.2.2). Le canzoni, del resto, vanno intese come oggetti intermediali, che significano come testo musicale, testo verbale, performance, e che circolano nel cinema e alla radio, su palchi di teatri e in televisione… Mai come semplici testi musicati.

Secondo questa concezione qualunque «oggetto», musicale o paramusicale, che possa essere analizzato e storicizzato è allora potenziale fonte per il nuovo storico della musica: nel caso della storia della popular music, un elenco parziale comprende (oltre agli stessi materiali musicali) interviste, articoli, riviste musicali e non, forum di fan su internet, fonti televisive, radiofoniche… Ma anche materiale promozionale, note di copertina dei dischi, pubblicità, documenti d’archivio, materiale iconografico e audiovisivo, e ogni altro materiale «paratestuale» (che è cioè «soglia» del testo, Genette 1989). Casomai, proprio per la qualità delle domande che lo storico pone al testo, è bene comprendere che molte di queste fonti – le fonti giornalistiche, per esempio – sono utili tanto per quello che contengono quanto per quello che omettono – siano singoli particolari, musicisti, etichette o interi generi musicali.

2.2.2. Le etichette di genere come principio d’ordine per la