Un modello pragmatico dei generi musical
1. Le teorie dei generi e la storia
1.3. I generi nella musicologia
1.3.1. Generi e musica assoluta
Il dibattito sui generi gode decisamente di minore fortuna nell’ambito della musicologia «convenzionale». Le idee sviluppate dalla critica letteraria di matrice semiotica e strutturalista sono filtrate in ritardo nelle discipline musicali, storicamente restie ad aderire alle mode accademiche. Questo ritardo ha di fatto limitato la portata di quelle stesse teorie nello studio della musica: arrivate – per così dire – fuori tempo massimo, esse sono divenute da un certo punto in poi «parte del problema» per la New Musicology, poco interessata alla struttura e molto di più all’ideologia e alla politica.
Se pure i modelli dei generi letterari e i loro sviluppi nel tempo hanno esercitato un’influenza, sono molte le specificità del campo musicale che ne rendono difficile l’applicazione. Ha notato Jean-Marie Schaeffer come nella musica, così come nella pittura, «il problema dello statuto dei generi non [abbia] alcuna incidenza rispetto alla domanda sulla natura di tali arti» (Schaeffer 1992, p. 8). I generi sono cioè serviti alla storia della letteratura per distinguere fra ciò che è arte e ciò che non lo è: romanzo, poesia, epica, costituiscono «ambiti regionali» artistici di un «ambito semiotico unificato» (ibidem) non interamente artistico: quello delle pratiche verbali. Il campo musicale eurocolto è già di per sé artistico, ed è (ideologicamente) interpretato come storicamente e musicalmente coerente: allora, le sue categorie devono rispondere unicamente ad una logica interna. Per questo motivo, la musica d’arte europea e i suoi sistemi di classificazione hanno goduto di una solidità maggiore rispetto alle altre culture musicali, con i centri di potere (le università, la Chiesa) impegnati a definire le proprie tassonomie e a detenerne il «monopolio», tralasciando tutta l’altra musica (Holt 2003, p. 80). Allo stesso tempo i generi letterari e le teorie che ne spiegano il funzionamento riguardano soprattutto l’organizzazione semantica e sintattica del discorso letterario, la
dimensione narrativa, e presuppongono concetti chiave – come «rappresentazione», o «finzione» – la cui applicabilità al discorso musicale risulta quantomeno ardua.7
L’influenza del dibattito letterario su quello musicale riguarda tuttavia almeno un modello in cui la musica era, in buona parte, non prevista: è il caso dell’estetica crociana. Il fatto che Croce avesse confessato apertamente la sua poca competenza in ambito musicale «non ha impedito però una trasposizione del crocianesimo anche sul piano della critica musicale» (Pennings 2009, p. 25). Il rifiuto verso i generi del filosofo napoletano trova seguaci nella critica musicale, e condiziona il dibattito degli anni successivi, anche negando in chiave anti-positivista la possibilità di fare storia con i generi (Fubini 1973). Da Croce muove anche Adorno (2009, p. 267) quando parla di «declino dei generi estetici in quanto generi».
L’idea di «musica senza genere» attraversa tutta la critica musicale del novecento: se la «nuova musica» non vuole i generi perché li vive come vincoli, ne deriva un’attenzione alla singola opera come «forma speciale e individuale» (Dahlhaus 1987, p. 32). Un corollario che ha conseguenze sull’organizzazione storica della musica, coerente con l’idea di «musica assoluta» (Tagg & Clarida 2003) e con la centralità dell’«opera» come oggetto di studio.
Dahlhaus, fra i musicologi più interessati ai generi, ne propone una visione storicizzata che distingue una concezione pre-classica (prima del diciassettesimo secolo), in cui i fattori primari per determinare il genere erano «testo e texture» e la «funzione» della musica, da una in cui la partitura e la forma sono al centro del riconoscimento del genere (Dahlhaus 1987, p. 32).8
L’idea della «disintegrazione» dei generi ha dunque senso in chiave storica, sia come superamento di una musica legata alla funzione, cui a partire dal diciottesimo secolo è negato lo status di arte, sia come rifiuto di una dipendenza da tipi e modelli. Nel novecento le strutture individuali delle singole opere si possono associare a un genere «solo per coercizione». Dahlhaus spiega come, a partire dalla fine del diciottesimo secolo, «il concetto di genere non sia più
7 Mentre, invece, possono efficacemente essere applicati a forme narrative come il
cinema classico: il che spiega perché le teorie dei generi della letteratura siano filtrate nella critica cinematografica.
8 Anche nel contesto della crescita del mercato musicale: in questo Dahlhaus
stabilito in anticipo per le opere individuali», e come ogni genere sfumi «verso una generalizzazione astratta, derivata dall’accumulo delle strutture individuali» (ibidem). Il concetto di genere, nella visione del musicologo tedesco, è strettamente legato a quello di «tradizione», in declino nell’ottocento e nel novecento (Kallberg 1988).
Le considerazioni di Dahlhaus non sono concepite all’interno di una teoria organica dei generi musicali, e la sua interpretazione è «restrittiva e deterministica», secondo Kallberg (p. 241). Quando si parla di teoria dei generi musicali, ammette in effetti stesso Dahlhaus, «ci sono solo inizi incerti».
There are only tentative beginnings when it comes to a theory of musical genres. Characteristic of the difficulties involved is the fact that it is impossible to decide in a reasoned and unambiguous manner whether a fugue is a genre, a form or a technique. Anyone who embarks upon an attempt to design a system of genres which does not violate their historical nature comes up against a logical difficulty at a very early stage, namely that at different times in history genres are determined by changing points of view, with the result that the order of main and subsidiary concepts becomes confused. (Dahlhaus 1987, p. 33)
La sostanziale mancanza di interesse continuativo nei generi musicali da parte della musicologia convenzionale si può allora spiegare con il ruolo negativo attribuito ai generi stessi, e con il fatto che avere a che fare con i generi implica avere a che fare con «punti di vista mutevoli», come dice Dahlhaus, poco conciliabili con interpretazioni «assolute» della musica. E, in fondo, poco utili in quel contesto.
1.3.2. Generi e stili
La questione è in effetti ideologica e linguistica insieme, e riguarda l’opposizione fra il concetto di genere e altri concetti come «forma», «tecnica» e, soprattutto, «stile». La musicologia ha spesso preferito il concetto di «stile» a quello di «genere» anche come principio per costruire la storia (gli «stili epocali», Knepler 1989). Dall’edizione del 1980 del Grove, per esempio, manca del tutto la voce «genre», mentre ampio spazio viene dato alla voce «style». «Stile» è, per Pascall,
[…a] term denotating manner of discourse, mode of expression; more particularly the manner in which a work of art is executed. In the discussion of music, which is orientated towards relationships rather than meanings, the term raises special difficulties: it may be used to denote music characteristic of an individual composer, of a period, of a geographical area or centre, or of a society or social function. […] For the historian a style is a distinguishing and ordering concept, both consistent of and denoting generalities; he groups examples of music according to similarities between them. […] Style manifests itself in characteristic usages of form, texture, harmony, melody, rhythm and ethos; and it is presented by creative personalities, conditioned by historical, social and geographical factors, performing resources and conventions […]. (Pascall 1980, p. 316)
Anche riconoscendo che nella lingua inglese il termine «genre» è meno comune nell’uso rispetto all’italiano «genere», la scelta di parlare di «stile» nei termini in cui lo fa Pascall suggerisce come il dibattito sui generi letterari in ambito strutturalista e post-strutturalista non sia, nel 1980, penetrato più di tanto nella musicologia. In realtà, molti dei predicati dello «stile» qui enunciati sono validi anche per il «genere», e si riconosce nella definizione quella «confusione dei concetti» di cui parlava Dahlhaus. I cenni che potrebbero suggerire una consapevolezza della semiotica e di un nuovo modo di intendere l’opera d’arte ci sono: si parla, ad esempio, di «risorse e convenzioni», sebbene i soggetti chiamati a «interpretarle» siano le «personalità creative». La nozione di «stile», dunque, rispecchia le ideologie della musica assoluta, ed è più funzionale rispetto a quella di «genere» nella trattazione del campo della musica eurocolta: permette, cioè, di cercare i significati e le categorie nella musica in sé, cioè nelle opere.
Gli aggiornamenti successivi del concetto di «stile» sembrano andare in direzione di quello di «genere», estendendo l’attenzione dai «pattern» che si ritrovano negli «artefatti» a quelli del «comportamento umano» in senso lato. Così ad esempio si esprime Leonard Meyer:
Style is a replication of patterning, whether in human behavior or in the artifacts produced by human behavior, that results from a series of choices made within some set of constraint. (Meyer 1989, p. 3)9
La successiva edizione del Grove inserisce una voce «genre», che contestualizza il cambiamento concettuale intorno ai generi musicali, situandolo proprio alla svolta dei sessanta, quando la prospettiva critica passa dall’attenzione alla natura dell’opera d’arte alla natura dell’esperienza estetica (Samson 2001, p. 658). Il genere può così diventare, in una prospettiva semiotica, un «contratto fra autore e lettore», uno dei codici più potenti che collega i due poli della comunicazione. I riferimenti teorici che l’autore della voce fornisce sono tutti tratti dalla teoria della letteratura: solo dalla metà degli anni ottanta – dunque in ritardo rispetto alla teoria della popular music10 – gli sviluppi della teoria dei
generi entrano nel dibattito musicologico in interventi a firma di Leo Treitler, Anthony Newcomb, Laurence Dreyfus e – soprattutto – Jeffrey Kallberg. I lavori su Chopin di quest’ultimo (Kallberg 1988), o quello dello stesso Samson (1989), dimostrano un rinnovato interesse per i generi come strumento di analisi. Anche il tema della «morte dei generi» si spiega, secondo Samson, solo nella misura in cui si adotta un modello di storia basato su grandi personalità, e non si considera la definizione e la funzione sociale dei generi (2001, p. 659).
Tuttavia, è la stessa definizione di «genere» proposta dal Grove a mostrare come lo statuto incerto dei generi musicali perduri, diviso fra interpretazioni conservatrici («generi come stili») forti di una solida bibliografia storica, e letture progressiste costrette ad adattare agli scopi della comunicazione musicale modelli di genere concepiti per la letteratura e la comunicazione verbale. La distinzione fra stile, genere e forma sembra tutto fuorché univocamente risolta, anche per mancanza di solide teorizzazioni su cui basarsi. La soluzione di Samson è salomonicamente efficace, ma risente del dover dar conto di interpretazioni radicalmente diverse, e oscilla fra una concezione «più ampia» e una «più limitata» di genere. Il genere è descritto come «una classe, un tipo, una categoria sanzionata per convenzione» (Samson 2001, p. 657), e dunque non-assoluto. Per dar conto di interpretazioni e usi molto variegati del termine, l’autore della voce riconosce come principio base dei generi la «ripetizione» (come prima aveva fatto Meyer per il concetto di stile).
Genre are based on the principle of repetition. They codify past repetitions, and they invite future repetitions. These are two very different functions, highlighting respectively qualities of artworks and quality of experience, and they have promoted two complementary approaches to the study of genre. (Samson 2001, p. 657)11
Dunque, il genere si può studiare come codificazione di ripetizioni passate, e riguarda dunque la poetica, o come codificazione di ripetizioni future (cioè come struttura prescrittiva), e riguarda la natura dell’esperienza estetica, le aspettative, i limiti in cui è possibile operare e interpretare e, di conseguenza, il problema della ricezione. Quello di «ripetizione» è un concetto sufficientemente ampio per essere articolato su più livelli: in senso stretto, la ripetizione è codificata al livello della musica in sé (come nello stile). Il genere mette ordine nel materiale musicale, e rappresenterebbe un principio conservatore se paragonato, ad esempio, a quello di «forma» o di «stile». Questo è il significato, ammette Samson, più comune (sicuramente, il più comune quando si parla di tradizione eurocolta). In senso lato, la «ripetizione» può riguardare qualsiasi aspetto: le ripetizioni sarebbero collocate «nel dominio sociale, comportamentale e perfino ideologico» (ibidem: si noti il «perfino»!). Tuttavia, il solo riferimento alle ripetizioni non sembra in grado di spiegare in modo efficace perché le categorie mutino nel tempo. Soprattutto, rimane fuori dal dibattito il tema di chi crei il significato generico (ovvero, le comunità musicali) e di come i generi «esistano» e vengano «usati» nella pratica quotidiana.