L’invenzione della «canzone italiana»
2. Canzone, italianità musicale e pubblico nazionale
2.5. Un luogo comune metodologico: Sanremo «specchio della nazione»
In una bibliografia sulla canzone italiana quantomeno lacunosa, il Festival di Sanremo rappresenta un’eccezione. Oltre a una sterminata offerta di pubblicistica sul tema (dizionari, raccolte iconografiche, repertori di aneddoti) esiste infatti un buon nucleo di lavori «seri» sul festival, di ispirazione e impostazione piuttosto varia. Ai lavori di Gianni Borgna (1980; 1998), e – più recentemente – a quelli di Serena Facci e Paolo Soddu (2011), di Roberto Agostini (2007; 2013), e dello storico Leonardo Campus (2015) si devono
sommare un’infinità di riferimenti in testi storici, sociologici, di costume, sulla storia dei media. Se gli storici italiani non si sono occupati seriamente di canzone, né hanno usato la canzone come fonte storica (fino a tempi recenti, almeno: CAPITOLO 2.3), Sanremo sembra godere, in totale controtendenza, di
una considerazione particolare, e si guadagna sovente citazioni in opere «serie» sulla storia nazionale (come affermato da Pivato 2002, p. 22; Campus 2015, p. 5).
Questa attenzione a Sanremo rafforza, anche nell’analisi storica e sociale, un principio del senso comune che quasi da subito ha accompagnato il Festival: l’idea di Sanremo come «specchio della nazione». Sarebbe cioè possibile raccontare l’Italia (e in particolare l’Italia del secondo dopoguerra) attraverso il Festival, e quelle canzoni rispecchierebbero la società italiana a loro contemporanea. È una tesi storiografica ben radicata, e pienamente compatibile con la scelta, comune a molta bibliografia, di concentrarsi sui «decenni d’oro» di Sanremo,24 e cioè sugli anni cinquanta e sessanta. Ed è un assunto che si
inscrive, senza che abbia mai destato troppe riflessioni critiche, già nel titolo – o nel sottotitolo – di molti di questi contributi: «Parole e suoni raccontano la nazione» (Facci & Soddu 2011), «L’Italia della Ricostruzione e del Miracolo attraverso il Festival di Sanremo» (Campus 2015), «Cinquant’anni di canzoni, cinquant’anni della nostra storia» (Borgna 1998), e altri esempi si potrebbero agevolmente trovare.
Nelle interpretazioni che del Festival sono state date si disegna una traiettoria perfettamente coerente con gli sviluppi del dibattito culturale italiano. È interessante provare a storicizzare queste interpretazioni. Nella percezione della critica «di sinistra», il Festival è stato – ed è, in parte – l’emblema delle miserie della società italiana, sineddoche non solo di tutta la «musica leggera» (in senso deteriore), ma anche di quello che la «musica leggera» rappresenterebbe: l’alienazione dell’individuo, il dominio del mercato, le politiche conservatrici degli enti pubblici e dell’industria culturale, la mentalità retrograda della nazione. Una citazione, quasi a caso, dalla ricca bibliografia a tema:
il festival dei primi sette anni è senza storia: non fa che consacrare e continuare la canzonetta degli anni quaranta, sopravvissuta alla guerra e al dopoguerra, accentuandone e portandone all’esasperazione i caratteri più scopertamente conformistici e sollecitatori del consenso. (Straniero 1978, p. 165)
Quello della «canzonetta» come strumento di consenso, medium «cattivo» in grado di rimbambire le masse, è un tema che taglia tutta storia della critica sulla canzone italiana fin dagli anni cinquanta, che si innesta sulle riflessioni sulla cultura di massa negli anni sessanta e che prosegue sulla stessa linea, senza particolari aggiornamenti, negli anni settanta. La grande evasione (Borgna 1980a), primo testo critico interamente dedicato al Festival, si colloca al culmine di questa parabola, e sembra chiudere simbolicamente il decennio dei settanta riproponendone per l’ultima volta l’intero repertorio ideologico e lessicale. Lo fa a partire dal titolo, che riprende un tema (e un vocabolo) caro ad Adorno, attraverso la premessa metodologica («Appunti su egemonia e blocco storico-ideologico nel pensiero di Gramsci, ovvero perché il socialismo passa anche per Sanremo»), fino ai capitoli dedicati a «festival come industria e come “apparato egemonico”», o a «falsa protesta e “rivoluzione passiva”».
Il successivo lavoro di Borgna su Sanremo (1998), rielaborazione del primo, espunge quasi totalmente questo genere di discorso, anticipando le più recenti e oggi familiari letture del Festival – post-riflusso, per così dire. In questa «nuova» concezione, le canzoni del Festival, bonarie e innocue, «dicevano del bisogno di un presente che prendesse cautamente le distanze dalle tentazioni dell’immediato passato e dalle tracce profonde che aveva lasciato», e testimoniavano «di una condizione più sfaccettata» legata alla «faticosa nascita della democrazia» (Facci & Soddu 2011, pp. 34-35). Le canzoni si spiegherebbero cioè nel contesto di una
Italia post-bellica, bisognosa di generose ricostruzioni, di guarire ferite, di ritrovare ideali e un senso della patria che si era smarrito [e che] aveva bisogno di una canzone che esprimesse tutto questo. (Castaldo 1990, p. 711)
In entrambe le interpretazioni, il Festival di Sanremo diviene oggetto di interesse di studio non come fenomeno musicale e spettacolare in sé, quanto piuttosto come fenomeno di costume, simbolo (o «specchio», appunto) di
qualcos’altro. In questo, il Festival è anche l’emblema della difficoltà di occuparsi di popular music dal punto di vista delle pratiche musicali. Gli «stratagemmi retorici» che Peppino Ortoleva ha riconosciuto come tipici degli studi sulla canzone informano buona parte dei lavori su Sanremo: la «presa di distanza» dall’oggetto con ironia o sussiego; la «nobilitazione» di un singolo musicista (o di un genere) che, nel caso di Sanremo, permette di salvare qualche buona canzone e sommergere il resto; e soprattutto la derubricazione della canzone a «indizio» per studiare «appartenenze sociali» e «identità del suo pubblico» (Ortoleva 2008, p. 307). Ovvero, l’assunto di Sanremo come «specchio dell’Italia». Il Festival è così diventato, tanto nel senso comune quanto in molta critica, l’emblema della «canzone italiana», e con essa della società italiana tutta. Usare Sanremo per fare storia sociale è naturalmente non solo legittimo, ma anche fondato metodologicamente nella pratica della storiografia post-Annales, che usa le «canzoni come fonte storiografica» ai fini dell’«allargamento del campo della ricerca storica» (Campus 2015, p. 3; si veda anche De Luna 2004). Tuttavia, se si aderisce a questo paradigma del rispecchiamento, la ricerca su Sanremo può finire con il sacrificare proprio quello che dovrebbe essere il suo tema primario: la canzone.
Nel seguire i cambiamenti (o l’immobilismo) della società italiana in rapporto alle canzoni di Sanremo si usa come termine di paragone un’idea di «canzone italiana» fissa, stabile, coerente, spesso stereotipata e ridotta a cliché. E si tralascia il fatto che Sanremo ha contribuito a creare (se non direttamente «inventato») quella stessa idea di canzone: ha contribuito a cristallizzarne gli elementi formali e tematici, e la ha associata perennemente a una rete di significati. Primo fra questi: l’«italianità», l’idea che una canzone possa contenere lo spirito nazionale e che possa quindi «rispecchiare» qualcosa che succede nella società. Ma è la canzone stessa a essere dentro la società, agente attivo ed elemento passivo allo stesso tempo. Si torna, allora, alla domanda iniziale: quale canzone italiana? Che elementi di coerenza interna, e di «italianità» aveva nei primi anni cinquanta quella che andava sotto l’etichetta di «canzone italiana» – al netto, ovviamente, dell’essere cantata quasi sempre in lingua italiana? Come era recepita dai pubblici di quegli anni? Che ruolo hanno Sanremo, e le politiche della Rai nel creare questa idea di «canzone italiana»? In sostanza, come e quando nasce la «canzone italiana» così come la conosciamo?
3. L’invenzione della «canzone italiana»